Dare parola al “GENERAL INTELLECT”.

Soviet Pietrogrado 1917

Dall’individuo sociale alla persona multidimensionale.

 

di V. Pellegrino

Questo numero di Rizomatica, dedicato al rapporto individuo/società, mi dà modo di ritornare, questa volta dal punto di vista della costruzione della soggettività e della sua effettiva essenza, sull’argomento programmatico della ricerca dell’alternativa politica oggi, introdotto nel mio articolo “Per una Politica rizomatica”, apparso nel numero zero della rivista.

Come noto, questo argomento è ben presente nella teoria marxiana, nell’ambito della quale, attraverso un rovesciamento dell’idea hegeliana di individualità, fortemente connessa con la visione della storia come un processo indefinito di evoluzione ed elevazione dello spirito, anche la coscienza soggettiva è interpretata come un prodotto delle relazioni materiali. La rottura e il ribaltamento del pensiero di Hegel operati da Marx, l’abbandono dell’idealismo teleologico a favore del materialismo storico, cioè l’introduzione del metodo scientifico anche nell’interpretazione dei fenomeni sociali, politici, storici, investe pienamente la questione della soggettività e della formazione della coscienza. Se per Hegel ogni individuo andava ad occupare un posto nel mondo in funzione della qualità e del grado di coscienza che egli aveva del mondo stesso, secondo Marx, al contrario, ogni essere umano sviluppa la propria coscienza in relazione diretta con le condizioni materiali reali nelle quali si trova “gettato a vivere”. Aristocratici, borghesi, proletari sviluppano forme e gradi di coscienza differenti come diretta conseguenza delle diverse condizioni materiali di esistenza caratteristiche del proprio ceto.

Lo studio specifico e approfondito della coscienza è il campo proprio della psicologia, intesa, secondo Wilhelm Wundt, uno dei principali fondatori della disciplina, come “scienza degli stati di coscienza”. Lo studio scientifico della psiche porterà ad una serie di sviluppi di carattere metodologico tesi nel loro complesso, come in pressoché tutti i campi della ricerca scientifica, ad una prospettiva riduzionista tanto nello studio dei processi mentali che dei modi di formazione della personalità. La conseguenza di ciò è lo sviluppo di molteplici filoni di ricerca fortemente specialistici e, quindi, poco utili rispetto al fine che ci proponiamo in questo articolo di inquadrare la questione della soggettività in relazione alla dimensione sociale e politica. Tuttavia, tra le più importanti conquiste dello studio della psiche a cui si è addivenuti nel corso del secolo scorso, vi è la psicoanalisi, la teoria della psiche (dell’anima o della mente), fondata sul riconoscimento della dimensione inconscia, quella parte dell’attività psichica che risiede al di fuori della sfera della coscienza, come componente imprescindibile della persona umana. Trattandosi di un campo di ricerca che ha ad oggetto alcuni aspetti fondamentali dell’essere umano, la sua mente e la sua coscienza, essa può essere intesa come un’antropologia ed è proprio per questa sua valenza e per la sua attinenza con la formazione della soggettività che la chiamiamo qui in causa. È solo a partire dal riconoscimento della strutturazione interna all’individuo, quella che lo costituisce come irriducibile relazione tra corpo e mente, tra pulsioni e razionalità, tra ego e super-ego, tra conscio e inconscio, che è poi possibile aprire ad un ragionamento correttamente fondato sulle relazioni interumane, sociali, politiche ed economiche. In altre parole, serve riconoscere che la dimensione interna, psichica, individuale e quella sociale, politica, culturale dell’individuo sono tra loro indissolubilmente interconnesse, intrecciate, reciprocamente implicate. Non è possibile ragionare dell’una senza tenere in debito conto l’altra. Esse formano un’unità che è l’uomo intero, completo di tutte le sue dimensioni.

Nel riconoscere quindi l’importanza fondamentale della deduzione di Marx, che vede la coscienza, e quindi la soggettività, come un prodotto delle specifiche condizioni materiali storicamente date, è tuttavia necessario riconsiderare, da un punto di vista critico, il suo approccio alla sfera antropologica e individuale che pare fondarsi su di una sorta di soggettività presupposta, quella dell’homo faber, non sufficientemente indagata in termini analitici e dominata dall’ideologismo che ha pervaso il giovane Marx, quello della contraddizione oggettiva tra il mitologico, inarrestabile sviluppo delle forze produttive e lo stato presente delle relazioni sociali, con il socialismo che ne diviene l’esito necessario1.

Torneremo più avanti sull’importanza di riunire e trattare unitariamente queste due dimensioni dell’umano, quella verticale-interiore e quella orizzontale-interpersonale, come parti di un’unità inscindibile.

La trasformazione della soggettività dal capitalismo industriale a quello cognitivo.

Dato che il nostro sguardo intende, propositivamente e programmaticamente, volgersi all’analisi dello stato di cose presente al fine di trasformarlo2, è col carattere sempre più tecnologizzato di questo presente e con le sue profonde implicazioni tanto sul piano della formazione di nuove soggettività che su quello più immediatamente politico e sociale che serve necessariamente fare i conti. Mi è utile, a tal proposito, qui richiamare i contenuti di un altro mio articolo apparso su queste pagine, “Se le Macchine di Marx siamo noi3, nel quale, a partire dall’ormai famigerato “Frammento sulle macchine” contenuto nei Grundrisse, l’opera forse più attuale e quindi utile del filosofo di Treviri, si tenta un’analisi, per forza di cose parziale, del nostro attuale presente, nel quale la potenza produttiva e tendenzialmente emancipatrice del General Intellect4 risulta di fatto sostanzialmente sequestrata e sterilizzata dagli scopi speculativi e dalle strategie estrattiviste del capitalismo post-industriale.

Oltre a un carattere propositivo, vorrei dare a questi miei interventi in Rizomatica anche una qualche sorta di continuità che li leghi nel solco di un’opera che si ponga come luogo di incontro, di interazione reciproca tra il campo della ricerca teorica e quello delle concrete prassi politiche. Troppo spesso si tratta di mondi che, pur avendo lo stesso campo d’interesse, la Politica, si trovano ad essere ermeticamente separati, reciprocamente diffidenti, privi di un’adeguata interlocuzione in grado di arricchirli vicendevolmente e soprattutto di porli in costante sinergia nel necessario e sempre più urgente impegno di costruire una possibile e credibile alternativa a questo opprimente presente.

La domanda da porsi in una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria del presente è: “come rompere in modo definitivo e attraverso un autentico processo di crescita sociale ma anche individuale, i vincoli artificiosi attraverso i quali si impedisce la piena affermazione dell’Individuo sociale? 5”. Con quest’ultimo termine, Individuo sociale6, intendiamo qui, con un’estensione e attualizzazione del significato attribuitogli da Marx nei Grundrisse, il soggetto protagonista della grande trasformazione del mondo, non solo quello della produzione, conseguente alla diffusione massiva delle tecnologie informatiche, con l’enorme impatto che essa ha avuto praticamente in ogni sfera del vivere individuale e collettivo. Data l’origine già richiamata del termine (vedi nota 5), è evidente che Marx usava questa espressione per riferirsi al soggetto produttore in un sistema ad industrializzazione avanzata, soggetto insieme generatore e portatore del General Intellect7. Proprio per effetto di queste trasformazioni nel modo di produrre, si è passati, in un arco temporale di circa trent’anni, dall’operaio-massa, irreggimentato dentro il metodo taylorista di standardizzazione del lavoro, un lavoro essenzialmente materiale, corporeo, meccanico, ripetitivo, fungibile e, quindi, “astratto”, quello proprio della catena di montaggio, per intenderci, al lavoratore-della-conoscenza, flessibile, multi task, polifunzionale, in grado di adattarsi alle molteplici e continuamente mutanti esigenze dettate dalla nuova realtà della produzione e che, proprio in virtù di queste esigenze, assume una propria autonomia dal “comando capitalistico”. L’organizzazione del lavoro non è più opera del capitalista che la pianifica preventivamente attraverso la strutturazione della fabbrica, dall’approvvigionamento delle materie prime al prodotto finito, ma è affidata all’attiva e, per forza di cose, “libera” collaborazione dei produttori, alla cooperazione sociale, all’autoorganizzazione dei soggetti coinvolti, “anima e corpo”, nel processo produttivo. L’implicazione del lavoratore nell’oggetto del suo produrre si fa totale: vengono messe a produzione le sue doti più propriamente umane, le sue stesse capacità linguistiche, la sfera emozionale e l’intero suo bagaglio conoscitivo e comunicativo.

Ecco quindi realizzata, nel breve volgere di un trentennio, una trasformazione radicale, profonda e generalizzata del “soggetto produttore” senza che ciò abbia minimamente condotto alle luminose e progressive sorti preconizzate dai teorici dell’intellettualità di massa secondo i quali l’autonomia nel lavoro avrebbe portato con sé, automaticamente, l’autonomia del lavoro, quella sociale e politica, cioè l’affrancamento dei lavoratori non solo dal “comando padronale nel contesto produttivo” ma dall’intera logica sottesa dal sistema capitalistico, fondata sulla subordinazione del lavoro al capitale, sul rapporto salariale nella produzione e su quello mercantile nella circolazione e riproduzione. Sappiamo bene dalla grande miseria che ci circonda, non tanto materiale quanto piuttosto culturale e politica, che nulla di rilevante si è dato sul piano dell’emancipazione sociale e politica della generalità dei lavoratori. Al contrario, il lavoratore, nel contesto del nuovo modo di produzione, è sempre più fragile e solo, precarizzato, marginalizzato, individualizzato, incapace di intraprendere, forse anche di ipotizzare ed immaginare, un cammino collettivo di liberazione. Dove dominava il “comando del padrone” ora domina quello dell’algoritmo, asettico e indifferente ad ogni istanza umana, opportunamente supervisionato da nuovi capetti, questi in carne ed ossa, quelli che nella logistica, nei sub-appalti o nei “servizi a terzi” licenziano con un sms alla minima carenza di incondizionata disponibilità. È qui del tutto evidente come la consapevolezza politica non sia affatto un portato automatico delle mutate condizioni del modo di produzione, dell’autonomia nel lavoro. La sua acquisizione richiede la dimensione collettiva, la condivisione di un’analisi della realtà e di un progetto di alternativa. La dura realtà mostra il verificarsi di un processo contrario: il conflitto che (sempre, comunque, in misura più o meno limitata dall’esigenza di “portare a casa” il salario) si dava nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, grazie proprio al carattere massificato del lavoratore che così poteva riconoscersi senza difficoltà in una “categoria”, la mitica “classe operaia”, oggi appare più o meno del tutto espunto dalla dimensione sociale e politica per effetto, da un lato, della frammentazione dei processi produttivi, sempre più segmentati, decentrati, smaterializzati e, dall’altro, della totale implicazione attiva, spontanea, coscienziale del lavoratore nei fini della produzione, nella filosofia aziendalistica. Manca a chi lavora ogni riferimento, ogni possibilità di identificazione, sia materiale che ideale, ad una categoria sociale di appartenenza, mentre si generalizza l’esigenza del suo pieno e attivo coinvolgimento negli scopi della produzione, che rimangono la ricerca del profitto e della sua accumulazione. Non essendo più, almeno in Occidente, la fabbrica centralizzata il nucleo produttivo del presente, viene meno, banalmente, lo stesso incontro fisico dei lavoratori, fattore un tempo determinante per la loro organizzazione come sottoposti alle medesime condizioni di sfruttamento. La produzione, anche per effetto della sua smaterializzazione, è disseminata in una miriade di contesti ed ambiti nei quali il lavoratore è quasi sempre solo od opera in piccoli gruppi. Il capitale agisce sempre più in forme sotterranee, virtuali, astratte e quindi poco riconoscibili. La cooperazione, sulla quale si basa il successo, l’efficacia e l’efficienza dell’attuale modo di produzione, l’autonomia nel lavoro, crea nel lavoratore l’illusione di assenza di coercizione, di libertà di scelta. Il nesso che lega la soggettività all’azienda cessa di essere quello di subordinazione-imposizione per divenire quello di appartenenza, identificazione, piena partecipazione. Le filiere dello sfruttamento si allungano a dismisura, si complessificano, si intrecciano, rendendosi difficilmente intellegibili, ma non si allentano affatto; al contrario: per effetto della manipolazione coscienziale profonda prodotta dall’onnipervasiva sintassi informatica, esse possono giovarsi della partecipazione non solo volontaria ma attiva e proattiva del lavoratore. Tornerò più avanti sulla questione del rapporto salariale e sul tentativo di suo superamento da parte del capitale.

Perché le forme di organizzazione dei lavoratori hanno fallito.

Passando dal piano dell’analisi teorica a quello più immediato ma non certo meno rilevante della dimensione politico-istituzionale, nella direzione di contestualizzare la ricerca e fornirgli una valenza anche e soprattutto trasformativa, alla luce di questa drammatica situazione di impotenza e travolgimento del Lavoro (resa possibile in primo luogo dalla manipolazione coscienziale e dal reclutamento di tutte le risorse umane, comprese, come dicevamo, quelle linguistiche, emozionali, affettive, operate dal capitale mediante la sempre più pervasiva semantica algoritmica), è inevitabile interrogarsi sul ruolo che, in tutto questo, hanno svolto i sindacati e i partiti politici che avrebbero dovuto rappresentare e difendere gli interessi della classe lavoratrice. La risposta non può che essere impietosa: essi hanno svolto il ruolo nefasto di assecondare, avvallare, accompagnare per un suo metodico dispiegamento, l’intero processo. È completamente mancata da parte di queste istituzioni (sindacati e partiti “progressisti”), che ne avevano non solo il mandato ma anche le capacità analitiche, un’elaborazione teorica delle trasformazioni messe in atto dal capitale a partire dalla fine degli anni ’70 (il momento dell’entrata in crisi, in tutto l’Occidente, del capitalismo industriale e di avvio della gigantesca ristrutturazione a base tecnologica che vi ha fatto seguito) capace di tradursi in azioni di rivendicazione e di lotta collettive in grado di tenere insieme le istanze della generalità dei lavoratori, tanto di quelli garantiti quanto di quelli divenuti disoccupati o precari. Sino a che non individueremo le esatte ragioni che hanno fatto sì che le principali forme di organizzazione dei lavoratori non solo hanno fallito rispetto ai loro scopi ma li hanno palesemente traditi, non potremo avanzare di un solo passo sul fondamentale e irrinunciabile terreno della consapevolezza politica e, a partire da essa, della costruzione di una reale alternativa. Ebbene, è evidente che la natura rappresentativa di tali istituzioni, il principio della delega su cui si fondano (peraltro inevitabile ai tempi della loro costituzione e sino alla nascita e allo sviluppo delle tecnologie informatiche), hanno costituito il fattore decisivo del loro totale deragliamento da quella che avrebbe dovuto essere la loro missione. Per un approfondimento di questa problematica, l’esaurimento e il venir meno dell’efficacia del metodo rappresentativo, e per la prospettazione di una concreta e praticabile alternativa, rimando al mio già citato “Per una Politica rizomatica”.

Per un nuovo concetto di democrazia

Dunque, riconosciuto e posto il problema: l’esigenza di superare le forme rappresentative tanto in politica che nel sindacato, resta da chiedersi perché ad oggi non siano ancora emerse proposte politiche credibili ed autentiche (il che ci fa pertanto scartare il grande bluff del Movimento 5 stelle) che vadano in questa direzione. La risposta a questa domanda, oltre all’intrinseca blindatura mediatica del sistema che impedisce di fatto l’emergere di proposte politiche effettivamente nuove, è forse da ricercare proprio negli attuali limiti della soggettività di massa, negli elementi che più fortemente ne condizionano la formazione e che non possono certo essere circoscritti alle forme di condizionamento e manipolazione della così detta “opinione pubblica”, cioè all’azione dei mass-media vecchi e nuovi. Quando ad essere in gioco non è un semplice riassetto del sistema ma la sua sostituzione, quando si è giunti, come noi oggi, al definitivo esaurimento di un “modello di sviluppo” (il produttivismo/consumismo) e alla crisi del corrispondente sistema organizzativo della società, è molto più profondo e radicale il cambiamento da mettere in atto per vincere, in tempi ragionevoli, le forme inerziali più radicate, quelle che per forza di cose esigono tempi lunghi e che non possono prescindere dal naturale avvicendamento generazionale. Come in ogni momento di profondo cambiamento storico, di passaggio di paradigma, il ruolo delle istituzioni si fa decisivo, tanto come segnale simbolico quanto come stimolo. Non può darsi consapevolezza politica, né quindi capacità di identificazione in una classe plurale di individui e di conflitto verso chi ne impedisce la libera e piena realizzazione, senza una presa di coscienza delle trasformazioni radicali, tutt’ora in pieno corso, che stanno completamente mutando le forme della produzione sociale e, con esse, quelle della riproduzione e dell’assetto generale della società. Tra i punti fermi da mettere in discussione, oltre alla centralità sociale ed esistenziale del lavoro, vi sono proprio le forme di espressione della volontà politica oggi a disposizione della moltitudine, tutte rigorosamente basate su di una concezione della democrazia eminentemente procedurale, mediata, interpretata, filtrata, “rappresentata”, appunto, da un ceto politico professionalizzato che ne determina di fatto, in attuazione degli interessi economici dominanti, gli esiti.

Il dogma lavorista e la “fine del lavoro”

Se l’elemento dell’inerzia sociale e soggettiva e della resistenza al cambiamento non può essere ignorato, esso tuttavia non costituisce certo il fattore determinante dell’attuale impotenza del lavoro nei confronti delle forme di sfruttamento sempre più profonde e subliminali imposte dal capitalismo postindustriale. André Gorz, nella sua lunga ed infaticabile opera di studio e “messa in luce” dei fenomeni di trasformazione del lavoro, ha individuato proprio nella mentalità lavorista e nell’etica del lavoro, così profondamente radicate nella cultura generale, nel discorso pubblico quanto nella più interiore concezione individuale della società e del mondo, uno degli ostacoli da affrontare nel passaggio ad “un mondo senza lavoro” ma non certo il maggiore. Esso è piuttosto rappresentato dalla formidabile resistenza del potere costituito ad accettare l’ingresso nel discorso pubblico della mutata realtà delle cose, dell’impatto rivoluzionario che le tecnologie informatiche hanno avuto e ancor di più in futuro avranno sulla società e sul mondo, potere che usa a suo vantaggio la questione della “mentalità” e della supposta “non preparazione” delle masse ad affrontare la realtà della fine del lavoro, per tentare in tutti i modi di procrastinare lo status quo. Il superamento della società-del-lavoro, l’ideologia del lavoro-valore è un problema che si pone tra il culturale ed il politico. È tuttavia falsa l’argomentazione secondo cui la maggioranza delle persone non sarebbe pronta a questo radicale cambiamento, dato che in realtà si fa di tutto per mantenere artificiosamente in vita la centralità culturale ed esistenziale del lavoro. Perché avvenga questo cambio di mentalità è necessario che esso trovi un’espressione collettiva in grado di iscriversi nello spazio pubblico, non solo nell’immaginario ma nella realtà concreta. Serve una sua recezione istituzionale, anche se non necessariamente in senso statuale. Contrariamente al discorso del potere, il cambio di mentalità è già avvenuto e la recente, potentissima esperienza della pandemia ne ha costituito un formidabile fattore di accelerazione; ciò che manca terribilmente è la sua traduzione pubblica, quella del suo senso e della sua radicalità latente.

Sul problema della “mentalità” e del “discorso pubblico” in relazione al concetto di lavoro, scrive Gorz nel suo Miserie del presente, ricchezza del possibile (Manifestolibri, nuova edizione 2009):

Proprio quando il postfordismo e l’economia dell’immateriale si basano su una produzione di ricchezze sempre più disconnessa dal lavoro e su un’accumulazione di profitti sempre più disconnessa da ogni produzione, il diritto di ognuno ad avere un reddito sufficiente, il diritto alla cittadinanza piena, il diritto ad avere diritti restano invece connessi all’esercizio di un “lavoro” misurabile, quantificabile, classificabile, vendibile. …. Sicché ogni manifestazione, ogni cartello che proclama “vogliamo il lavoro”, proclama la vittoria del capitale su un’umanità asservita di lavoratori che non sono più tali, ma che non possono essere altro. Ecco dunque il cuore del problema ed il cuore del conflitto: si tratta di disconnettere dal “lavoro” il diritto ad avere diritti, in particolare il diritto a ciò che è prodotto e producibile senza lavoro, o con sempre meno lavoro.”

Non è ovviamente possibile compendiare qui, neppure per sommi capi, l’insieme delle conseguenze della progressiva smaterializzazione tanto della produzione in sé che dei suoi oggetti quale diretto portato dell’avvento e del rapido sviluppo della tecnologia informatica. Vale invece la pena indagare gli aspetti di questa enorme e rapida trasformazione dell’oggetto e del modo della produzione più legati alla tematica di cui tratta di questa uscita di Rizomatica: la relazione dinamica e reciproca tra l’individuo e la società.

Dar voce al corpo sociale!

Tornando al piano dell’analisi, il passaggio del fattore di valorizzazione dal lavoro materiale astratto alla conoscenza, all’informazione e alla comunicazione recato dell’informatizzazione della produzione, vede nel General Intellect la forza produttiva immediata messa all’opera. Questo “Intelletto generale” riflette in ultima analisi lo stato generale della scienza e del progresso della tecnologia come prodotto sociale storicamente accumulato e in continuo divenire. È esso l’artefice dell’enorme potenza produttiva, tanto in termini dati che, ancor più, in termini potenziali. Ebbene, il General Intellect, oggetto di artificiosa estrazione di valore di scambio da parte del capitale finanziarizzato attraverso una serie di strumenti giuridici (proprietà privata dei mezzi di produzione, copyright, brevetti e segreto industriale, diritti d’autore-editore, licenze e marchi registrati) e di espedienti economici (creazione di monopoli, oligopoli e cartelli), si presenta come un’entità collettiva senza voce, fonte di ogni produzione e al contempo totalmente priva di espressione politica.

Ma volendo “dar voce” al General Intellect, come dovremmo procedere? Per dargli effettiva possibilità di espressione quale soggetto collettivo8, serve individuare la sua componente elementare, il suo elemento costitutivo: esso non può che essere identificato, per rimanere nella sfera della ricerca marxiana e del suo lessico, proprio nell’Individuo sociale, la forma più attuale e avanzata della soggettività diffusa, quella che si misura quotidianamente con le nuove forme, dal contenuto tecnologico sempre più evoluto, della produzione, della circolazione e della riproduzione del capitale. È su di esso, sull’Individuo sociale e sulla sua capacità relazionale, comunicativa, collaborativa, espressa compiutamente nel General Intellect, che si fonda la straordinaria potenza produttiva del presente. Conseguentemente alla critica che abbiamo più sopra espresso in merito alla semplificazione ed appiattimento operati da Marx nella definizione della soggettività, è tuttavia necessario portare il concetto di Individuo sociale, arricchendolo e completandolo, verso quello di Persona pienamente intesa, connotata della sua irriducibile unicità individuale.

La trasformazione che si è qui descritta per sommi capi da una società industriale a una società della conoscenza, in inglese knowledge society, e la conseguente trasformazione del soggetto della produzione da Operaio-massa a Individuo sociale/Persona pluridimensionale, il passaggio dell’oggetto dello sfruttamento dal corpo del lavoratore alla sua mente, implicano per quest’ultimo l’esigenza, dettata dagli stessi fini produttivi, della continua “produzione di sé” che, nella sua messa in atto, nella effettiva produzione di un sé arricchito, potenziato, accresciuto, porrebbe le basi per il rifiuto del lavoro e per la liberazione dal comando. Secondo una corrente di pensiero che, per semplicità, definirei “ottimistica”, si dà qui una contraddizione al cuore del sistema e senza apparenti vie di uscita: il capitalismo, nella ricerca della sua perpetuazione, richiede al soggetto della produzione, all’individuo sociale, l’acquisizione di doti comunicative, collaborative, auto-organizzative sempre nuove e più sviluppate e sarebbero proprio queste nuove doti a fargli comprendere che ciò che davvero conta, ciò che più “vale” è esattamente ciò che non può essere economicizzato, tradotto in valore di scambio. Scrive Negri in Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (Rizzoli, 2002): “Il valore sarà determinato solo dall’innovazione e dalla creazione continua di umanità”. E Moulier-Boutang Paulré: “L’attività gratuita a monte e a valle di quel che è consentito dall’economia politica (di tutte le scuole) come il solo lavoro meritevole di remunerazione, è la fonte principale del valore.9 A. Gorz ne L’Immateriale10 si esprime in questi termini: “La fonte della ricchezza è l’attività che sviluppa le capacità umane, cioè il <lavoro> di produzione di sé che gli <individui> – ciascuno e tutti, ciascuno nei suoi scambi multilaterali con tutti – compiono su sé stessi.” E a chiosa: “Il capitalismo è quindi giunto nel suo sviluppo delle forze produttive a una frontiera oltrepassata la quale può profittare pienamente delle sue potenzialità solo superando se stesso verso un’altra economia.”

Vi è da dire che questa lettura dell’attuale tendenza trasformativa del capitale verso la valorizzazione (nel senso di “messa a valore”, non certo di promozione e incentivazione) della soggettività, del bagaglio più propriamente umano di chi produce, come di un fattore che porta con se la possibilità di emancipazione e liberazione del soggetto stesso dal giogo dello sfruttamento e dell’alienazione, non è condivisa da tutti gli studiosi. Una parte di essi ritiene invece che l’informazione alla base di ogni processo di produzione capitalisticamente orientato non è mai puramente descrittiva ma sempre anche prescrittiva11. Essa disporrebbe cioè di un codice di senso, che è quello informatico dell’algoritmo, in grado di sottrarre di fatto alla forza-lavoro la capacità di autonomia, innovazione, creazione indipendente di senso, determinando così quella totale adesione del lavoratore alle finalità della produzione che trova spesso il suo più pieno dispiegamento proprio nei settori a tecnologia avanzata. Il rapporto di lavoro in questi contesti tecnologici è sempre più raramente di natura salariale, subordinata, e sempre più spesso di carattere collaborativo, per quanto temporaneo, dando la parvenza di lavoro libero e autonomo, dove il conflitto perde di senso. La tendenza ultima è più avanzata del capitale sembrerebbe proprio quella del superamento del rapporto di lavoro salariato, per sua natura conflittuale in quanto contrattualistico, fatto di “parte” e “controparte” per definizione tra loro antagoniste, per reclutare direttamente dal sociale le risorse conoscitive, comunicative e relazionali di cui necessita, con la conseguente attivazione di forme sempre più diffuse di “auto-imprenditoria” e self-branding e la messa a valore dell’intera esistenza del lavoratore. Se tutti i teorici concordano sulla radicalità della trasformazione subita dalla soggettività dei produttori nel passaggio da capitalismo industriale a capitalismo cognitivo, essi divergono profondamente sulle capacità di effettiva autonomia di questo nuovo soggetto e quindi sulle prospettive a cui esso e la società sono assegnati. Il range di queste prospettive va da un orami dato (o imminente) superamento del capitalismo, alle peggiori distopie antropologiche, dall’avvento del Comune12 alla deriva verso una civiltà postumana13. La ragione dell’ampiezza di questo ventaglio di possibilità risiede fondamentalmente nello stato non compiuto della trasformazione in atto, nel fatto di trovarci ancora nel suo pieno dispiegamento, con le conseguenti incertezze sul suo esito. Per parte mia, non mi sento di azzardare alcun pronostico sugli esiti della trasformazione in corso ma sono piuttosto convinto che essi potranno dipendere in misura determinante dalla capacità della moltitudine dei soggetti che oggi compongono questa società in divenire, di intraprendere un nuovo ciclo di lotte, attraverso l’uso di tutti gli strumenti che l’attuale tecnologia mette a disposizione. Lotte in grado di esprimere proprio il senso profondo ed il potenziale liberatorio, persino salvifico dei più recenti conseguimenti scientifici e tecnologici e di consentirne l’appropriazione e il pieno godimento da parte dell’intera umanità.

Nuove forme della politica – L’Assemblea permanente

In tutto questo, leggendo i teorici di campo anticapitalista dei vari orientamenti, non è ben chiaro se abbia ancora un senso l’esercizio dell’azione politica e come e da chi questa possa essere esercitata. Salvo arrenderci all’incubo della “fine della storia”, queste sono domande che vale la pena porsi e a cui tentare di dare una risposta. Chi dovrebbe svolgere “il lavoro politico” nella società della conoscenza? La risposta a questa domanda non può che essere la stessa di quella che ci siamo posti in precedenza: l’Individuo sociale, ora però riconosciuto come Persona multidimensionale, la moltitudine che esse compongono e che dà espressione al General intellect. È qui che assume rilevanza la critica che ho abbozzato nella prima parte di questo articolo sulla interpretazione marxiana della soggettività che tanto peso ha poi avuto nella definizione delle prassi politiche delle componenti marxiste del movimento anticapitalista. In quest’area politica, in particolare nel marxismo-leninismo, la realtà e la rilevanza della dimensione interiore dell’individuo, quella “scoperta” dalla psicologia e dalla psicoanalisi e che ne fa propriamente una persona, completa e ricca di tutte le sue dimensioni, sono state completamente ignorate, con il risultato che proprio le doti più propriamente umane, sensibili, emotive di chi si pone il proposito di “far politica”, vengono tarpate, schiacciate, negate. Ciò che su di esse deve prevalere secondo i vari marxismi è la dimensione sociale, collettiva, plurale che di fatto, proprio a causa della negazione della pienezza dell’essere individuale, si sostanzia in forme organizzative fortemente strutturate, verticistiche, gerarchiche, con una pesantissima frustrazione delle possibilità di espressione piena e autentica del soggetto. Per contro, la componente libertaria dell’anticapitalismo, proprio a tutela del vitale fattore individuale della soggettività, ha sempre rifiutato ogni forma organizzativa strutturata su larga scala in quanto, dovendosi questa basare sulla delega della rappresentanza, andava a costituire apparati gerarchici giustamente accusati di cancellare la dignità e la ricchezza dei suoi componenti individuali. Ciò ha costituito la principale ragione della storica divisione, spesso – nelle dinamiche interne – vera e propria contrapposizione, del movimento anticapitalista mondiale tra comunisti ed anarchici. Ebbene, se la contrapposizione organizzazione vs libertà individuale, se il dilemma collettivo vs soggettivo erano sino a ieri irriducibili, insanabili, le possibilità di espressione della volontà collettiva rese possibili dall’informatica, in particolare con le così dette “piattaforme decisionali”, consentono oggi di superare finalmente questa opposizione, questa dicotomia negativa e di riunire in un unico ambito di azione le molteplici, differenti anime dell’anticapitalismo.

In una prospettiva di rarefazione sempre più spinta del lavoro umano necessario, parte della considerevole quota di tempo liberato dal lavoro può trovare utile e naturale impiego nella partecipazione politica attiva, non solo decisionale in senso meramente plebiscitario (sul modello della Piattaforma Rousseau del M5S, per intenderci, dove gli iscritti possono solo “prendere” o “lasciare”, dire sì o no a proposte che calano preconfezionate dall’alto), ma anche e soprattutto propositivo. Riprendendo il filo della critica della forma politica che ha accompagnato il progressivo arretramento e quindi la totale disfatta della classe lavoratrice, vale a dire il metodo rappresentativo, e data l’esigenza di un suo superamento verso forme di espressione democratica più radicali ed effettive, cioè non mediate ma dirette, veniamo alla proposta di Assemblea permanente (un nome come un altro per indicare una forma di democrazia diretta e perciò effettiva) che ho tratteggiato nel mio “Per una Politica rizomatica”. A questo link potete trovare un breve documento che evidenzia la necessità di adottarla in ogni nuovo tentativo di realizzare una forza politica all’altezza della difficilissima sfida che ci pone l’esigenza di mutare il presente. Si tratta, in sintesi, di un metodo che, sfruttando le notevoli possibilità messe a disposizione dalle tecnologie informatiche, consente di porre in essere una nuova prassi politica, basata sulla libera e informata partecipazione di tutta la base alle proposte e alle scelte che riguardano l’insieme di riferimento. Le architetture informatiche poste in essere a tale scopo possono variare anche in modo ampio in funzione degli specifici ambiti di applicazione ma sostanzialmente devono garantire la possibilità di presentazione delle proposte da parte della base, di ogni singolo partecipante, la loro discussione, elaborazione ed emendamento, e la loro eventuale approvazione. In tal modo è possibile strutturare un metodo di assunzione delle decisioni effettivamente orizzontale e trasparente, a partire da testi scritti e con la possibilità di emendamento collettivo o di presentazione di proposte alternative. Il modo di scelta tra eventuali molteplici alternative si basa sul così detto metodo Schulze, una variante del metodo Condorcet, che premia l’opzione meno invisa piuttosto che semplicemente quella più votata come prima scelta. Sono ormai diverse le organizzazione di varia natura che nel mondo hanno adottato questa nuova forma decisionale. Essa elimina alla base ogni possibilità di leaderismo, personalismo, influenza carismatica ed è proprio per tali ragioni che questa prospettiva di innovazione delle prassi politiche è fortemente osteggiata dalle varie forme di ceto politico che presidiano, spesso per ragioni di interesse puramente personale o di clan, anche l’area politica anticapitalista.

In una prospettiva istituzionale, l’ambito di applicazione più urgente di questa proposta, in sé utilizzabile in qualsiasi contesto di azione collettiva (gruppi, comitati, associazioni, ecc.), è quello del partito politico, inteso nel senso che l’art. 49 della Costituzione, il solo a citare i partiti, gli attribuisce: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. La sottolineatura evidenzia l’elemento chiave della disposizione costituzionale. Questo “metodo democratico”, interno al partito, è alla base del principio democratico stesso in seno alle Istituzioni repubblicane, il suo presupposto. Dai partiti politici, dominus incontrastati della scena politica e oggi veri e propri comitati d’affari, infatti promana tutta l’attività politica istituzionale per cui, nell’ottica di una necessaria riconquista democratica delle istituzioni stesse, nella prospettiva di una loro radicale trasformazione, è necessario che il metodo democratico sia effettivamente posto alla base della vita interna del partito stesso. La mancanza non casuale di una legislazione sui partiti, che avrebbero dovuto, attraverso essa, autodisciplinarsi in senso democratico in aderenza al citato art. 49 Cost., la dice lunga suoi difetti del metodo rappresentativo, sulla nefasta scissione tra rappresentati e rappresentanti, sul netto divergere dei loro interessi14.

È solo dalla effettività di questo principio, incardinata sulle prassi dell’Assemblea permanente che dipende la possibilità di dar vita ad una vera e propria fase costituente capace di traghettarci verso la realtà di un nuovo paradigma e di porre le basi di una vita sociale fondata sul riconoscimento della nostra condizione umana, cioè quella “dell’essere in comune”15.

Note

1 – Una critica alla concezione mitologica delle forze produttive e del loro prodigioso, inarrestabile sviluppo in Marx è presente già in S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Adelphi – 1983. Vedi in particolare pagg. 19 – 23.

2 – Cfr. l’undicesima tesi su Feuerbach di Karl Marx: “I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo.”

3 – Preciso, se necessario, che i riferimenti ai miei precedenti articoli apparsi su Rizomatica non hanno scopo autocelebrativo ma unicamente di richiamo sintetico del loro contenuto complessivo.

4 – Il concetto di General Intellect è ampiamente sviluppato nei Grundrisse di K. Marx e costituisce il vero e proprio protagonista del citato “Frammento sulle macchine” che ne è forse la parte oggi più rilevante.

5 – L’Individuo sociale è una categoria di primaria importanza nell’interpretazione del “capitalismo cognitivo” inteso come il presente del capitalismo stesso; essa è utilizza a più riprese da Marx nei Grundrisse: p.e. nel “Frammento sulle macchine” leggiamo: “…, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza.” Il concetto di Individuo sociale è stato poi ripreso e ampiamente utilizzato nel pensiero teorico del post-operaismo italiano e dei suoi corrispettivi in Francia.

6 – Con riferimento a quanto si diceva più sopra, si sottolinea come anche questo termine, Individuo sociale, rifletta profondamente la prospettiva dalla quale Marx vede l’individuo, una prospettiva prettamente sociale, schiacciata sulla dimensione orizzontale, priva di adeguata considerazione per lo “spessore interiore” della persona.

7 – Per un approfondimento sulla categoria di General Intellect, rimando al già citato “Frammento sulle macchine” di Karl Marx e al mio articolo che ne tratta, “Se le macchine di Marx siamo noi”, citato sopra.

8 – È qui utile una breve nota sul carattere dei così detti “soggetti collettivi” intesi come insiemi coerenti di “soggetti individuali” appartenenti ad una determinata categoria: gli “italiani” come l’insieme di coloro che possiedono questa cittadinanza, la “comunità artistica” come l’insieme degli artisti, ecc. I “soggetti concreti” sono sempre e solo quelli individuali, le singole persone in carne ed ossa, mentre quelli collettivi sono frutto di un’astrazione e una catalogazione. Da qui l’esigenza di individuare gli elementi singolari costitutivi dei soggetti collettivi per attribuire ad essi azioni e caratteri di questi ultimi.

9 – Y. Moulier-Boutang, Richesse, proprieté, liberté et revenu dans le capitalisme cognitif. In “Moltitudes”, n. 5, maggio 2001, citato in A. Gorz L’Immateriale Bollati Boringhieri – 2003.

10 – A. Gorz L’Immateriale. Conoscenza, valore e capitale. Bollati Boringhieri – 2003

11 – Cfr. per esempio la posizione critica espressa da Roberto Finelli nel sul saggio breve Corpo e mente nel postfordismo. La trappola del “General Intellect”.

12 – Per una teoria del superamento del capitalismo e di avvento del Comune, cfr. G. Rifkin La società a costo marginale zero. Mondadori 2015.

13 – Vedasi il 4° ed ultimo capitolo del già citato libro di A. Gorz L’Immateriale, dal titolo interrogativo ..O verso una civiltà postumana?, una sorta di breve trattato di bioetica.

14 – La critica del metodo rappresentativo ha una lunga storia ed è stata esplicitata già in un testo chiave sui principi filosofici della democrazia. J.J. Rousseau ne Il Contratto sociale – Libro terzo: Dei deputati o rappresentanti, spende parole di fuoco contro questa forma politica: <La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o e quella stessa o è un’altra; non c’è via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque né possono essere suoi rappresentanti; non sono che i suoi commissari: non possono concludere nulla in modo definitivo. Ogni legge che non sia stata ratificata direttamente dal popolo è nulla; non è una legge.>

15 – Questa espressione è usata da Jean Luc Nancy nel suo Verità della democrazia Cornucopio – 2009, allo scopo di declinare, in modo davvero immediato e pur profondissimo, il concetto che Marx ha espresso con il termine comunismo.