Tecnopolitica per il comune

Red-Stack vs. Automa capitalistico

img by IA dominio pubblico

di V. Pellegrino

  <Di certo cè che stiamo entrando in delle società
 di controllo che non sono più esattamente
 disciplinari, [...] che non funzionano più sul
 principio dinternamento, bensì su quello del
 controllo continuo e della comunicazione istantanea.[...] 
In un regime di controllo non la si fa finita mai con nulla.>

 Gilles Deleuze

In precedenti interventi, ho tentato di elaborare un’analisi “all’altezza dei tempi” del frangente storico che stiamo attraversando. Ciò sotto diverse prospettive: quella della crisi della rappresentanza e delle forme della Politica in genere, intesa questa sia in termini di attività istituzionale che di azione di movimento (Cfr. Per una Politica rizomatica – Verso un nuovo paradigma politico, quella della trasformazione della soggettività legata all’avvento dell’era informatica (Cfr. Dare parola al General Intellect – Dall’individuo sociale alla persona multidimensionale), quella della profonda metamorfosi che sta attraversando il capitalismo proprio in relazione alla disponibilità delle ICT (Information and Comunication Tecnology – Cfr. Se le macchine di Marx siamo noi – Siamo alla fine del capitalismo o ad una sua ennesima trasformazione?), quella delle innovazioni, intervenute e potenziali, della teoria e delle prassi politiche connesse alle tecnologie informatiche (Cfr. Tecnopolitica e partiti digitaliVicolo cieco del populismo plebiscitario o via obbligata a un’autentica democrazia?).

Premessa

Qui vorrei invece provare ad abbozzare una Teoria del cambiamento possibile, in realtà dovremmo dire, stante l’ineluttabile cesura rappresentata dall’esaurimento delle risorse rigenerative del pianeta, del cambiamento necessario. Vorrei cioè finalmente concentrarmi sulla pars costruens della riflessione sui tempi che ci troviamo costretti a vivere. A fronte di una notevole mole di analisi e di teorie analitiche e interpretative del presente, dobbiamo infatti constatare una grave penuria, se non una sostanziale mancanza, di teorie del cambiamento, della trasformazione, della rivoluzione. Mentre le distopie dilagano nell’immaginario collettivo attraverso il cinema, la letteratura, la musica, l’arte e la cultura in genere, le utopie sono del tutto scomparse: citando Mark Fischer che cita Frederic Jameson, oggi “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”1.

È proprio sull’incapacità di immaginare l’alternativa che si appunta il pamphlet di Fischer Realismo capitalista. Incapacità che Nick Srniceck e Alex Williams, due allievi di Fisher, tentano di superare nel loro saggio dal titolo programmatico Inventare il futuro2. I due autori del Manifesto per una politica accelerazionista3, pur svolgendo un’utilissima critica a quella che definiscono “folk politics”, ovvero quel modo di far politica che i movimenti di “sinistra” (pare che questo termine nel mondo anglosassone sia ancora in qualche modo spendibile) mettono in atto, in modo ininterrotto e senza sostanziali evoluzioni, quantomeno dal fatidico ’68 e caratterizzato da spontaneismo, immediatezza e da una retorica sentimentalista e nostalgica, non mettono però sul piatto una vera, concreta proposta d’azione politica. La loro idea di costituire una sorta di Mont Pelerin Society (l’organizzazione internazionale fondata nel 1947 per promuovere universalmente il libero mercato e la “società aperta” – in opposizione al keynesismo che proprio in quegli anni diveniva la teoria economico-sociale egemone) della sinistra allo scopo di promuovere un lavoro di lunga lena per l’elaborazione di un pensiero strategico anticapitalista, appare poco credibile puntando, come sembra, su di una sorta di “nuova avanguardia” in grado di elaborare questo pensiero e così mobilitare le masse. Né nella loro opera producono una proposta concretamente, pragmaticamente percorribile. D’altronde l’accelerazionismo di sinistra, di cui i due citati autori sono tra i principali teorici, vede nell’accelerazione tecnologica in sé un fattore favorevole al superamento del capitalismo. Su posizioni analoghe troviamo altri importanti autori come il Paul Mason di Postcapitalismo4 e Jeremy Rifkin, in particolare per quanto scrive in La società a costo marginale zero5.

Credo che questa postura attendista e fiduciosa sia non solo malfondata dal punto di vista teorico, dato che non fa i conti con le capacità del capitale di “recuperare” a suo vantaggio pressoché tutti gli effetti positivi prodotti dall’innovazione tecnologica, ma anche dannosa dal punto di vista politico: “la palla” del conflitto è decisamente e da molto tempo ormai nel nostro campo e non è certo attendendo fiduciosi il dispiegarsi degli effetti sociali che l’evoluzione tecnologica dovrebbe portare con sé che si potrà invertire il processo di concentrazione della ricchezza e del potere in atto in Occidente dalla fine degli anni ’70, con un crescendo vertiginoso a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Il capitalismo non finirà da sé, per morte naturale, ma potrà essere superato solo attraverso una progressiva presa di coscienza del carattere di classe che è proprio della moltitudine, della sua sostanziale unitarietà di condizioni sociali e di interessi politici e, cosa altrettanto importante e imprescindibile, attraverso la concreta ricerca e costruzione dell’alternativa, delle possibili alternative. In altre parole, le forme di resistenza e contrasto al capitalismo non bastano: serve attivare quanto prima (il ritardo è già enorme e forse ormai incolmabile) la ricerca di un nuovo metodo di elaborazione ed azione politica che consenta un’ampia ricomposizione del soggetto sociale, la sua piena partecipazione ai processi politici e così l’avvio di un processo costituente di edificazione del Comune: nel concreto, un processo di informatizzazione democratica della politica.

L’atteggiamento mentale che scommette sul dispiegarsi di un processo positivo intrinseco al diffondersi delle nuove tecnologie e in qualche modo già determinato sembra fare il paio con la convinzione di alcuni autori appartenenti all’ambito post-operaista che l’autonomia nel lavoro che il capitalismo cognitivo richiede, implichi di per sé l’autonomia del lavoro dal comando capitalistico6. Le prove dei fatti sembrano mostrare esattamente il contrario: a differenza del capitalismo industriale, fordista-taylorista, la prestazione richiesta al lavoratore non è di tipo fisico, standardizzata, ripetitiva, bensì totale, linguistica, cognitiva e affettiva insieme. La subordinazione del lavoratore alle finalità d’impresa deve essere completa e convinta; la conflittualità propria del rapporto capitale-lavoro è espulsa a monte del processo di produzione. Ciò si pone a sfavore dell’attivazione di processi, tanto individuali che collettivi, di presa di coscienza, di sviluppo di una vera consapevolezza politica: “Come funziona il mondo e dove mi colloco io come individuo e come appartenente alla classe?”

Sulla questione fondamentale, e pur ampiamente disertata da pensatori e teorici della politica, dell’organizzazione, merita senz’altro una menzione il recente lavoro del sociologo brasiliano Rodrigo Nunes dal titolo didascalico Neither Vertical Nor Horizontal: A Theory of Political Organization7, nel quale, nel tentativo di superare la dicotomia orizzontalismo – gerarchia, si pone al centro il concetto di ecologia di organizzazioni, già peraltro delineato da Srinicek e Williams in Inventare il futuro. L’orizzontalismo, il cui punto di forza è il principio di eguaglianza tra i partecipanti, porta con sé i limiti di una scarsa, per non dire nulla, efficacia organizzativa, come dimostrerebbero i fallimenti dei movimenti politici più recenti e significativi, tutti basati su questo principio. Le strutture gerarchiche, a cui modello può essere senz’altro assunto il partito politico, al contrario, hanno il loro punto di forza proprio nell’efficienza e nell’efficacia della propria organizzazione, ma sono segnate dai noti limiti propri del metodo rappresentativo, nel quale resta esclusa la vera e piena partecipazione della base, con un problema non solo di mancanza di democrazia ma, cosa forse ancor più grave, di inutilizzazione, di mancata mobilitazione dell’intelligenza collettiva.

La questione del metodo

Sulla linea della critica alla “folk politics” svolta da Sriniceck e Williams in Inventare il futuro, è necessario evidenziare come la questione del metodo rimanga sul campo dell’azione politica come un macigno non rimosso. Ciò è causa dell’incapacità di agire e di incidere sulla realtà che anche i movimenti sociali e politici più recenti e avanzati mostrano. Il giusto rifiuto di avere leader e rappresentanti, che a partire già dalle Primavere arabe e dal movimento degli Indignados in Spagna e di Occupy Wall street negli USA, ha caratterizzato tutti i successivi movimenti più significativi, da Non una di meno a Friday for the Future a Extinction Rebellion e Last Generation passando per i Gilet Jaunes, lascia questi movimenti privi della capacità di articolare un discorso politico che vada oltre gli slogan lanciati nel corso delle loro manifestazioni. Le funzioni di organizzazione interna, di definizione ed esplicitazione delle rivendicazioni, di contrattazione con le autorità e le controparti in genere, di elaborazione della strategia conflittuale, tipicamente svolte dai leaders e dai rappresentanti, non possono esplicarsi. Chiunque auspichi il cambiamento, l’uscita dall’opprimente stato di cose che ci circonda, si strugge nel vedere come la potenza di questi movimenti sia dissipata proprio per la mancanza di adeguate forme di espressione e deliberazione condivise, per l’impossibilità di elaborare collettivamente pensiero critico, da un lato, e costituente, dall’altro. Il senso di impotenza è soffocante e, a sua volta, paralizzante. La rassegnazione8, quando non il cinismo, diviene il sentimento dominante. L’introduzione di un metodo che vada oltre quello rappresentativo proprio del partito politico e l’assemblearismo di sessantottina memoria tipico dei movimenti ancor oggi, diviene quindi una necessità impellente e assoluta9.

Governamentalità algoritmica

Con questa espressione si designa il regime sociopolitico che regola e disciplina il mondo attuale e che tiene insieme le tecnologie del potere (governo), le tecnologie del sé (autogoverno) e le tecnologie del mercato (regolazione degli scambi economici). Ovviamente non deve intendersi come il governo degli algoritmi (come si trattasse dell’inevitabile portato negativo dell’informatizzazione) bensì come il governo attraverso gli algoritmi. Non sono ovviamente questi particolari dispositivi di automatizzazione dell’informazione e della comunicazione a sfruttarci, a sfruttare il nostro lavoro in rete volontario e gratuito (i due sensi del termine “Free” che usa Tiziana Terranova per designare questo tipo di attività in Free Labor: Producing Culture for the Digital Economy10), quanto i proprietari multimiliardari delle piattaforme monopolistiche attraverso le quali lavoriamo, ci relazioniamo, operiamo, viviamo la nostra vita virtuale/reale.

In una realtà sempre più caratterizzata dalla produzione immateriale (Gorz, Lazzarato-Negri), dalla “messa al lavoro” dell’intera società (Negri) e praticamente per l’intero tempo di vita, come quella in cui ci troviamo a vivere, in un modello produttivo che, con Carlo Vercellone e Andrea Fumagalli, possiamo definire Capitalismo cognitivo, è ormai impossibile individuare chi assuma le decisioni, chi detenga il potere. Scrive la ricercatrice Natascia Tosel nel saggio breve Pensare l’impersonale tra vitalismo e macchinismo. Come resistere alla governamentalità algoritmica?, con esplicito riferimento al lavoro della filosofa del diritto Antoinette Rouvroy:

“… le macchine hanno raggiunto un livello di sviluppo tale da divenire esse stesse fonti di normatività, con la differenza che, non ponendosi né sul piano politico, né su quello propriamente giuridico, tali norme non sono legittimate né dal potere statale né da quello legislativo: sono norme che, paradossalmente, si situano fuori dalla legge. … Allinterno di tale situazione ciò che viene a mancare sono, da un lato, i criteri di legittimità, di cui queste nuove norme sembrano poter fare a meno, ma, dallaltro, anche la possibilità di contestazione. Questultima, del resto, è negata a causa della presenza di attori non istituzionali e di norme non giuridiche, che rendono vani tutti i tentativi di resistenza precedentemente sperimentati, poiché ora è divenuto difficile comprendere anche solo contro chi e contro cosa si deve lottare.”

Per comprendere appieno il concetto di governamentalità algoritmica è tuttavia necessario approfondire il livello dell’analisi: essa va spinta sul piano del “regime di verità” (Foucault) per comprendere come, nel passaggio dalle così dette società disciplinari alle società di controllo (Deleuze), il concetto di “verità” sia sostituito da quello di “realtà numerica”. Uno dei filosofi che più a fondo hanno analizzato i processi di automazione che governano non solo e non tanto la produzione ma anche la distribuzione (logistica), il consumo (creazione del desiderio – pubblicità – marketing) e, soprattutto, i processi decisionali che le sovraintendono, è senz’altro Bernard Stigler11. Con Rouvroy ha osservato come la governamentalità algoritmica si fondi su un regime di verità numerica, che implica una «mise en nombres de la vie même, à laquelle est substituée non pas une vérité, mais une réalité numérique, une réalité qui se prétend le monde, cest-à-dire qui se rétend non construite» (Rouvroy & Stiegler 2015)12.

Scrive ancora Tosel nel saggio citato: “… la governamentalità algoritmica non è interessata a noi personalmente, ma utilizza unenorme quantità di dati anonimi per portare avanti la sua operazione di profiling. In tal modo, gli individui divengono certamente meno visibili, poiché lunico soggetto è un corpo statistico, impersonale, numerico e generico. Ma ciò che non è più visibile dellindividuo è, nello specifico, la sua volontà, la sua intenzionalità e capacità progettuale …”, elementi propri della dimensione politica.

 <Non è animismo né meccanicismo, ma un
 macchinismo universale: un piano di consistenza
 occupato da un’immensa macchina astratta 
 dai concatenamenti infiniti.>
 Gilles Deleuze e Félix Guattari

Per dirla con Deleuze e Guattari, nel nostro tempo agiscono simultaneamente, quali dispositivi di individuazione13, di conformazione della soggettività, tanto l’assoggettamento sociale proprio delle società gerarchiche quanto l’asservimento macchinico tipico delle società di controllo. “La soggettività, perciò, è prodotta contemporaneamente da entrambi i dispositivi di potere: per restare alloggi, il neoliberalismo guarda ancora al soggetto in quanto individuo libero e responsabile, mentre la finanza, ad esempio, sembra voler ridurre la soggettività ad una cifra.”14 La proposta dei due autori di Mille Piani di contrastare l’assoggettamento sociale attraverso un macchinismo universale pare entrare in crisi nella misura in cui la governamentalità algoritmica assurge a dispositivo di dominio primario, anche se in realtà questo macchinismo intendeva porsi come linea di fuga da entrambe le principali forme di soggettivazione del nostro tempo, tanto dall’assoggettamento sociale che dall’asservimento macchinico. Ovviamente, il rigetto della governamentalità algoritmica non può tradursi in un ritorno alla soggettività cartesiana e la proposta di macchinismo universale come linea di fuga resta valida… ma la linea di fuga non basta più e serve ormai precisare cosa possa essere e come possa concretizzarsi questo macchinismo universale.

Capitalismo cognitivo-finanziario

L’attuale sistema economico vede il proprio core business nell’apparato finanziario e nelle piattaforme digitali. Mentre in epoca fordista la finanza serviva a finanziare l’economia reale, le grandi fabbriche basate sulle economie di scala, sugli stock e la catena di montaggio, oggi essa si alimenta attraverso l’estrattivismo delle piattaforme15, che sfruttano quello che Terranova definisce il Free Digital Labor, da un lato, e la speculazione finanziaria stessa, dall’altro. La nota formula marxiana D-M-D’ [denaro – merce – denaro] è sostituita dalla formula D-D’, nel caso della speculazione finanziaria, e da quella D-FL-D’ [denaro – lavoro gratuito – denaro], nell’economia di piattaforma. Il lavoro che prende il posto della merce nella formula marxiana di circolazione del capitale finanziario è lavoro cognitivo, è informazione. Nel capitalismo cognitivo, la merce per antonomasia è l’informazione, informazione prodotta gratuitamente o a salari da fame dalla moltitudine con la mediazione alienante e predatoria degli algoritmi. Il General Intellect è così catturato e messo in produzione, attraverso la mediazione tecnologica, a esclusivo vantaggio del grande capitale finanziario.

Con il passaggio dal capitalismo fordista-taylorista al capitalismo cognitivo-finanziario, salta letteralmente la teoria del valore tradizionale, quella che Marx riprende dagli economisti classici, che afferma sostanzialmente che il valore di una merce dipende dalla quantità di lavoro in esso incorporata. È lo stesso Marx a teorizzare questo passaggio nel giustamente mitizzato “Frammento sulle macchine” 16 contenuto nei Grundrisse: “Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso.” Ebbene, il fattore critico, la contraddizione lacerante propria del frangente storico che stiamo attraversando sta nel fatto che, a fronte del venir meno della validità della “legge del valore”, non viene affatto meno la sua vigenza: il tempo di lavoro dei singoli rimane l’unità di misura per la retribuzione del lavoro stesso, lo sfruttamento basato sul lavoro dipendente salariato, non solo non scompare ma si esaspera. L’intero aumento della produttività reso possibile dall’applicazione delle ICT alla produzione si è tradotto nell’incremento di profitto e rendita, anziché in una generalizzata riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, e nella precarizzazione di una porzione cospicua e crescente della forza-lavoro.

Questa sorta di tradimento teorico, il permanere dell’applicazione di una teoria, quella del valore-lavoro, non più valida, superata dai fatti, deve farci riflettere su alcuni principi teorici che sembrano venir meno, in particolare quello del rapporto tra struttura e sovrastruttura17: a fronte della trasformazione del modo di produzione (della struttura), i rapporti giuridici di proprietà, l’apparato istituzionale, la cultura dominante e il sistema di potere (la sovrastruttura), non solo non assecondano questa trasformazione ma si irrigidiscono e reagiscono ad essa aumentando il loro grado di violenza oppressiva18. Che ciò rappresenti un “colpo di coda” di un sistema di potere che muore o una sua strategia difensiva e immunitaria a lungo termine è difficile a dirsi: è nuovamente il carattere di crinale, di spartiacque che connota l’attuale passaggio storico a venire in primo piano.

Il carattere non esclusivo e non concorrenziale del bene-informazione, la sua riproducibilità tecnica virtualmente illimitata, la sua conseguente enorme potenza produttiva e riproduttiva, viene annullato attraverso una serie di dispositivi giuridici ed economici (copyright, brevetti industriali, proprietà intellettuale, trattati sovranazionali come TTIP, CETA, NAFTA, ecc. ma anche con la formazione di monopoli e cartelli) che servono a reintrodurre artificialmente un regime di scarsità, di penuria, che consente ad aziende private di vendere ciò che è prodotto gratuitamente o quasi dalla società e che ha un costo marginale tendente allo zero. Va evidenziato quindi come, nonostante la natura prettamente privatistica del processo di finanziarizzazione dell’economia e di colonizzazione del web, esso di fatto sia stato attuato con il pieno e imprescindibile sostegno dello Stato e della sua attività normativa e repressiva e come questo regime sia stato imposto a livello planetario attraverso il sistema consolidato e iper-collaudato dell’Imperialismo del dollaro e del dominio militare statunitense19.

Aziende come Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, solo per citare le più importanti e note, che producono beni di consumo immateriali, sono oggi quelle con il più alto valore di capitalizzazione in borsa. Insieme alle reti finanziarie, queste multinazionali monopolistiche hanno guidato lo sviluppo e assunto il controllo dell’infrastruttura che governa la società ed il mondo: il così detto Stack.

Dal Web allo Stack

Vale la pena riassumere brevemente come il World Wide Web si sia trasformato radicalmente a partire dallo sviluppo del così detto web 2.0, vale a dire dalla nascita dell’interattività in rete, intorno all’anno 2004. Già l’uso commerciale del web, con l’apertura dei primi siti aziendali, inizia decisamente dopo quello politico e sociale che ha visto fin da subito attivi i movimenti, le università, i gruppi culturali alternativi ecc., in quello che veniva definito il Villaggio globale. Con il darsi della possibilità tecnica di attivare anche il flusso di informazione inverso, quello dagli utenti ai siti, la rete ed il suo uso mutano radicalmente. Inizia un processo di vera e propria colonizzazione dello spazio online che nel giro di pochi anni ne muterà la natura: da ambito ideale di espressione della molteplicità, con tutte le sue enormi potenzialità, si fa apparato di cattura della produzione sociale. Per rendere possibile questa trasformazione del suo uso dominante, avviene una trasformazione fisica della sua struttura: si vengono a costituire dei nodi maggiori e sovraordinati, si creano delle direttrici privilegiate dove i flussi informatici viaggiano più rapidi e in maggior quantità, si forma cioè una sorta di sovrastruttura dominante. Di qui l’importanza di conoscere sotto il profilo tecnico e materiale, non metaforico, la struttura del World Wide Web, il suo hardware, il suo apparato fisico: la ragnatela si è fatta pila, il Web si è fatto Stack; in termini deleuziani, il rizoma si è fatto albero.

Dal Black Stack al Red Stack

L’infrastruttura tecno-informatica che regge oggi la produzione e la riproduzione è stata definita dal sociologo americano Benjamin H. Bratton in riferimento al concetto di “planetary scale computation”. Egli ha contribuito a definire il concetto di Stack20, mettendo in evidenza la sua possibilità di riconfigurazione, di riprogrammazione, senza per questo voler tornare ad un umanesimo antropocentrico21.

Diversi pensatori e filosofi appartenenti al pensiero critico, difronte al processo sempre più accelerato di automatizzazione del mondo umano oggi in corso, hanno evidenziato la necessità di sabotare e riprogrammare la megamacchina, lo Stack appunto. Lo stesso Stiegler, nel corso di un dibattito pubblico svoltosi nel 2014 presso il Centre Georges Pompidou di Parigi dal titolo “Digital Studies”, a cui ha partecipato con Rouvroy, metteva in evidenza come le tecnologie utilizzate nella governamentalità algoritmica, di cui ci parla Rouvroy, attuino un processo di “grammatizzazione” che non induce solo calcolabilità ma, di fatto, apre alla possibilità di interpretazione ad altri fini, non capitalistici, degli stessi Big Data. Dice Stiegler nel corso del convegno: “La questione, oggi, è: come poter redistribuire il tempo libero per produrre del comune, ossia, come costituire il diritto di produrre dell’intelligenza collettiva utilizzando queste tecnologie? Perché, evidentemente, queste tecnologie sono la condizione per farlo. Non ciò che è necessario rigettare.” Quindi, secondo Stiegler, lo Stack non va demolito ma riprogrammato, le sue tecnologie non vanno rigettate ma recuperate a un tutt’altro uso, quello della produzione del Comune. E ancora: “Bisogna …. passare a un altro modello. Ed è necessario che lo produciamo noi, questo nuovo modello. … Bisogna svilupparlo, bisogna fare delle proposte, perché è questo che produrrà valore domani.”

La teorica che ha avanzato una delle proposte politicamente più esplicite e convincenti degli ultimi anni è Tiziana Terranova, in particolare nel suo saggio breve intitolato Red Stack Attack!22 È necessario costruire un’infrastruttura di rete autonoma, libera, dove possano darsi e agire diverse forme di Intelligenza collettiva (Pierre Lévy) su piattaforme anche distinte per finalità ma strettamente interconnesse, dove il General Intellect possa finalmente esprimersi in modo pieno e incondizionato, scatenarsi e cumularsi senza i freni artificiali imposti dal capitale per estrarne rendita e profitto parassitari. La sovversione, il sabotaggio e la riprogrammazione dello Stack in Red Stack quale sistema connettivo, apparato neuronale del Comune, deve farsi progetto politico del nuovo millennio, di un’umanità nuova, specie tra le altre specie che popolano il Pianeta Terra.

Le funzioni da affidare a questa infrastruttura sono molteplici e quella deliberativa, l’espressione e l’esercizio della volontà collettiva sotto forma di una democrazia diretta, effettiva e radicale, pur di primo rilievo sotto il profilo simbolico del potere, potrebbe risultare meno importante di altre quali quella propositiva (la libera possibilità di avanzare proposte da parte di chiunque, tanto soggetti individuali che collettivi) e quella di dare spazio al confronto, al dibattito, all’elaborazione non solo politica ma anche scientifica, tecnologica, economica. La funzione decisoria potrebbe rivelarsi meno necessaria di altre nella misura in cui, in un contesto dove non vige la logica utilitaristica, gli interessi dei singoli individui sono convergenti nella direzione della costruzione e valorizzazione della dimensione comune.

Dovremmo immaginare questa infrastruttura, libera ed autonoma dai vincoli di capitale, come il mezzo di produzione generale, nella misura in cui essa ingloba e sussume nella sua fisiologia l’insieme dei mezzi di produzione singolari e ne regola il funzionamento. Attraverso di essa economia, politica e società, ma anche scienza e tecnologia, si articolano unitariamente, ogni processo che vi si svolge è insieme processo psichico individuale, espressione sociale, e quindi politica, del loro insieme, attività produttiva, riproduttiva, economica, in un concatenamento capace di farsi carico del problema non solo e non tanto di come produrre ma di cosa produrre e perché. Con l’appropriarsi e il farsi carico di tali questioni, oggi più che mai fondamentali in una prospettiva di eco-reintegrazione dell’umanità, viene finalmente negato il naturalismo, il preteso carattere naturale, di cui si ammanta il capitalismo, travolti i suoi scopi mistificatori.

Questa infrastruttura, in quanto insieme psichica, politica, produttiva, reggerà lo sviluppo delle attività umane fondamentali quali la cura della salute fisica e psicologica, la produzione e la diffusione del sapere, l’elaborazione e la trasmissione della cultura ma anche le relazioni affettive, gli scambi sentimentali. Produrrà una nuova espressione della nostra specie, il Superuomo auspicato da Nietzsche, l’uomo-parte-del-divino pensato da Spinoza.

Macchine per pensare, decidere, produrre, insieme

La tradizionale, aristotelica tripartizione dell’esperienza umana in Pensiero, Politica e Lavoro, ripresa nel corso del ‘900 in particolare dall’opera di Hannah Arendt23, appare oggi ormai priva del supporto della realtà. Il contesto storico in cui ci troviamo a vivere, l’emergere della rete e, nello specifico, dello Stack quale contesto di dispiegamento e di captazione della produzione sociale, vede il convergere di queste tre attività prima nettamente separate. L’attuale soggetto produttivo collettivo è composto da una molteplicità di soggetti individuali non più catalogabili nella categoria politica di popolo né in quella socioeconomica di classe operaia: la moltitudine. Essa rappresenta, pur non coincidendovi, un’estensione e attualizzazione del concetto marxiano di proletariato. L’esigenza di emancipare lo Stack in Red Stack coincide, mutatis mutandis, con l’esigenza di riappropriazione dei mezzi di produzione ma anche di liberazione del General Intellect dal comando capitalistico e di conquista di una sfera istituzionale democratica non statale. Nel Red Stack questi tre diversi ambiti dell’agire umano, l’intelletto, la decisione e la produzione, non solo convergono ma tendono a divenire una sola cosa, un nuovo modo di essere dell’umano che mette insieme campi d’azione prima rigidamente separati. Questa inedita convergenza delle diverse sfere d’azione umana pone le basi per il superamento degli apparati che hanno reso possibile il dominio del Capitale sulla società, attraverso la politica istituzionalizzata (dominio portato allo zenith dal teorema dell’autonomia del politico), e l’asservimento dell’intellettualità. Comprendere come volgere a favore della moltitudine la radicale trasformazione del mondo portata dalle ICT, come concepire, in linea di principio, l’azione politica basata sul General Intellect, rappresenta l’attuale maggiore sfida teorica. La domanda cruciale suona in questi termini: “È possibile scindere ciò che oggi è unito, vale a dire l’Intelletto (il General intellect) e il Lavoro (salariato), e unire ciò che oggi è scisso, cioè l’Intelletto e l’Azione politica? È possibile passare dall’<antica alleanza> Intelletto/Lavoro a una <nuova alleanza> Intelletto/Azione politica?

Sottrarre l’agire politico alla paralisi attuale non è cosa diversa dallo sviluppare la pubblicità dell’Intelletto al di fuori del Lavoro salariato, in opposizione ad esso”24. In altri termini, per la sovversione dei rapporti capitalistici di produzione si rende necessaria la costituzione di una “Sfera pubblica non statale”, di una comunità politica che abbia per soggetto la moltitudine e al proprio centro il General Intellect.

Certo è che nessun sistema ecologico, sociale, economico, per quanto resiliente possa dimostrarsi, può reggere gli attuali ritmi dell’accumulazione capitalistica, con il suo devastante portato di distruzione del pianeta e di annichilimento delle sue forme di vita.

Il Fediverso

Un processo embrionale di realizzazione di una interconnessione autonoma all’interno della rete è in atto attraverso la costituzione del cosiddetto Fediverso, vale a dire la federazione di diverse istanze (server) indipendenti della rete che insieme vanno a costituire, attraverso l’uso di software d’interfaccia libero, una piattaforma sociale autogestita e non proprietaria. Il tentativo oggi in corso sconta tuttavia il grosso limite dell’inadeguata esplicitazione e rivendicazione politica dei suoi possibili fini (innervazione del Comune) senza le quali il processo, misconosciuto ai più, rimane relegato allo stretto ambito degli internauti consapevoli. Il problema dell’attuale marginalità di questo processo federativo (insieme emancipatore e ricompositivo) può essere attribuito solo in parte ai suoi attori (in Italia, principalmente il collettivo Bida) mentre dipende molto di più dalla scarsa attenzione, per non dire profonda ignoranza, che molti degli ambiti di movimento più tradizionali e strutturati mostrano nei confronti dei temi delle piattaforme digitali, della colonizzazione economica della rete, dell’identità digitale, della costituzione dei Big Data e della governamentalità algoritmica, cioè della realtà che ci circonda.

Il Fediverso rappresenta tuttavia solo uno dei vari esempi in corso di sperimentazione di forme innovative, orizzontali, democratiche di collaborazione produttiva e di organizzazione dell’azione politica attraverso l’uso di nuovi strumenti informatici (ad iniziare dalle così dette piattaforme decisionali) e della rete. Altri esempi sono quelli dello sviluppo collaborativo di progetti di software libero, Linux in primis ma anche Autistici.org, in Italia, o Framasoft, in Francia; Wikipedia e suoi progetti complementari, le reti del Peer2Peer, il protocollo Matrix federato, gli stessi progetti di realizzazione delle piattaforme decisionali LiquidFeedback, Loomio e Decidim… oltre alla pirateria più o meno organizzata che ha, nei fatti, contrastato e sabotato il copyright e il monopolio di contenuti e software.

Il Possibile

I vani tentativi di cambiamento politico che molti paesi hanno attraversato e stanno attraversando per mezzo dell’inadeguata via istituzionale (da ultimo, il Cile), il sobbollire sociale di tutto il mondo occidentale, la guerra civile strisciante in paesi come gli Stati Uniti ed il Brasile, il costituirsi di nuove forme di soggettività antagoniste nel cuore della produzione materiale del pianeta, la Cina, la direzione distruttiva per l’ecosistema che è propria di questo capitalismo predatorio, devono poter trovare una risposta complessiva. Questa potrebbe essere ricercata attraverso lo sviluppo di una serie di percorsi indirizzati alla realizzazione di forme di democrazia partecipata, radicale, effettiva, preludio all’edificazione del Comune per mezzo del progressivo assemblaggio del Red Stack, inteso questo come la meta-infra-struttura votata ad uno sviluppo indefinito, cumulativo, specchio e interfaccia del General Intellect.

Come ho già scritto altrove25, ci troviamo a vivere in un peculiare frangente storico nel quale, oltre al manifestarsi dell’enorme potenza del circolo virtuoso scienza-tecnologia-ricerca con i suoi prodotti (biotecnologie, ingegneria genetica, neuroscienze, intelligenza artificiale), si stanno dando e sovrapponendo le molteplici ricadute dell’avvento della prima era informatica: l’umanità si trova ad un bivio drammatico tra utopia e distopia, tra liberazione e incubo. L’attuale tendenza della dinamica storica punta diritto verso una crisi sistemica dell’intero sistema-mondo. Se entro breve, prima che detta crisi si dia come irreversibile, l’umanità non sarà in grado di intraprendere e dar forza a una serie di processi autenticamente utopici26, l’Apocalissi sarà inevitabile, assisteremo alla “fine del mondo”, del nostro mondo27, dell’Occidente28.

Politica e soggettività

A fronte di questa esigenza di azione e trasformazione politica, il cui onere oggi risulta inevitabilmente in capo alla stretta minoranza di coloro che dispongono dei necessari strumenti analitici, critici e immaginativi, dobbiamo essere consapevoli che nessun atto di volizione, sia pur esso collettivo e teoricamente ben fondato, sarà sufficiente a porre in essere la svolta. La nostra attuale condizione esistenziale sconta un grave blocco anche sul piano della soggettività: oltre che nei vincoli dell’assoggettamento sociale, ci troviamo imbrigliati nelle insidiose dinamiche molecolari, preindividuali, subconsce, proprie della governamentalità algoritmica, che rendono difficile, quando non impossibile, il maturare di una consapevolezza critica generale e l’instaurarsi di nuove forme di relazione intersoggettiva. Il carattere subliminale dei sistemi di funzionamento dei dispositivi di connessione di massa, dei nostri smartphone, ci rende indifesi rispetto a questa minaccia, incapaci di prenderne coscienza e reagirvi.

Inoltre, la soggettività prevalente, in particolare quella delle generazioni più vecchie (numericamente maggioritarie in tutto l’Occidente), è ancora di tipo statico, rigido, permanente, con ruoli e profili attribuiti e/o assunti una volta per tutte. A fronte di ciò, a partire da un contesto sociale dove è promossa l’imprenditoria di sé stessi, il self-branding, la spietata competizione tra individui, diventa più che mai necessario trovare un modo nuovo di essere noi stessi: la sfera di una nuova soggettività, dinamica, duttile, trasformativa, deve entrare in risonanza con quella della comunità, della collettività, di un possibile Comune.

Si tratta indubbiamente di un percorso difficile, irto di difficoltà e incognite, dove l’iniziativa politica tradizionale, di natura rappresentativa, è del tutto preclusa e dove diviene necessario immaginare e sperimentare nuove forme di pensiero e d’azione, con tutti gli inciampi che simili percorsi inediti portano con sé. Significa ovunque stimolare, favorire, promuovere, catalizzare la nascita di molteplici e multiformi progetti di democrazia diretta, così che una nuova cultura politica possa gradualmente emergere e soppiantare quella precedente, quella “folk politics” i cui vizi e limiti hanno ben descritto Srniceck e Williams. Anche se non vi è alcuna certezza che essa possa essere percorsa né semplicemente intrapresa (la ce(n)sura fascista come l’asservimento algoritmico sono sempre più opprimenti), la strada per una possibile via d’uscita dal vicolo cieco in cui ci troviamo imprigionati sembra possa dirsi in qualche misura tracciata: solo una nuova politica, rizomatica e automatizzata, innervata dal Red Stack, può avere ragione del mondo alieno e iper-automatizzato che ci circonda, dell’automa capitalistico: facciamo nostre le armi del nemico per sconfiggerlo!

Note

1 – Mark Fisher – Realismo capitalista – Ed. Nero 2018 (Edizione originale: Capitalist Realism: Is there not alternative? – Zero Books 2009)

2 – Nick Srniceck, Alex Williams – Inventare il futuro – Per un mondo senza lavoro – Ed. Nero 2018

3 – Nick Srniceck, Alex Williams – Manifesto per una politica accelerazionista, reperibile in rete

4 – Paul Mason – Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro – Ed. Il Saggiatore 2016

5 – Jeremy Rifkin – La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del «commons» collaborativo e l’eclissi del capitalismo – Ed. Mondadori 2017

6 – Per meglio spiegare questa critica, riporto qui un passaggio de “Se le macchine di Marx siamo noi”, articolo già richiamato nell’incipit: “Secondo Negri e gli altri sostenitori del controllo operaio, dell’autogestione del lavoro, nel momento in cui questa autonomia del lavoro vivo come general intellect si dava sul luogo di lavoro, era impossibile negarla sul piano sociale. I teorici dell’intellettualità di massa hanno radicalizzato questo concetto di autonomia sostenendo che essa e la relativa emancipazione non sono un’esigenza tendenziale ma una realtà attuale (Lazzarato – Negri). Secondo loro “il lavoro si pone immediatamente come libero e costruttivo”. “Il capitale diviene un feticcio, un apparato vuoto di coercizione, un fantasma”. In questo che viene definito da Andrè Gorz, a mio avviso motivatamente, “delirio teoricista”, si trova il postulato secondo cui l’autonomia nel lavoro genera di per sé l’esigenza e la capacità dei lavoratori di sopprimere ogni limite all’esercizio della loro autonomia. Gorz replica che “l’autonomia nel lavoro è poca cosa se in assenza di un’autonomia culturale, morale e politica che la prolunghi e che non nasca dalla cooperazione produttiva stessa, ma dall’attività militante e dalla cultura del rifiuto della sottomissione, della ribellione, della fraternità, del libero dibattito, della messa in discussione radicale (quella che va alla radice delle cose) e della dissidenza che produce.” Gli autori che si rifanno “all’intellettualità di massa”, per una sorta di spinozismo sistemico, saltano a piè pari le questioni più importanti: l’esigenza delle mediazioni culturali e politiche dalle quali risulterà la contestazione del modo e delle finalità stesse della produzione. A che cosa e a chi servono i risultati del loro lavoro? Da dove vengono i bisogni che i prodotti si presume soddisfino? Chi definisce la maniera in cui questi bisogni o questi desideri devono essere soddisfatti e, attraverso essa, il modello di consumo e di civiltà? E soprattutto: quali rapporti intrattengono i partecipanti attuali al processo di produzione con i partecipanti potenziali, cioè i disoccupati, i lavoratori interinali, i precari, i lavoratori autonomi e quelli delle imprese subappaltatrici? A tutte queste domande il capitale ha le sue risposte e, proprio sottraendole al dibattito e alla contestazione, facendone delle “leggi naturali”, esso ha potuto asservire a sé l’autonomia dei lavoratori che invece, nel loro lavoro, sfuggono al suo comando. In altri termini: “la stessa lean production (produzione snella) produce le condizioni sociali e culturali che permettono il dominio del capitale sull’autonomia del lavoro vivo.

7 – Rodrigo Nunes – Neither Vertical Nor Horizontal: A Theory of Political Organization – Verso, 2021

8 – Sulla doppia accezione che il verbo to resignation ha in lingua inglese, “rassegnarsi”, appunto, e “dimettersi”, “dare le dimissioni”, gioca Franco Berardi Bifo in una serie di articoli pubblicati per Not nell’ambito della sezione titolata “Cronache della psicodeflazione”. In una prospettiva che più che pessimistica è opportuno assumere come realistica, Bifo evidenzia la necessità di rassegnarsi all’evidenza dei fatti e cioè che tutte le mire dei grandi movimenti che hanno attraversato l’Occidente negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso sono da ritenersi fallite e la rassegnazione rappresenta il necessario reset psichico per affrontare il presente per quello che è, senza illusioni o facili speranze: rassegnazione cioè come catarsi. Qui il link al primo articolo della serie.

9 – Rimando qui al mio articolo, già richiamato nell’introduzione, Per una Politica rizomatica, comparso sul numero zero della rivista, ed in particolare al concetto di Assemblea permanente che lì viene presentato. La costituzione di forme di auto-organizzazione, anche limitate ad uno specifico gruppo di lotta o a un determinato contesto territoriale, basata sull’adozione di un adeguato set di strumenti informatici, è quantomai auspicabile nella prospettiva della sperimentazione di un nuovo metodo il cui esito sia la nascita del Red Stack, di cui si dirà più avanti in questo articolo.

10 – Tiziana Terranova – Free Labor: Producing Culture for the Digital Economy, reperibile in rete

11 – Bernad Stigler – La società automatica. Vol. 1: L’avvenire del lavoro – Ed. Meltemi 2019

12 – Antoinette Rouvroy & Bernard Stiegler – Le régime de vérité numérique. Ed. Socio 2015

13 – Gilbert Simondon – L’individuazione psichica e collettiva – Ed. DeriveApprodi 2006

14 – Natascia Tosel – Pensare l’impersonale tra vitalismo e macchinismo. Come resistere alla governamentalità algoritmica? Scrive ancora Tosel nello stesso articolo: L’asservimento macchinico non è, perciò, un potere personalistico; esso non passa per la coscienza, poiché utilizza delle semiotiche che Guattari definirà asignificanti (Guattari 1977), quali il denaro, il codice informatico, la borsa: si tratta di segni che operano nell’immediato e trasformano il reale.

15 – Anche il web, che si riteneva una forma di media intrinsecamente democratica, basata com’è su di una tecnologia a struttura orizzontale (Marshall McLuhan), è stato colonizzato attraverso la creazione di piattaforme. In questo caso, il controllo viene esercitato non tanto attraverso la centralizzazione bensì mediante l’occupazione dello spazio informatico, della rete, in analogia a quanto avvenne con l’occupazione del suolo americano da parte dei coloni europei o della costruzione delle enclosures sulle terre comuni nell’Inghilterra del ‘700. Torneremo su questo punto più avanti, nel paragrafo “Dal Web allo Stack”.

16 – Per un approfondimento sul “Frammento”, oltre alla considerevole letteratura di produzione operaista a riguardo, rimando al mio “Se le macchine di Marx siamo noi”, richiamato all’inizio di questo articolo.

17 – Sulla non rigidità e unilateralità di questo rapporto, sulla sua reciprocità, vedasi la precisazione della nota 3 nel mio “Per una Politica rizomatica”.

18 – A questo riguardo, quello del rapporto tra struttura e sovrastruttura, tra forze produttive e relazioni di produzione, giova citare direttamente Marx: “Ad un certo stadio di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con le esistenti relazioni di produzione o – ciò esprime meramente la stessa cosa in termini legali – con le relazioni di proprietà nel cui tessuto esse hanno operato sin allora. Da forme di sviluppo delle forze produttive, queste relazioni diventano altrettanti impedimenti per le stesse. A quel punto inizia un’era di rivoluzione sociale”. Karl Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica 1859

Sul fatto che ci si trovi oggi in questa condizione di conflitto non vi sono dubbi; i dubbi e le perplessità sono molti, invece, rispetto al fatto che ciò porti ad un’era di rivoluzione sociale. Si direbbe che la “natura umana”, dai tempi di Marx, abbia subito una grave degradazione.

19 – Sui metodi attraverso i quali gli USA hanno garantito il dominio mondiale dell’alta finanza, è molto istruttivo il libro autobiografico scritto da Johan Perkins ed ormai divenuto un classico Confessioni di un sicario dell’economia – Ed. Minimum Fax 2012

20 – Benjamin H. Bratton – The Stack: On Software and Sovereignty – MIT Press 2015

21 – Benjamin H. Bratton – The Black Stack reperibile in rete

22 – Tiziana Terranova – Red stack attack! Algoritmi, capitale e automazione del comune, reperibile in rete

23 – Vedasi in particolare Hannah Arendt – Vita Activa. La condizione umana – Ed. Bompiani 2017

24 – Traggo questa citazione, così come l’insieme delle suggestioni che danno sostanza a questo paragrafo, da Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, trascrizione di un seminario tenuto da Paolo Virno nel 2001 presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università della Calabria. In questo testo l’autore propone come risposte provvisorie, come sole “allusioni a quello che potrebbe essere il virtuosismo politico, cioè non servile, della moltitudine”, la disobbedienza civile e l’esodo, in una prospettiva ancora difensiva, resistenziale, non avanzante, più che giustificata dal lungo tempo trascorso, ben vent’anni che, nell’accelerazione crescente a cui è sottoposta la storia, sono davvero molti.

25 – Vedasi la parte conclusiva di Se le macchine di Marx siamo noi dove scrivo: “Camminiamo su di uno spartiacque sottile che separa il sogno della liberazione dall’incubo delle peggiori distopie e non sarà nessun automatismo tecno-evolutivo a farci propendere verso il crinale favorevole. Per questo ritengo sia ormai imprescindibile e improcrastinabile, da parte delle tante soggettività politicamente consapevoli, la ricerca, la sperimentazione e la strutturazione di nuove forme di organizzazione politica di carattere orizzontale, trasparente, decentrato, basate sul principio di auto-rappresentanza che siano in grado, anche attraverso le formazioni d’attacco del Fediverso, di costituire realmente un “Soggetto politico collettivo”, voce diretta dell’Individuo Sociale, capace di portarci, anche sul piano imprescindibile delle istituzioni, verso la realtà di un nuovo paradigma.

26 – L’utopia si pone: “come piano di immanenza, movimento infinito, sorvolo assoluto, ma nel senso in cui questi tratti si collegano con ciò che è reale qui e ora nella lotta contro il capitalismo rilanciando nuove lotte ogni volta che la precedente è stata abbandonata. La parola utopia designa dunque questa connessione della filosofia o del concetto con l’ambiente: filosofia politica.” (Deleuze & Guattari 1992: 93)

27 – Ernesto De Martino – La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Nuova ediz. – Ed. Einaudi 2019

28 – Sull’esigenza di trasformare l’Occidente a partire dalle sue fondamenta, ha scritto bellissime pagine Karl Polany, raccolte nel volume titolato appunto “Per un nuovo Occidente” – Ed. Il Saggiatore 2013