Fuori dal capitalocene.

Dall’uomo indebitato all’uomo frugale

img- generata da IA dominio pubblico

di V. Pellegrino

Noi non difendiamo la natura,
noi siamo la natura che si difende”

Youna Marette – Ecoattivista

Questa frase, pronunciata da un’attivista per l’ambiente di 17 anni nel corso di un convegno organizzato da Women 4 climate”, non è un gioco di parole né un semplice slogan. Essa indica invece l’indispensabile, radicale cambio di prospettiva con cui guardare in avanti. Essa ci rammenta come l’umanità sia parte integrante dell’ecosistema planetario che chiamiamo natura, che ci comprende e dal quale dipende la nostra stessa esistenza così come quella di tutte le altre forme di vita. E come parte della natura, una porzione sempre più cospicua dell’umanità, in particolare le nuove generazioni, reagisce in forma difensiva – autodifensiva alle devastazioni che il Capitalismo predatorio che domina il nostro tempo sta producendo. In questa svolta, in questo cambio di prospettiva, emerge in tutta la sua paradossalità il nucleo dell’ideologia liberista che vede il Capitalismo come uno stato-di-natura, una dimensione naturale (non costruita) in cui l’uomo, l’homo oeconomicus per la precisione, può muoversi con spontaneità seguendo la propria connaturata propensione all’utile individuale, senza alcuna necessità di costituire istituzioni di espressione e attuazione della volontà collettiva. In questa ottica, lo Stato stesso diviene pressoché superfluo: la sua utilità si riduce all’organizzazione della macchina repressiva (polizia, tribunali e carceri) e all’imposizione e alla gestione, per conto del grande capitale tecno-finanziario, delle continue emergenze attraverso le quali si producono rendite e profitti senza nessun beneficio per la società, anzi a suo danno, ad iniziare dalle guerre dilaganti. Questa visione “naturalistica” del Capitalismo (alla cui magistrale confutazione è dedicata l’intera opera dello storico dell’economia, sociologo e antropologo Karl Polanyi) si rovescia, attraverso il cambio di prospettiva prospettato dalla citazione, nella presa d’atto che ci troviamo a sopravvivere tra le spire soffocanti e in fine mortali del Capitalocene0.

La tesi di questo articolo, la necessità di avviare una nuova fase della storia della vita umana sulla Terra basata sulla sua reintegrazione nell’ecosistema complessivo, passa attraverso l’esigenza di costruire una dimensione politica del tutto nuova che potremmo definire come Democrazia diretta radicale e automatizzata. L’essere umano sociale e frugale, in contrapposizione all’individuo egoista e consumista, diviene il nuovo protagonista della Storia.

Nella prospettiva di radicale cambiamento del mondo che i tempi presenti ci costringono ad affrontare, in un sistema in cui la ricchezza socialmente prodotta è appropriata e tesaurizzata da un ristretto manipolo di soggetti ricchissimi che lasciano in una miseria prodotta artificialmente il resto dell’umanità e in condizioni sempre più critiche l’intera biosfera, si viene ben presto a cozzare su quella che definisco “questione del potere”. Una delle attuali sfide per il cambiamento, insieme a quella di pensare, sperimentare, mettere in atto forme di autodeterminazione collettiva nuove e all’altezza delle necessità, sta proprio nella capacità di individuare e attaccare eventuali punti critici dell’attuale sistema. Il venir meno della dimensione politica intesa come spazio pubblico e luogo del conflitto, del dibattito e della mediazione prodotto dal vigente regime di potere, che potremmo definire, come vedremo più avanti, “governamentalità algoritmica”1, mostra l’attuale assetto di dominio come inscalfibile, ineludibile e ineluttabile. Le sue barriere, i suoi muri difensivi si dematerializzano per dislocarsi già all’interno del soggetto, nella sua psiche; la dimensione molecolare dei processi algoritmici che reggono il mondo spunta e neutralizza all’origine pressoché ogni capacità critica e sovversiva di un potenziale nuovo soggetto collettivo: in questo stato di cose, è lecito chiedersi se abbiamo ormai varcato una soglia di non-ritorno. Domanda alla quale, guardando alla pressoché totale paralisi, teorica e pratica, in cui si trovano i movimenti sociali e politici oggi, viene da dare, con sgomento, una risposta affermativa.

LA VELLEITARIETÀ DELL’UTOPIA

Con il presente contributo si intende proseguire la riflessione programmaticamente orientata allo sviluppo di una “teoria del cambiamento possibile e necessario” cui si è dato inizio con l’articolo “Tecnopolitica per il comune – Red Stack vs. Automa capitalistico”, comparso nell’ultimo numero di Rizomatica. La tesi fondamentale che vi si sosteneva era che, per poter uscire dalle spire ipnotizzanti e paralizzanti della “governamentalità algoritmica”, è necessario immaginare, teorizzare, sperimentare un modo alternativo di utilizzo dell’infrastruttura globale rappresentata dalla rete Internet. È evidente come una simile proposta di azione abbia una natura fortemente utopica e come essa possa facilmente essere additata come velleitaria. Ma ogni utopia, rappresentando non una meta da raggiungere ma una mira verso cui direzionarsi, non può che essere velleitaria, spingendosi per forza di cose oltre i limiti dell’attuale possibile.

In “Tecnopolitica per il comune” si sosteneva come la colonizzazione del web ad opera delle piattaforme digitali proprietarie, siano esse social network veri e propri quanto piuttosto siti di vendita, di commercializzazione, di scambio e quant’altro, abbia costituito un elemento fondamentale nel processo di privatizzazione e messa a profitto della più importante infrastruttura tecnica e cognitiva del nostro tempo, minandone alla base la potenziale natura di spazio pubblico e di strumento di emancipazione. Le piattaforme digitali sono private e funzionano ed agiscono secondo la logica propria del capitale: massimizzare i profitti ed accumulare il capitale. Attribuire il valore di “spazio pubblico” a questi contesti virtuali/reali, come sembrano fare, forse più in passato che oggi, molti utenti “politicamente attivi” dei social network nel loro più o meno intenso attivismo digitale, non solo è un errore di valutazione ma porta ad una condotta inutile e controproducente. I social proprietari sono pensati e progettati per favorire la produzione gratuita e la messa on-line di contenuti da parte degli utenti, che diventano così dei prosumers. I contenuti si moltiplicano con un “effetto trascinamento”: tanto più numerosi sono i contenuti disponibili su di una determinata piattaforma, tanto più numerosi saranno i nuovi contributi: in altre parole, più e grande una piattaforma, quanti più iscritti può vantare, tanto più essa diventa attrattiva nei confronti dei nuovi utenti che intendano farne uso per diffondere il proprio messaggio, di qualsiasi natura esso sia. Si tratta di processi assimilabili a quelli di monopolizzazione industriale, economica e finanziaria. Come “denaro produce denaro”, così “utenti producono utenti” e contenuti altri contenuti. Se intendo dare massima visibilità ad un contenuto video e/o audio che voglio far conoscere, sarò praticamente costretto a pubblicarlo su YouTube; se usassi invece la piattaforma alternativa, libera e non proprietaria PeerTube, potrei raggiungere solo le poche migliaia di utenti che vi sono iscritte.

Se da un lato è necessario evidenziare il grande protagonismo del settore privato nell’accaparrarsi spazio virtuale sulla rete (la grande deriva privatistica che ha investito, così come l’economia reale e gli asset economici tradizionali, il settore digitale ed il web a partire dai primi anni Duemila), è altrettanto doveroso sottolineare la totale assenza degli Stati e dei soggetti pubblici in generale nell’intraprendere iniziative di interesse pubblico nel campo informatico, a dimostrazione che non saranno certo gli apparati di Stato ad arrestare la vorticosa deriva privatistica e monopolistica in corso. Non solo funzioni fondamentali, di evidente “pubblica utilità”, come per esempio la conoscenza della rete stradale o delle condizioni del traffico in tempo reale, non sono fornite dai rispettivi governi, anche locali, bensì proficuamente appropriate da Google, ma anche servizi di base come il cloud, fondamentale per l’ulteriore sviluppo della digitalizzazione, sono forniti a pagamento da soggetti privati, allargando ancor più il già enorme “digital divide”. Durante la pandemia, la Scuola italiana si è messa nelle mani dei monopoli globali adottando Google Suite per la didattica a distanza. Non solo le aziende ma gli Stati stessi si trovano in una condizione di dipendenza dai colossi informatici americani. Nel momento in cui l’identità digitale sta, nei fatti, se non ancora nel principio, integrando se non sostituendo l’identità personale tradizionale, la questione dei “diritti digitali”, pensati ovviamente in un contesto internet e sociopolitico del tutto nuovo, assurge a importanza primaria. Nel settore digitale, come in tutti gli altri, lo Stato non solo agisce come “capitalista generale”2 ma si restringe e minimizza per lasciare libero spazio alla speculazione privata. Mai come oggi gli Stati nazionali, a parte forse poche eccezioni caratterizzate da forme autoritarie di governo, appaiono superati e travolti da colossali soggetti privati in grado di controllare pressoché ogni aspetto del mondo e delle nostre vite. La vicenda in corso della commercializzazione di massa dell’Intelligenza artificiale, una tecnologia in grado di cambiare nel profondo i connotati della società umana, conferma pienamente il trend liberticida che caratterizza la storia degli ultimi quarant’anni: intanto portiamo a casa i soldi… e quel che sarà, sarà!

LE SOCIETÀ DI CONTROLLO

Prevedere il futuro, anticipare all’umanità il suo più o meno prossimo destino, non è certo cosa da poco né per tutti. Ciò richiede una grande intelligenza dello stato presente del mondo coniugata a una spiccata capacità di intuire quali saranno i processi di trasformazione prevalenti, i fattori di cambiamento che risulteranno determinanti nella formazione del futuro, più o meno prossimo.

Pochi autori hanno dimostrato, alla prova dei fatti, tale capacità di anticipare il futuro. Chi più di ogni altro ha saputo proiettarsi in avanti rispetto alla propria epoca è stato Karl Marx, nello specifico quello dei Grundrisse, alias Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica e, all’interno di quest’opera, del giustamente famoso cosiddetto “Frammento sulle macchine” nel quale il “nostro” arriva a prevedere nientemeno che il superamento della legge del valore classica e dello stato di miseria e penuria generalizzata in cui si è sviluppato il capitalismo fino ad oggi, prevedendo il costituirsi di condizioni di abbondanza e ricchezza per tutti. Egli scrive:

omissis Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro.” … omissis

Per un’analisi più approfondita di questo testo fondamentale e per le implicazioni, teoriche e pratiche, che esso porta con sé, rimando al mio articolo “Se le macchine di Marx siamo noi” pubblicato nel n° 1 di Rizomatica.

Se Marx con questo scritto riesce a preconizzare con 160 anni di anticipo delle possibilità di emancipazione che solo oggi, per effetto della digitalizzazione generalizzata della società, si stanno effettivamente concretizzando, Gilles Deleuze con il suo Poscritto alle società di controllo, scritto e pubblicato nel 1990, cioè prima della nascita del World Wide Web, riesce a prevedere con una precisione impressionante le pressoché esatte forme della società attuale. Potremmo, con i dovuti distinguo e un po’ scherzosamente, azzardare questa relazione che, in forma matematica, potremmo esprimere così:

Il Poscritto alle società di controllo : Gilles Deleuze = Il Frammento sulle macchine : Karl Marx

In entrambi i casi si tratta di testi brevi, concisi, densi di significato, oltre che sorprendentemente anticipatori rispetto al tempo in cui sono stati scritti. Nel “Poscritto” Deleuze, richiamandosi a precedenti lavori di Michel Foucault (1926 – 1984), riassume le diverse forme di società che si sono succedute nella modernità: le società di sovranità, basate ancora sul potere della nobiltà e sulla proprietà della terra, come retaggio del Medioevo e del Feudalesimo, erano orientate a “prelevare piuttosto che a organizzare la produzione”, a “decidere della morte piuttosto che organizzare la vita”. Esse si estingueranno progressivamente, a partire dall’Europa, con l’età napoleonica. Ad esse succederanno le società che Foucault chiamerà disciplinari, caratterizzate dal continuo passaggio dell’individuo da un un’ambiente chiuso ad un altro: dalla famiglia alla scuola, dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica, passando all’occorrenza per l’ospedale, eventualmente per il manicomio, il convento o la prigione, quest’ultimo luogo di internamento per antonomasia. In questo continuo passaggio dell’individuo attraverso questi luoghi di segregazione, definiti anche come “istituzioni totali”, la vita dei singoli è sottoposta ad un rigido e costante disciplinamento. Nel secondo dopoguerra si assiste ad una crisi verticale e generalizzata di tutti gli ambienti di internamento: anche se lo Stato non intende ammetterlo ed annuncia continue riforme, la famiglia, la scuola, la caserma, l’ospedale, per non parlare della fabbrica o del convento, sono tutte istituzioni in crisi, finite, a più o meno breve scadenza. La famiglia non si forma più e dove si forma spesso poi si disintegra; alla scuola si sostituisce la così detta “formazione permanente”; il servizio militare di leva, generalizzato, è sostituito dall’esercito di professionisti; l’ospedale è sostituito dal “day hospital”; la prigione dal braccialetto elettronico e così via. Soprattutto, la fabbrica, come luogo fisico dove veniva attuata la produzione di beni altrettanto fisici, è soppiantata dalla produzione snella, just in time, distribuita su filiere lunghe e ramificate; “nella società di controllo l’impresa ha sostituito la fabbrica e l’impresa è un’anima, un gas”3; inoltre, ormai da tempo, lo stock dei beni immateriali (fornitura di servizi) ha superato in valore quello dei beni materiali.

Scrive Deleuze nel Poscritto: “È facile far corrispondere a ogni società specifici tipi di macchine, e non perché le macchine siano determinanti, ma perché esprimono le forme sociali in grado di generarle e di servirsene. Le vecchie società di sovranità manovravano macchine semplici: leve, pulegge, orologi; mentre le recenti società disciplinari erano invece dotate di macchine energetiche, con il rischio passivo dell’entropia e il pericolo attivo del sabotaggio; le società di controllo operano con macchine di un terzo tipo, macchine informatiche e computer, il cui pericolo passivo è l’interferenza e quello attivo la pirateria e l’introduzione di virus. Non c’è evoluzione tecnologica senza che, nel più profondo, avvenga una mutazione del capitalismo.” E ancora: “… nella situazione attuale, il capitalismo non è più orientato alla produzione, … È un capitalismo dell’iperproduzione. … Non è più un capitalismo per la produzione ma un capitalismo per il prodotto, cioè per la vendita o per il mercato.” Da queste parole, vediamo bene come nell’attuale regime economico, la governamentalità algoritmica che sta prendendo il posto del neoliberalismo, in violento contrasto con quanto preconizzato da Marx nel “Frammento”, prenda ancor più il sopravvento il valore di scambio sul valore d’uso, il ricavato dalla vendita sull’utilità della produzione. “Il marketing è ora lo strumento del controllo sociale… L’uomo non è più l’uomo rinchiuso ma l’uomo indebitato4”.

Nel passaggio dalle società disciplinari alle società di controllo, il processo di astrazione5 non solo non si attenua ma prende il volo: se nell’epoca industriale la produzione rispondeva ancora all’esigenza di dare riscontro a ben determinati bisogni riproduttivi, per quanto anch’essi indirettamente indotti dall’industrializzazione stessa: l’attività edilizia all’esigenza di alloggi connessa al grande processo di urbanizzazione di massa, l’automobile a quello crescente di mobilità individuale dei lavoratori, gli elettrodomestici a quello di ridurre il lavoro domestico per favorire lo sfruttamento anche delle donne nel processo produttivo capitalistico, oggi la produzione non risponde più a bisogni materiali concreti ma a desideri istillati artificialmente attraverso l’attrazione feticistica esercitata dall’oggetto tecnologico e la proposta “culturale” personalizzata basata sulla profilazione personale. I big data non hanno altro scopo che questo: fornire la base dei dati necessari a indurre e alimentare i consumi. La produzione infatti, da un lato, si dematerializza, diviene produzione di “informazione”, di “contenuti semantici” piuttosto che di oggetti fisici, dall’altro, aderisce sempre più al soggetto, all’individuo per come è forgiato dal main-stream “culturale” e dal marketing strategico. Grazie a tecniche del controllo attenzionale sempre più sofisticate, il desiderio stesso, ciò che, a partire dalla psicanalisi freudiana e, in modo più preciso, da quella lacaniana, tutto il pensiero critico e alternativo pone a base del senso stesso della vita umana singolare, diviene calcolabile! Potremmo dire, usando la terminologia del filosofo Bernard Stiegler, al cui pensiero verremo tra breve, che il desiderio, esteriorizzato attraverso tecniche algoritmiche che si evolvono incessantemente, incorporando le più recenti risultanze della ricerca neuroscientifica e orientandone lo sviluppo, si re-interiorizza attraverso un processo di manipolazione subliminale e profonda finalizzato, ancora una volta, alla massimizzazione dell’utile economico.

LA SOCIETÀ AUTOMATICA

È proprio la calcolabilità algoritmica, la traduzione in cifra di ogni aspetto della vita umana, l’oggetto della critica e del grande lavoro di analisi, ma anche di ricerca di emancipazione, sviluppato a partire dagli anni ’90 del secolo scorso dal filosofo francese Bernard Stiegler. Fin dalle sue prime opere6, Stiegler pone la questione della tecnica, e quindi della tecnologia, al centro della sua riflessione filosofica, mettendo in evidenza, in dialogo critico con Martin Heidegger e col supporto delle opere dell’antropologo André Leroi-Gourhan, del filosofo Gilbert Simondon, dello storico Bertrand Gille, come non solo il processo di ominazione ma lo stesso concetto di temporalità dipendano dallo sviluppo della tecnica e della tecnologia. Questa connessione è così profonda da rendere indistinguibile “soggetto” e “oggetto” di questa relazione, stabilire cioè se sia l’uomo a forgiare la tecnica, secondo la tesi filosofica classica che distingue Episteme da Téchne, o se sia lo sviluppo tecnico e tecnologico a plasmare, non solo antropologicamente ma finanche geneticamente, la nostra specie. Quello tra l’uomo e la tecnica si configura in realtà come un rapporto di reciproca retroazione, di feedback bidirezionale. Secondo Stiegler, proprio la netta separazione tra Episteme e Téchne che la filosofia occidentale nel corso della sua storia non ha mai cessato di operare, sta alla base dell’incapacità del pensiero filosofico stesso di dar adeguatamente conto di questa relazione, precludendosi così la possibilità di divenire strumento di emancipazione dell’uomo da una relazione schiavizzante con la tecnica. Come l’uso concreto degli strumenti tecnici riverberi sulla natura umana e questa, così modificata, possa dar luogo ad un ulteriore sviluppo della conoscenza e della scienza e alla messa a punto di strumenti ancor più evoluti, in un circolo (se virtuoso o vizioso è in relazione a considerazioni di carattere etico prima ancora che politico) potenzialmente illimitato, costituisce la proposta di studio e di azione incessantemente sviluppata da Stiegler.

Con l’opera La Société automatique7 del 2015, Stiegler contestualizza al nostro presente tale approccio. Attraverso una serie di “concetti chiave”, egli intende dimostrare come l’attuale assetto tecno-politico del mondo, ciò che, sulla scia del lavoro di Antoinette Rouvroy e Thomas Berns8, possiamo definire “governamentalità algoritmica”9, rappresenti l’evoluzione digitale, l’automatizzazione attraverso digitalizzazione, del capitalismo giunto al suo stadio iper-industriale. In questo stadio, non è più solo il mondo materiale, esteriore, ad essere colonizzato dall’attività industriale, ma questa si spinge ad incorporare, attraverso l’industria delle tracce e sempre più sofisticate psicotecniche, la stessa dimensione interiore dell’umano. La grammatizzazione del vivente resa possibile dalla digitalizzazione algoritmica è in grado di produrre una nuova forma di “ritenzioni terziarie”, cioè la registrazione e sedimentazione, l’esteriorizzazione, ora su supporti digitali, della memoria. Questa nuova specie di ritenzioni terziarie è in grado di condizionare le “ritenzioni secondarie”, cioè il funzionamento della stessa memoria interna, che a loro volta agiscono sulle “ritenzioni primarie” cioè sulla percezione cosciente della realtà10. L’effetto delle ritenzioni terziarie digitali sulle ritenzioni secondarie e di queste, a catena, sul nostro modo di percepire il mondo, viene a determinare un vero e proprio cortocircuito che neutralizza e sussume le protensioni, cioè ciò che succede (avviene dopo) immediatamente all’attimo presente e che determina la formazione del futuro. La cattura delle protensioni operata dalla governamentalità algoritmica attraverso le ritenzioni terziarie digitalizzate determina una distruzione dei saperi11 e un processo di proletarizzazione generalizzata che si estende dall’ambito familiare, con la crescente difficoltà di educare i figli, sino ai più alti livelli istituzionali: Stiegler porta l’esempio della deposizione di Alan Greenspan (allora presidente della Federal Reserve) davanti al Congresso degli Stati Uniti in seguito al crack finanziario del 2008 durante la quale, interrogato sulle cause del tracollo, non ha potuto che rispondere, in sostanza: “oggi fanno tutto le macchine”, svilendo così il suo proprio ruolo istituzionale.

Al centro della riflessione stiegleriana stanno i concetti, derivati dalla fisica, di entropia e neghentropia e i correlati, di sua ideazione, di antropia (l’entropia prodotta dall’uomo), negantropia e Negantropocene, quest’ultimo come rovesciamento di un termine molto alla moda ai nostri giorni, cioè quello di Antropocene12. Stiegler, attraverso la critica e il superamento del pensiero della tecnica prodotto prima da Heidegger e Sartre e poi da Canguilhem, Simondon e Foucault, Derrida e Deleuze, propone, sulla scia del pharmakon di Platone, un approccio farmacologico alla questione della tecnica, la quale può rappresentare al contempo tanto un veleno quanto un rimedio. In questa critica a quello che potremmo definire pensiero debole, inteso sia in senso proprio, con riferimento al filosofo italiano Gianni Vattimo (proprio recentemente scomparso), che in senso lato, come a quel pensiero che rifiuta o non è in grado di farsi carico della questione della tecnica (che lungi dall’essere una questione prettamente scientifica, è una questione di fondamentale rilevanza tanto filosofica che antropologica)13 , pone la necessità di un pensiero forte cioè che abbia la capacità e l’ardire di biforcare14 rispetto all’attuale traiettoria distruttiva del mondo. Egli pone il problema in questi termini.

Dopo la «grande trasformazione» descritta da Karl Polanyi nel 1944, che installò quel che oggi viene chiamato l’Antropocene, si produce un’immensa trasformazione che dischiude un’alternativa:

– condurre ad una iper-proletarizzazione e ad un pilotaggio automatico generalizzato, che genererebbero al tempo stesso una insolvibilità strutturale e un aumento vertiginoso dell’entropia;

– oppure spingerci a uscire dal processo di proletarizzazione generalizzata al quale il capitalismo industriale ci conduce da 250 anni: incrementare così lo sviluppo massivo di capacità neghentropiche attraverso una politica noetica della reticolazione, che ponga gli automatismi al servizio di capacità individuali e collettive di dis-automatizzazione – ossia della produzione di biforcazioni neghentropiche.15

Nonostante la profonda consapevolezza della tossicità del presente e degli ancor più grandi pericoli a cui questa condizione ci espone, Stiegler non si è mai abbandonato alla rassegnazione16 ma ha continuato ad intravvedere e a indicarci la possibilità di una deleuziana via di fuga. Ha anzi trovato ragione di attaccare duramente l’antropologo Claude Lévi-Strauss per quanto esso ha sostenuto nelle conclusioni di Tristi Tropici17, con particolare riferimento alle affermazioni: «il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui» e che l’uomo lavora «alla disgregazione di un ordine originario e precipita una materia potentemente organizzata verso un’inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva», aggiungendo che «da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all’invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco – e salvo quando si riproduce – l’uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione». Stiegler accusa Lévi-Strauss di una ‘caduta’ nichilistica fine a sé stessa e, soprattutto, immotivata; insieme ad una serie di altre considerazioni, in Uscire dall’Antropocene egli afferma: «È ingannevole lasciar credere, come fa Lévi-Strauss, che l’uomo abbia un’essenza entropica e che distrugga una «creazione» che sarebbe per essenza neghentropica in quanto «natura» – vivente, abbondante e feconda, fatta di vegetali e animali. In realtà, vegetali e animali sono programmazioni organiche di materia inerte altamente improbabili (come lo è ogni neghentropia), che si dispiegano solo intensificando a loro volta dei processi entropici: loro stessi non fanno che deviare [détourner] il divenire in maniera tanto provvisoria quanto vana. Consumando e perciò dissociando quelle che Lévi-Strauss chiama «strutture», ogni creatura vivente partecipa a un aumento locale di entropia allo stesso tempo in cui produce in modo ancora più locale un ordine neghentropico». Non è dunque l’uomo ad essere fonte di entropia ma, come ci mostra il 2° principio della termodinamica, la natura stessa, il mondo e l’intero cosmo sono soggetti alla sua [dell’entropia] ineludibile azione. Le forme di vita rappresentano una localizzata e temporanea inversione del processo entropico (neghentropia), inversione che viene compensata da un suo aumento specifico prodotto dalle forme di vita stesse sul loro ambiente. Tuttavia, l’uomo, in quanto dotato di ragione, si trova nella condizione di dover “essere degno di ciò che accade” e la ragione stessa va intesa come “ciò che rende il sopravvivere un ben-vivere e il ben-vivere un vivere meglio, dunque una lotta contro la sopravvivenza statica, che non è altro che la tendenza entropica di ogni forma di vita”18.

Morendo precocemente, il filosofo francese, oltre a lasciarci privi di una guida fondamentale per i tempi sempre più difficili che ci troviamo ad affrontare, non ha potuto portare a termine l’originario progetto de La Società automatica, il quale doveva comporsi, oltre che del primo volume – titolato L’avvenire del lavoro, anche di un secondo che avrebbe portato il titolo L’avvenire del sapere, nel quale si riproponeva di affrontare e sviluppare vari temi che nel primo volume sono solo accennati. Ciononostante, considerata la sua ponderosa e poderosa opera, il suo cospicuo lascito è assicurato o, meglio, lo sarà nella misura in cui sapremo approfondire e, soprattutto, attuare, tradurre in pratica, le prospettive di emancipazione e liberazione che il suo lavoro ci aiuta a delineare.

Proprio in riferimento a questa prospettiva, credo valga la pena qui riportare alcune citazioni delle sue opere. Rispetto appunto alla necessità di rovesciare la governamentalità algoritmica, egli scrive:

La fine dell’impiego [leggasi, del lavoro salariato] esige che la reticolazione digitale sia … messa al servizio di un processo massivo di pollinizzazione noetica, vale a dire dell’otium del popolo che ricostituisca una solvibilità [in senso ambientale] a lungo termine e basato sulla negantropia come valore del valore”.19

Trasvalutare il rovesciamento di tutti i valori compiuto dal calcolo è ciò che deve fare il lavoro e il suo valore nel Negantropocene. In tale compito risiede il suo [del lavoro non-salariato] avvenire come economia negantropica della pollinizzazione noetica fondata sulla valorizzazione delle intermittenze, ossia sui processi di capacitazione20 e deproletarizzazione che le esternalità positive rendono possibili, e in vista dei quali si tratta conseguentemente di organizzare la ridistribuzione degli immensi guadagni di tempo realizzati dall’automatizzazione integrale e generalizzata”.21

Reincantare il mondo vuol dire allora contrastare l’impoverimento simbolico, cognitivo, affettivo che caratterizza il mondo occidentale, mediante <un nuovo progetto industriale che bisogna inventare e che miri a intensificare la singolarità in quanto incalcolabile, socializzando dei dati che non possono essere ridotti a oggetti di un mero calcolo economico. Si tratta di inventare l’industria del calcolo che impedisca di calcolare (sul)le esistenze – ma inventarla con strumenti digitali.>”.22

Altra questione fondamentale che Stiegler affronta nella sua opera, avvalendosi del lavoro dei già citati giuristi e filosofi del diritto Antoinette Rouvroy e Thomas Berns23, è quella della necessità di passare da uno stato di fatto [il presente] a uno stato di diritto [l’avvenire che dobbiamo realizzare]. In un articolo molto interessante dal titolo “Il regime di verità digitale. Dalla governamentalità algoritmica a un nuovo Stato di diritto”24, Rouvroy e Stiegler, in un dialogo dai toni alti e serrati e da angoli di prospettiva diversi, affrontano il tema della relazione tra stato di fatto e stato di diritto nell’attuale regime di governamentalità algoritmica, nel quale, a causa degli effetti a catena prodotti dallo stato di shock rappresentato dalla nascita di Internet, il secondo è sostanzialmente ridotto al primo, ponendo la necessità di un diritto del nostro tempo che sia in grado “di rivisitare la differenza tra fatto e diritto, e poterci ri-istruire sul fatto che il diritto non è mai riducibile al fatto”, tentando così di aprire, attraverso l’attuazione di una serie di biforcazioni, delle reali prospettive di emancipazione.

DALL’UOMO INDEBITATO A L’UOMO FRUGALE

Sulla scia di Stiegler, che ci invita a fare della “negantropia” il valore del valore, e a partire dalla constatazione, riportata nelle conclusioni del Poscritto alle società di controllo di G. Deleuze, che oggi l’uomo non è asservito attraverso la disciplina e la gerarchia ma attraverso il marketing subliminale e l’indebitamento, serve avere la forza e la determinazione di alzare lo sguardo verso il futuro, verso un avvenire ecologicamente solvibile e umanamente desiderabile e ciò a prescindere che un tale futuro sia o meno a nostra effettiva attale portata.

In questa direzione, è opportuno prendere atto che le condizioni materiali di vita dell’uomo sulla Terra sono legate a necessità estremamente ridotte, sostanzialmente due:

  • Alimentazione (nutrizione fisiologica)25;
  • Riparo: fisso (la casa) e portatile (l’abbigliamento).

Tutto il resto dei beni materiali di cui ci attorniamo è facoltativo, non strettamente necessario. Assicurato l’appagamento di queste strette necessità, le stesse degli altri mammiferi, la specie è perfettamente in grado di imbastire e sviluppare relazioni intraspecifiche (interne alla specie umana), extraspecifiche (verso le altre forme di vita presenti sul pianeta) e oggettuali (nei confronti degli oggetti). Nel corso della sua evoluzione, per ragioni che non potremo qui approfondire, la nostra specie ha posto la relazione con gli oggetti, e quindi con la tecnica, in una condizione di preminenza sulle altre relazioni: anche in condizione di solitudine, l’uomo può fare affidamento sugli oggetti tecnici che ha approntato e affinato. La relazione umana più affidabile è quella con i propri strumenti, quella che lo è di meno è quella con gli altri umani, soggetta com’è a fattori di tipo politico, quella con le altre forme di vita è in una posizione intermedia: le piante e gli animali non tradiscono ma sono soggetti alle vicissitudini della vita, possono ammalarsi e/o morire. Sul piano etico, spesso piante e animali sono stati equiparati ad “oggetti utili”. Paradossalmente, è proprio la relazione con gli oggetti (tecnici) che ha segnato più profondamente il processo di ominazione: più che un “animale sociale”, l’uomo è un “animale tecnico”, oggi più che mai. Le dimensioni sociale e tecnica/tecnologica dell’uomo si sono intrecciate nel determinare le sorti biologiche, antropologiche e storiche della specie.

Una nuova cultura, basata sul pensiero noetico e su di una visione olistica del mondo, deve farsi carico della solvibilità ecologica a lungo termine della nostra presenza sulla Terra. Deve riconoscere e promuovere la neghentropia come valore del valore e, attraverso una serie di biforcazioni, portarci fuori dal Capitalocene. Dobbiamo recuperare quell’immenso patrimonio di conoscenze e saperi (savoir-faire, savoir-vivre, savoir-penser) che la specie ha prodotto nel corso della sua evoluzione e che è stato in massima parte annientato con l’avvento della razionalizzazione che ha accompagnato e caratterizzato l’affermarsi del modo di produzione capitalistico. Dobbiamo imparare dai popoli nativi le forme di sussistenza ad impatto-zero che contraddistinguono il loro modo di vivere, ritrovando un modo “leggero” di calcare la superficie della Terra. Dobbiamo sbarazzarci dell’apporto tossico del pharmakon digitale, mettendo la digitalizzazione a servizio della Negantropologia, la nuova era dell’umanità che serve aprire attraverso il lavoro non-salariato.

POLITICA AUTOMATICA VS CAPITALOCENE

Nella prospettiva di recuperare una solvibilità a lungo termine della presenza umana sulla Terra, scartata qualsiasi ipotesi di natura luddista che preveda il rigetto delle nuove tecnologie a favore di un “ritorno al passato” (la disconnessione è impraticabile: al di là della non auspicabilità di una simile prospettiva, il genio non può comunque rientrare nella lampada, così come la direzione del tempo non può essere invertita, almeno allo stato attuale delle conoscenze..), serve mettere all’opera il General Intellect26 affrancandolo dall’asservimento al Capitale e ponendolo a servizio della reintegrazione dell’umano nell’ecosistema planetario. È proprio pensare, progettare, sperimentare una forma di reticolazione digitale in grado di configurare e far esprimere “L’Intelligenza collettiva”27 globale, la sfida che ci attende.

La necessità di riparare gli enormi danni inflitti al pianeta, alla società, agli individui e alla loro psiche da oltre duecento anni di Capitalismo e di porre la vita umana sulla Terra in una condizione di solvibilità a lungo termine richiede straordinarie capacità di natura interdisciplinare da applicarsi tanto a contesti locali, anche iperlocali, che ad ambiti continentali e globali. A questo scopo serve ripensare la rete digitale globale, internet e le sue articolazioni, nei termini di un Red-Stack28, di una infrastruttura tecnologica, mezzo di produzione e riproduzione generale, capace di innervare il mondo con un sistema cognitivo/propositivo/deliberativo di natura collettiva e rizomatica. Il set di strumenti digitali necessari a tale scopo, soggetto a un’evoluzione incessante, così come le architetture informatiche in grado di farlo funzionare come un insieme poietico e autopoietico29, dovrebbero essere, per i movimenti, oggetto privilegiato di studio ed elaborazione in un’ottica di costruzione delle istituzioni del Comune.

LA DIMENSIONE GEOPOLITICA

Il piano su cui si danno le relazioni tra Stati o, meglio, tra blocchi di Stati, ove si giocano gli equilibri di potere e si sviluppano le strategie internazionali di potenza, è certamente distinto da quello in cui si attuano le azioni di governance, da un lato, e si esprimono i movimenti sociali e politici, dall’altro, ammesso che di questi ultimi si trovi ancora traccia degna di nota.

È tuttavia forte la relazione che intercorre tra le trasformazioni dei rapporti tra i diversi blocchi geopolitici e le forme di governo nelle aree geografiche direttamente interessate da queste trasformazioni. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la pax americana ha previsto l’elargizione di cospicui aiuti economici alla ricostruzione (Piano Marshall) e l’estensione dello Stato sociale, già parzialmente in essere in Gran Bretagna, agli altri paesi europei sotto il controllo militare americano. Le ragioni di queste iniziative di sostegno economico e sociale, lungi dall’avere motivazioni altruistiche e/o umanitarie, avevano il solo scopo di scongiurare il pericolo dell’espansione del socialismo reale nell’Europa occidentale. Fatalmente, con il crollo del blocco sovietico avvenuto tra il 1989 e il 1991, si assiste all’assurgere del Nuovo Ordine mondiale cioè l’imporsi incontrastato, non solo sull’intero Occidente e sul Sud del mondo ma anche nei paesi appartenenti all’ex Patto di Varsavia, del neoliberalismo di matrice e a guida USA. Scongiurato il pericolo comunista, i governi vassalli europei hanno proceduto senza indugio allo smantellamento del patto e dello Stato sociale di ispirazione keynesiana.

Dai primi anni ’90 ad oggi, il tasso di crescita economica cinese è stato forte e costante. Con l’ingresso della Cina nel WTO (World Trade Organization – Organizzazione Mondiale del Commercio), avvenuto l’11 dicembre 2001, l’integrazione del paese asiatico nell’economia mondiale ha mutato radicalmente gli assetti e le dinamiche dell’allora incipiente globalizzazione. Il carattere dirigista del Capitalismo di Stato cinese ha consentito il raggiungimento di traguardi di crescita impensabili per qualsiasi economia liberalista, portando, nell’arco di circa trent’anni, diverse centinaia di milioni di cinesi ad uscire da condizioni di indigenza estrema e al definitivo superamento, in quel paese, della povertà assoluta.

A partire dal 2009, le principali economie emergenti, quelle di Brasile, Russia, India e Cina, a cui si è aggiunto nel 2010 il Sudafrica, hanno dato vita ad un’organizzazione internazionale con principale fine la collaborazione economica, nella prospettiva di affrancarsi dal potere monetario del dollaro, dando vita nel 2014 alla Nuova Banca di Sviluppo, istituzione finanziaria internazionale alternativa al Fondo Monetario Internazionale. Durante il vertice BRICS di Johannesburg del 2023 è stata ufficialmente accolta la richiesta di adesione di cinque nuovi paesi ed è stata presentata quella di altri 22 candidati. Si tratta evidentemente di un’iniziativa geostrategica riuscita, potenzialmente in grado di riunire il Sud globale del mondo. Come è avvenuto in passato in occasione di grandi cambiamenti negli assetti geopolitici globali, anche il riassetto in atto, accelerato dai conflitti in Ucraina e in Medio Oriente e dalla crisi ecologica e climatica, con la fine dell’egemonia assoluta e incontrastata degli USA con i suoi vassalli, potrebbe portare a un’inversione di tendenza in grado di arrestare la deriva neoliberista in corso da trent’anni in tutto l’Occidente e imporre la necessità di riattivare la dimensione politica oggi totalmente trascesa da quella economica.

L’ALTERNATIVA È POSSIBILE?

Pensando ai maggiori problemi che affliggono il mondo attuale, ci si rende conto di come essi, al netto della, non certo di semplice soluzione, “questione del potere”, siano tutti di fatto risolvibili. In passato si sarebbe detto che ciò che manca è la volontà politica; oggi dobbiamo dire che ciò che manca e la Politica tout-court. Proprio per effetto della questione del potere, che ne è anche la causa, i problemi sistemici che stanno distruggendo l’umanità e il pianeta non solo non trovano soluzione ma si ingigantiscono di giorno in giorno. Il pervicace, folle e malato egoismo di una ristrettissima minoranza di detentori della ricchezza30, ben protetta e corazzata da una vasta pletora di servitori che va dagli ipertrofici apparati polizieschi (in una logica di controllo interno) e militari (in una logica di imperialismo esterno), agli pseudo-economisti sacerdoti del “pensiero unico”, ai giornalisti e opinionisti prezzolati del mainstream mediatico, è imposto con ogni sorta di violenza, in primis la guerra, sull’umanità, sulle altre specie e sull’ecosistema planetario.

Nelle premesse del precedente paragrafo, ho evidenziato come quello della dimensione geostrategica globale e quello delle forme di governance rappresentino piani di immanenza diversi, distinti e apparentemente molto lontani, eppure essi, come ha sempre mostrato la storia, sono indissolubilmente correlati, con il primo a fare da cornice, da mainframe, da delimitazione e vincolo del secondo. In questo senso si può notare, an passant, quanto fosse sì velleitario (carattere irrinunciabile di qualsiasi movimento rivoluzionario così come di ogni utopia) ma anche e soprattutto illusorio ed ingenuo il tentativo di trasformazione radicale della società occidentale che si diede in Europa e negli Stati Uniti a partire dal 1968. In una prospettiva giovanile e giovanilista di “assalto al cielo” come quella che informava i movimenti europei degli anni Settanta, con tutto il loro portato di controcultura femminista, anticolonialista, anti-patriarcale e, soprattutto, anticapitalista, era evidentemente concepibile nutrire delle speranze di cambiamento ma abbiamo capito, col senno del poi e sulla nostra pelle, che esse erano piuttosto malfondate: la rivoluzione è fallita!

Oggi, in un frangente storico che vede, insieme al sempre più pervasivo dispiegarsi di una digitalizzazione tossica della vita, il definitivo esaurirsi del paradigma produttivista\consumista proprio del Capitalismo, con il simultaneo esplodere delle sue contraddizioni su molteplici piani e con la cesura invalicabile rappresentata dal venir meno delle condizioni di vivibilità del pianeta, il mutamento degli equilibri geostrategici e il progressivo declino USA potrebbero delineare le condizioni favorevoli per una Rivoluzione mondiale, stavolta vincente. Ciò in termini eminentemente potenziali.

Sulla reale possibilità di intraprendere un processo di cambiamento in grado di farci uscire dal Capitalocene e farci entrare in un’era nuova, sostenibile e desiderabile, dell’umanità, gravano invece numerosi e doverosi punti interrogativi. Nulla ci può rassicurare sul fatto di non aver già varcato la soglia di non-ritorno oltrepassata la quale la catastrofe31 diviene ineludibile.

Il punto della questione può essere posto in due passaggi e in questi termini:

È ancora possibile una via d’uscita politica, sociale, storica, dallo stato attuale di cose o, come ritiene Franco Berardi Bifo: “È troppo tardi per salvare la civiltà umana che si sta disintegrando: dobbiamo usare la nostra conoscenza per la creazione di uno spazio di felice sopravvivenza – mentre la civiltà occidentale va verso l’estinzione”32?

Ammesso e certo non scontato che una via d’uscita esista, la stessa apertura di un dibattito pubblico sulle possibili forme e modi per intraprendere un’azione collettiva di emancipazione e liberazione si scontra con la difficoltà stessa di reperire, oggi, nell’epoca della governamentalità algoritmica e dell’Internet delle piattaforme, uno spazio pubblico idoneo e ancora praticabile a tale scopo.

Posta in altri termini, “La questione radicale è se la tecnica coincida senz’altro col reale [senza scarti a cui aggrapparsi], costituendo una sorta di gabbia inespugnabile; e se essa soltanto sia l’attore decisivo di ultima istanza [in una sorta di autonomizzazione definitiva dall’uomo]; se ciò che è oggetto della nostra esperienza collettiva non sia altro che l’automovimento della tecnica. Ovvero, se questa sia veramente l’esito finale della mobilitazione globale, l’ultima spietata forma dell’incanto del mondo, una duplicazione sostitutiva dell’umanità [con conseguente rottura del binomio uomo-tecnica], che ne è resa inutile, antiquata. Se il «mondo gemello» della tecnica sia più vero del vero.”33

Una simile interpretazione del divenire storico, che vede nell’emancipazione della tecnica dalla volontà e da ogni forma di possibile controllo della specie che l’ha innescata l’esito della Storia, rappresenterebbe una grave e pericolosa rinuncia all’approccio critico alla realtà, una sorta di spoliticizzazione ultima. Invece “L’automatismo è in realtà potere economico e politico unidirezionale, che pretende di non incontrare resistenze. La tecnica non cresce per partenogenesi: è l’intrascendibile forma epocale della ragione [strumentale], … esige investimenti e orientamenti per svilupparsi in una direzione o nell’altra. La tecnica è oggi più correttamente nominabile come tecno-capitalismo. … è necessario trovare una soluzione politica, non tecnica, cioè contrappore un diverso potere al potere che si serve della tecnica.”34 Ma il tecno-capitalismo non è intrascendibile: “Dopo tutto, anche se raffinata, potente, onnipervasiva, ineludibile, la tecnica dipende da chi la costruisce, e da chi la impugna per fare che cosa – e per non fare che cosa. Ciò che è politico nella tecnica può essere contrastato con altra politica (e con altra economia), a iniziare da interventi normativi sull’oligopolio dei Big Data – rendendoli proprietà comune dell’umanità, ad esempio. … L’importante, in ogni caso, è capire i condizionamenti interni ed esterni della tecnologia, cioè sottoporla a critica; e non credere che il pensiero dell’AI sia l’unica forma di pensiero … ma pensare come essa non può fare: criticamente.”35 Questi auspici di Carlo Galli, un pensatore di forte impronta socialdemocratica, tengono aperte le speranze in una possibile riscossa dell’uomo su di una tecnica che del suo creatore non sa più che farsene ma non devono portare a facili ottimismi.

È davvero arduo e, come dicevamo, per molti versi velleitario, nella situazione critica e complessa in cui ci troviamo, anche solo cercare di intravvedere un possibile futuro. La neutralizzazione delle protensioni singole e collettive per opera della governamentalità algoritmica dominante ci pone in una condizione di impotenza disperata e disperante. Sogni, desideri, utopie, speranze non trovano le condizioni per nascere e svilupparsi: ogni aspetto della nostra vita appare catturato dal realismo capitalista di cui Mark Fischer, prima di morire suicida, ha tentato di darci un quadro36.

Questo stato di cose non consente il formarsi e l’affermarsi di movimenti sociali e politici nuovi, all’altezza dei tempi e delle sfide che essi pongono. Tutto sembra prospettare l’avvicinarsi della catastrofe, quella certa e “meritata” dell’Occidente per come si è caratterizzato nella sua ferocia razionalizzante coloniale e imperiale, e quella di quella parte di mondo che riuscirà a trascinarsi dietro nella distruzione. A prescindere che le condizioni di attuabilità di un’alternativa possano darsi prima o necessariamente dopo il verificarsi della catastrofe, rimane l’utilità non solo di riflettere e confrontarsi su possibili metodi e strumenti di espressione politica collettiva ma anche di porre in essere e sperimentare loro prototipi in tutti i contesti e in tutte le scale in cui ciò possa essere ritenuto utile. Potrebbe essere questo il programma d’azione minimale per coloro che, pur pienamente coscienti della gravità del frangente che ci troviamo ad attraversare, non hanno ancora alzato bandiera bianca ponendosi in vigile attesa del peggio a venire.

Note

Precisazione: Il riferimento a miei precedenti articoli non ha ragioni narcisistiche o autocelebrative ma legate alla unitarietà che collega i diversi testi in un unico sviluppo. Per una maggior chiarezza degli scritti più recenti, è utile conoscere quelli che li precedono.
0 – Sul significato e sull’uso di questo termine, vedi la nota 12.
1 – Cfr. Antoinette Rouvroy, Thomas Berns – Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation. In Réseaux 2013/1 (n° 177), pagg. 163 – 196.
2 – Cfr. Antonio Negri – La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione. Ed. Dalai Editore, 2012. Edito originariamente nel 1977 da Feltrinelli nella collana “Materiali Marxisti”.
3 – Questa e le seguenti citazioni sono tratte da Gilles Deleuze – Poscritto alle società di controllo. In Pourparler, Ed. Quodlibet, 1999. Ed. originale Les Editions de Minuit, 1990.
4 – Sull’uomo indebitato Maurizio Lazzarato ha scritto La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista. Ed. DeriveApprodi, 2012.
5 – Sin dalle prime pagine della sua opera fondamentale L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Max Weber descrive il capitalismo come un enorme, generalizzato processo di razionalizzazione che, a partire dai paesi di fede protestante, investe l’intero mondo occidentale, implicando un abbandono e una messa al bando dei saperi tradizionali a favore della fede incondizionata nei principi scientifici promossi dall’Illuminismo e poi, in chiave fideistica, dal Positivismo. A ben vedere, prima e più ancora della razionalizzazione, è forse l’astrazione ciò che più a fondo caratterizza la concezione capitalistica e quindi utilitaristica della vita umana. Il denaro non si mangia eppure il suo possesso e la sua accumulazione rappresentano il fine in sé che si è impadronito delle sorti dell’umanità.
6 – Cfr. Bernard Stiegler – La Technique et le temps in tre volumi: 1 La Faute d’Épiméthée, Paris, Galilée, 1994; 2 La Désorientation, Paris, Galilée, 1996; 3 Le Temps du cinéma et la Question du mal-être, Paris, Galilée, 2001.
7 – Cfr. Bernard Stiegler – La Société automatique, volume 1: L’avenir du travail, Paris, Fayard, 2015, tradotto in italiano con il titolo La società automatica. volume 1. L’avvenire del lavoro Milano, Melteni 2019.
8 – Vedi nota 1.
9 – Vedasi a riguardo di questo concetto, il paragrafo ad esso dedicato nel mio articolo Tecnopolitica per il comune – Red-Stack vs. Automa capitalistico, comparso nel precedente numero di Rizomatica.
10 – Sui concetti di ritenzione primaria e secondaria e sul loro vicendevole condizionamento nel quale, passato, presente e futuro sono implicati in un indissolubile intreccio nel flusso di coscienza immanente, si faccia riferimento alla fenomenologia e all’opera di Husserl nello specifico.
11 – Di tutti i saperi, saper-fare, saper-vivere, saper-concettualizzare. Vedasi a questo riguardo pag. 3 e 4 del documento richiamato alla nota 15.
12 – A questo termine personalmente preferisco decisamente, con lo stesso significato, quello di Capitalocene: l’era geologica nella quale ci troviamo a vivere, caratterizzata da un progressivo stravolgimento ambientale e climatico, con l’insieme delle sue conseguenze e implicazioni, non deriva infatti dalla presenza dell’uomo in quanto tale bensì dal sistema capitalistico moderno, impostosi sull’umanità, e quindi sul pianeta, a partire dalla Rivoluzione industriale.
13 – Centrato proprio su questa critica, vedasi questo prezioso contributo video raccolto da Rai Cultura.
14 – Stiegler attinge il concetto di biforcazione da Borges.
15 – Cfr. Bernard Stiegler – Uscire dall’Antropocene, documento inedito presentato dall’autore nel corso di due conferenze tenutesi nel 2015 presso l’Università di Durham e a Istanbul, disponibile a questo link: https://www.kaiakpj.it/wp-content/uploads/2023/01/stiegler_compressed.pdf. Si tratta di un testo estremamente denso e sintetico che si avvale, nella sua versione italiana, della traduzione e dell’utile introduzione di Sara Baranzoni e Paolo Vignola.
16 – Rispetto al particolare significato che il filosofo Franco Berardi Bifo attribuisce al termine “rassegnazione”, vedasi la recente produzione bifiana ed in particolare l’articolo “Rassegnatevi – Disfattismo di massa, diserzione e sabotaggio: proposta per una strategia paradossale della rassegnazione (in attesa delle Comunità Autonome Operative per la Sopravvivenza)”, primo di una serie di articoli pubblicati per la rubrica “Cronaca della psicodeflazione” sul sito della casa editrice Not.
17 – C. Lévi-Strauss – Tristi tropici, trad. it. di B. Garufi, Ed. Il Saggiatore, Milano 1960
18 – Bernard Stiegler – Uscire dall’Antropocene cit.
19 – Cfr. Bernard Stiegler – La Société automatique cit. – pag. 404.
20 – Il termine “capacitazione” fa riferimento all’opera dell’economista e filosofo indiano Amartia Sen e, nello specifico, a Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, trad. it. di G. Rigamonti, Ed. Mondadori, Milano 2000
21 – Cfr. Bernard Stiegler – La Société automatique cit. – Pag. 417-418
22 – Cfr. Bernard Stiegler – Reincantare il mondo – Il “valore spirito” contro il populismo industriale. Ed. Orthotes 2012 citato in La Société automatique cit. – pag. 435. Sullo stesso concetto di Reicantamento cfr. anche Silvia Federici – Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei «commons». Ed. Ombre Corte 2021
23 – Vedasi l’opera citata a nota 1.
24 – Si tratta, in realtà, della trascrizione dell’intervento di Rouvroy al seminario “Digital studies” tenuto il 7 ottobre del 2014 presso il Centre George Pompidou di Parigi e della seguente discussione aperta dallo stesso Stiegler, reperibile in traduzione italiana al seguente link: https://www.uniba.it/it/docenti/marzocca-ottavio/attivita-didattica/materiali-didattici/Rouvroy-Stiegler.pdf/@@download/file/Rouvroy-Stiegler.pdf
25 – In questa prospettiva, sarebbe interessante recuperare alcune tesi della fisiocrazia, in particolare quella che assume il momento della produzione dei beni, e non il momento dello scambio, come quello in cui viene creata effettiva ricchezza.
26 – Sulla natura cumulativa del General Intellect e sul suo carattere intrinsecamente sociale, vedasi il mio articolo Dare parola al “GENERAL INTELLECT”. Dall’individuo sociale alla persona multidimensionale.
27 – Sulla coniazione di questo concetto, cfr. L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio – Pierre Levy Ed. Feltrinelli 1996.
28 – Vedi su questo concetto l’articolo Tecnopolitica per il comune. Red-Stack vs. Automa capitalistico.29 – Specifiche ipotesi di utilizzo di strumenti informatici a fini propositivi e deliberativi, sono reperibili in Per una politica rizomatica. Verso un nuovo paradigma politico, pubblicato sul numero zero di Rizomatica.
30 – Sulla spaventosa concentrazione della ricchezza che caratterizza il mondo attuale, a partire da una serie di dati storici che risalgono a diversi secoli fa, vedasi Il Capitale del XXI secolo dell’economista francese, non certo rivoluzionario ma riformista di impronta socialdemocratica, Thomas Piketty.
31 – Nel suo senso etimologico di rivolgimento, rovesciamento, capovolgimento.
32 – È la frase conclusiva del recente articolo di Franco Berardi su Issa school.
33 – Carlo Galli, Democrazia, ultimo atto?, Ed. Einaudi 2023 p.106.
34 – Ibidem p. 111.
35 – Ibidem p. 112.
36 – Mark Fischer – Realismo capitalista – Ed. Nero 2018 (Edizione originale: Capitalist Realism: Is there not alternative? – Zero Books 2009).