Il suprematismo non bianco

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di F. “Bifo” Berardi

Inaugurando il tempio di Rama nella città di Ayodhya il primo Ministro Norendra Modi, per l’occasione grande sacerdote di Ram, dichiara che oggi, il 22 gennaio 2024, è il primo giorno di una nuova era, la fondazione dell’India dei prossimi mille anni l’era dell’espansione della coscienza, della fusione tra energia divina e umana. L’avvento del Ram Rajya (Ordine Divino) segna anche la definitiva trasformazione dell’ordine costituzionale di quella che continua a definirsi la più grande democrazia del mondo. Il tempio di Rama è stato costruito dove c’era una Moschea del sedicesimo secolo, il Babri Majid, che nel 1992 fu abbattuta da una folla mobilitata da organizzazioni ultra-nazionaliste. La demolizione della moschea scatenò i più sanguinosi scontri religiosi dai tempi dell’indipendenza, con duemila morti, per lo più musulmani. Da allora inizia l’ascesa dell’uomo che rappresenta la fusione di nazionalismo e fanatismo religioso. L’India di Modi è forse l’esempio più impressionante del trionfo dell’identità: un trionfo sanguinoso, totalitario, e forse irreversibile.

Chi è Norendra Modi, questo collega indiano di Donald Trump e di Vladimir Putin, questo simbolo dell’orgoglio induista e questo catalizzatore dell’energia capitalista, che ha catapultato l’India ancestrale verso il globalismo? Modi salì all’attenzione dei media dopo i sanguinosi eventi di Ayodhya dove, all’inizio del secolo, i nazionalisti induisti aggredirono e massacrarono centinaia di musulmani in seguito a conflitti religiosi e politici che nel subcontinente si sono accentuati e radicalizzati proprio grazie alla crescita del nazionalismo indù. Nato in una famiglia ganchi, una delle caste più “basse”, figlio di un venditore di tè, vegetariano, si è formato nelle file del movimento Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS). Bisogna soffermarsi sulla storia di questo movimento che nasce nel 1925 come espressione indiana del nazionalismo fascista che aveva cominciato a diffondersi dopo la prima guerra mondiale in larga parte del mondo. Il riferimento al fascismo italiano è esplicito nella formazione di questa organizzazione, cresciuta fino a raccogliere milioni di aderenti che si sottopongono a un addestramento militare.

La storia del nazionalismo indiano durante gli anni della lotta di liberazione dal colonialismo inglese è complicata: parte dei nazionalisti furono armati e finanziati dai nazisti in funzione anti-inglese.  La figura di Subhas Chandra Bose è importante in questo contesto. Aiutato dai nazisti e dai fascisti italiani, Chandra Bose, nato a Calcutta e assurto a posizioni di direzione del movimento anti-inglese, ruppe con la posizione pacifista di Gandhi e quella socialista di Nehru, e costituì un’armata nazionale indiana. In collaborazione con i giapponesi condusse una campagna militare contro gli inglesi.

Il rapporto del nazionalismo indiano con il nazismo tedesco e giapponese è un tema che non possiamo sottovalutare se vogliamo capire la profondità delle radici del Nazismo, e se vogliamo sottrarre il giudizio sul Nazismo tedesco alle semplificazioni della storiografia occidentale di orientamento liberale, o anche di orientamento marxista.

Il Nazismo non è, come pretende questa storiografia, un eccezionale fenomeno di violenza anti-democratica, riducibile al contesto dell’Europa degli anni seguenti alla prima guerra mondiale. Certo è anche questo, ma la sua natura si comprende meglio se riusciamo a vederlo come l’emergere di una corrente più ampia fondata sul culto della purezza etnica o nazionale. La cultura induista, fondata sulla naturalizzazione della gerarchia castale, fu una fonte di ispirazione per il Nazismo hitleriano.

Insomma, detto in maniera un po’ brutale ma non tanto imprecisa, possiamo affermare che nel secondo decennio del ventunesimo secolo gli eredi di Hitler hanno preso il potere sul paese più popoloso del mondo (ormai più popoloso della Cina), un paese che gli occidentali continuano a definire, con sublime sprezzo del ridicolo, la democrazia più grande del mondo.

La favola dell’India più grande democrazia del mondo farebbe ridere se non fosse tragica. Nasconde la realtà di un regime politico che non ha mai scalfito la forma rigidamente gerarchica e crudele della vita quotidiana nella società indiana (o piuttosto nelle molteplici società indiane). Oggi il nazismo liberale di Modi rivela una trasformazione profonda della realtà indiana, che è l’effetto della globalizzazione economica e della circolazione libera della forza lavoro cognitiva, degli intellettuali e dei lavoratori tecnologici. Ma questa trasformazione non sfiora neppure la gerarchizzazione castale, anzi la trasforma in un modello. Nazismo e liberismo si esprimono qui in maniera compiuta.

Se c’è una differenza del modismo rispetto al Nazismo hitleriano o al fascismo mussoliniano (e c’è, come no) la dobbiamo trovare nel rapporto con l’economia. Il nazismo e il fascismo novecenteschi avevano alcuni elementi di socialismo, o piuttosto di statalismo. Il modismo invece, impone l’assoluta liberalizzazione dell’economia, cioè la dittatura del profitto privato.

Una parola vuota ma efficace

Il concetto di identità è ambiguo, così ambiguo che non vuol dire niente. Oppure vuol dire troppo.

Possiamo leggere l’identità come l’essere identico a se stesso, oppure come l’essere differente dall’altro: due inutili tautologie.

Se proviamo a definire il concetto sul piano filosofico non ne caveremo molto, ci aggireremo all’infinito in un circolo vizioso. Allora lasciamo da parte la filosofia, e rivolgiamoci all’uso comune di questa parola: proviamo a riflettere sul significato che le viene attribuito nel contesto politico.

Il motivo identitario è la forza di tutti i movimenti ultra-reazionari che si affermano nel mondo, da quando la Brexit inaugurò la fase psicotica della politica mondiale. Dalla vittoria di Donald Trump nel 2016 al trionfo di Norendra Modi fino alla travolgente ascesa di Javier Milei l’ultimo decennio ha visto lo scatenarsi caotico delle identità. Nazionali, etniche, religiose.

La cultura (nel senso di Kultur) ha preso il sopravvento sulla ragione, l’appartenenza ha preso il posto del pensiero.

Si sono poste in questo modo le premesse per la guerra caotica che promette di dominare il prossimo decennio.

Per quanto inconsistente e ambigua sul piano concettuale, la parola identità ha una grande efficacia sul piano pratico: funziona come terapia del panico e della depressione, offre surrogati di comunità a folle di individui sempre più soli, sempre più rabbiosi. L’uso di questa parola (vuota ma efficace) ha avuto alterne vicende nei decenni passati: la parola identità si presta infatti a interpretazioni tra loro in conflitto.

Da quando l’individualismo liberale ha catturato la sfera linguistica e psichica non meno di quella socio-economica, la parola identità è venuta a significare riconoscibilità di una persona nel gioco sociale.

Identità sarebbe l’insieme delle caratteristiche e delle competenze che rendono un individuo apprezzabile, identificabile, e quindi competitivo.
Nel rapporto con gli altri, l’identità dell’individuo si manifesta nelle forme del prestigio, del riconoscimento economico, delle competenze che lo identificano.

Nel contesto neoliberale il problema dell’identità si presenta come una sorta di tormento, di mancanza perpetua, di corsa all’affermazione, e l’identità ha molto a che vedere con il merito, con l’eccellenza. L’ideale dell’identità (che non esiste) è l’eccellenza.

Ma i criteri del merito non sono affatto oggettivi e neutrali: sono invece stabiliti socialmente in funzione dei valori riconosciuti in un determinato contesto sociale. In una società capitalistica il valore centrale è quello economico, e quindi il criterio con cui si valuta il merito è il criterio del profitto. Eccellente è chi lo persegue e ottiene in maniera più efficace, non importa con quali mezzi.

D’altra parte l’eccellenza è necessariamente rara, perché nessuno può eccellere se tutti eccellono alla stessa maniera. Infatti solo pochi ottengono il riconoscimento desiderato, pochi ottengono risultati economici eccezionali, così che la frustrazione è il sentimento prevalente in una società meritocratica che collega l’identità alla riconoscibilità individuale e all’eccellenza.

Come reazione a questa frustrazione della maggioranza dei non eccellenti, si è riattivato un bisogno di identità del tutto differente da quello individuale: l’identità del conformarsi, del non differenziarsi: l’identità reattiva dei perdenti.  Invece che segnalare eccezionalità, l’identità segnala infatti (in maniera del tutto contraddittoria) l’appartenenza. Quando un liberal democratico parla di identità si riferisce alla sua efficienza nel perseguire l’obiettivo di arricchimento che sembra essere universalmente condiviso.

La mia identità è l’eccellenza, dice tronfio l’idiota neoliberale.

Ma quando un nazionalista parla di identità si riferisce all’appartenenza alla nazione, o alla razza. In questo senso l’identità significa appartenenza ad un comune fattore identificante, ma significa anche estraneità tendenzialmente ostile e potenzialmente aggressiva verso chi non fa parte della stessa tribù, nazione, razza o religione.

La mia identità è l’appartenenza, dice tronfio l’idiota nazionalista.

Non dobbiamo pensare che queste due definizioni di identità siano incompatibili: tutt’al contrario nella società contemporanea, dopo quattro decenni di retorica nazional-liberista, le due forme di identità coesistono nella cultura, nel linguaggio e nella percezione collettiva. Sono il tormento e il fattore propulsivo di una società dedicata alla guerra.

Un disertore indiano di nome Arun

L’India del ventunesimo secolo è l’esempio di questo intreccio di culto dell’appartenenza e aggressiva competizione individualista.

Il romanzo di Pankaj Mishra, che in italiano porta il titolo Figli della nuova India, nell’originale inglese si chiama Run and Hide (Corri a nasconderti). Il titolo italiano è piuttosto banale, ma coglie l’aspetto sociologicamente centrale del libro: la descrizione del ceto intellettuale dell’India contemporanea, fortemente influenzato dal globalismo liberale e dalle culture digitali.

Il titolo originale coglie più adeguatamente il senso del racconto: fuggiamo, disertiamo la vita sociale ossessionata dalla competizione, dal culto ambiguo dell’identità dell’epoca Modi. Nascondiamoci.

Il protagonista, Arun, che è anche la voce narrante, dopo avere perseguito la promozione sociale, dopo aver creduto nei valori del progressismo liberale occidentale, decide di fuggire, di abbandonare tutto quel che ha ottenuto con lo studio, i viaggi, l’amore per una donna di origine musulmana, ma di famiglia ricca e cosmopolita, e decide di rifugiarsi in un convento monastico dell’Himachal Pradesh, dove il Buddhismo tibetano gli permette di tentare la via della diserzione mistica, cercando l’emancipazione dalle illusioni dell’io. Una critica dell’identità arrivista e competitiva, non meno che dell’identità reattiva fondata sull’appartenenza induista.

Da molto tempo Salman Rushdie ripete che l’identità nazionale indiana è una finzione: “Uno degli aspetti più assurdi di questa ricerca di identità nazionale è che, perlomeno per quanto riguarda l’India, è del tutto errato supporre che esista una tradizione pura e incontaminata alla quale fare riferimento.” (Salman Rushdie: Patrie immaginarie p. 76).

Figli della nuova India è la storia di Arun, Aseem e Virendra, tre studenti le cui vite si incrociano verso la metà degli anni ‘80 all’Indian Institute of Technology. Aseem ha una visione laica e modernista della vita, e pur avendo studiato ingegneria, intraprende ben presto la carriera di scrittore e giornalista. Virendra proviene da una casta Dalit, e vuole emanciparsi dalla sua origine con la caparbietà, la capacità di sottostare alle umiliazioni e ai soprusi che gli vengono imposti a causa della sua provenienza da una casta bassa. Infine c’è Arun, voce narrante che proviene da un’infanzia di miseria e sofferenza. Dopo la fine degli studi, i primi due paiono ottenere il successo economico e la fama, mentre Arun sceglie una vita lontana dal modello occidentale e si ritira a vivere in campagna con la madre.

Il rapporto tra modernità e tradizione è il nucleo della narrazione. Modernità significa emigrazione in Occidente, oppure assimilazione di un modello neoliberale e laico, ma significa anche cinismo, competizione aggressiva. Tradizione significa invece ritorno nella vita di villaggio, nella sfera della famiglia.

Arun si guadagna da vivere con il lavoro di traduzione dall’hindi all’inglese o viceversa. Traduttore è colui che cerca di transitare da un mondo immaginario a un altro attraverso l’indeterminazione del linguaggio, e tradisce il testo per renderlo comprensibile in un mondo differente da quello in cui è stato concepito. Questo tradimento può essere un arricchimento.

Siamo indi che hanno attraversato le acque nere, siamo musulmani che mangiano carne di maiale. E di conseguenza apparteniamo almeno parzialmente all’Occidente. Abbiamo un’identità al tempo stesso plurale e parziale. A volte ci sembra di cavalcare due culture; altre volte ci pare di cadere tra due sedie… Siamo individui tradotti. Si ritiene solitamente che qualcosa dell’originale si perda in una traduzione; insisto sul fatto che si possa anche guadagnare qualcosa. ” (Salman Rushdie: Patrie immaginarie, ibi, 20, 22).

L’Indian Institute of Technology, la scuola frequentata dai tre ragazzi, è un’università di Delhi che costituisce la porta di accesso verso la modernità tecnologica e verso una desiderabile carriera nelle nuove occupazioni intellettuali della globalizzazione anglo-sassone. Fin dalle prime pagine ci rendiamo conto del fatto che quella modernità e quel cosmopolitismo intellettuale convivono perfettamente con il più feroce principio di casta.

Siva disse che Virendra poteva migliorare il suo karma, ed evitare di rinascere Dalit, solo pulendo l’ano di un bramino con la lingua, mentre Aseem poteva aspirare a essere promosso dalla casta dei Kshatriaja a quella dei bramini solo masturbandosi di fronte a tale spettacolo.” (p.18)

Virendra deve pulire con la lingua il buco del culo di Arun (che dice di essere di casta bramina, anche se non è vero), se vuole migliorare il suo karma. E allora ecco Arun calarsi i pantaloni, ecco Virendra mettersi in ginocchio dietro ad Arun e leccare il buco del culo. Siva, il dominatore della situazione, ordina che questo accada, e questo accade perché l’ordine castale è iscritto nella psiche di ciascuno dei partecipanti al gioco della sottomissione, dell’umiliazione, dell’elevazione attraverso l’umiliazione. “Nella realtà nessuno di noi poteva anche solo pensare di poter sfuggire al ruolo assegnatogli nella gerarchia sociale.” (p.21). In questo modo giungiamo al nucleo della descrizione sociologica che Mishra ha costruito con questo libro, la descrizione delle dinamiche su cui si fonda il Nazismo liberale che Norendra Modi rappresenta.

Virendra si sottomette alla violenza di casta, lecca il culo di un bramino per obbedire al prepotente Siva, ma contemporaneamente studia con accanimento, costanza, fino a diventare un abilissimo operatore tecnologico e finanziario, fino ad emigrare in America, dove incontra il suo persecutore di ieri, Siva, e insieme a lui si impegna in un’impresa finanziaria che in pochi anni lo porta al successo, come fosse un Sundar Pichai, o che ne so un Rishi Sunak o una Pritti Patel, insomma, un rappresentante di questa generazione di animali feroci di origine indiana che hanno realizzato l’American dream (o il British dream, che è lo stesso): un sogno che permette di diventare lupi dopo avere subito la violenza crudele dei lupi che ti hanno preceduto, che ti hanno imposto di leccare il culo di un brahmino o di un direttore di banca. Ecco allora che hai potuto passare dalla miseria e dall’umiliazione alla ricchezza. E ora sei tu che puoi infliggere umiliazione a chi ti salta il ticchio di umiliare.

Orrore liberale e orrore di casta. Orrore della sottomissione alla violenza tradizionale, religiosa, e orrore della violenza razzista nei confronti di chi è costretto a subire la tua violenza perché è povero, salariato, sottomesso. Orrore dell’identità in tutte le sue forme.

Ecco il riscatto che Modi offre alla popolazione indiana, anzi per essere precisi, alla popolazione induista, perché i musulmani i sikh e molti altri non godono di questo culto dell’appartenenza, anzi sono perseguitati, emarginati, linciati, cacciati dal loro quartiere – da miserabili sfruttati che però hanno il privilegio di avere sangue indù. Dalla poltiglia nazional-globalista emerge un nuovo ceto di arrivisti crudeli che sanno come infiltrarsi nella società dei colonizzatori di ieri, sprofondati oggi in un marasma di demenza depressione e panico: l’America di Donald Trump, l’Inghilterra degli anni Brexit.

Arun, che alla fine del romanzo si rifugia in un eremo nell’Himachal Pradesh, è il disertore, colui che non accetta di partecipare alla guerra economica e a quella nazionale, due facce della stessa malattia terminale dell’umanità.