Tech Worker, lavoro tecnologico e identità. Nuovi orizzonti e nuove forme di conflitto.

Panorama SolarPunk – di ImperialBoy

di S. Robutti


Letture propedeutiche:

The Californian Ideology

Contro l’hackerismo


Questo articolo presenterà un’analisi utile a comprendere la nuova ondata di organizzazioni, scioperi e proteste che attraversa il settore dell’Information Technology(IT), in particolare in USA e Nord Europa, scritta dal punto di vista di un Tech Worker. La speranza è quella di dare trasparenza a questi fenomeni e permettere di comprenderne più a fondo le peculiarità, le similarità con strutture e processi passati e presenti ma anche le profonde differenze sia sul piano della prassi che sul piano dell’identità.

Nota: in questo articolo si utilizzerà il termine “Tech Worker” per identificare esclusivamente figure tecniche o creative impegnate nello sviluppo di software, hardware e artefatti tecnologici in genere. Questo uso del termine differisce da quello, ad esempio, di Tech Workers Coalition che definisce Tech Worker chiunque sia coinvolto nel processo di produzione di una tecnologia. Questa scelta è fatta per meglio mapparsi sulla nascente identità del Tech Worker, che sebbene venga forzosamente allargata a figure molto diverse tra loro per scopi strategici, ad oggi ha trazione principalmente tra figure tecniche. Questa non è una critica all’obiettivo di creare solidarietà tra diverse categorie di lavoratori ma esclusivamente una semplificazione fatta per dare chiarezza alle idee qui esposte. Alcune mansioni associabili a questa definizione di Tech Worker sono: grafici, programmatrici, designer, sistemisti, architetti del software, tester, quality assurance, copywriter.


Il Capitale Digitale è un colosso dai piedi d’argilla. La testa d’oro, la parte più visibile, è quella di Mark Zuckerberg, Sundar Pichai o di Jeff Bezos che iniziano a trattare con gli Stati-Nazione da pari. Ormai insidiati nelle strutture produttive, logistiche e burocratiche di ogni paese, hanno reso dipendenti non solo i consumatori ormai inseparabili dai loro schermi (incluso il sottoscritto) ma anche tutti i tessuti sociali di cui fanno parte. Una rimozione repentina di Google Search, Google Cloud Platform o Amazon Web Services avrebbe un impatto traumatico su tanti settori industriali, al punto che l’Unione Europea insegue il sogno di un Cloud indipendente e di servizi web liberi dalla giurisdizione americana non solo come stimolo al settore digitale del vecchio continente ma anche e sopratutto come strumento di indipendenza tecnologica.

Questo dà ai giganti del tech, così come a tante altre corporation meno appariscenti ma altrettanto interlacciate con governi e settori produttivi locali, il ventre di silicio dell’IT, un enorme potere oltre che una relativa tranquillità: l’Occidente è pienamente colonizzato e gli Stati-Nazione hanno tutto l’interesse nel tenere la vera concorrenza (principalmente Cinese) fuori dal dominio del Simbionte tecno-sociale occidentale.

Questa apparente solidità, però, non è destinata a durare. Il sasso che farà crollare il colosso abita il colosso stesso: un’ idea nuova, potente, sta emergendo dalle sue membra metalliche, pronta a distruggerne la struttura alle fondamenta. Il sasso, ormai pronto ad essere scagliato, è il Tech Worker: consapevole e risoluto, è pronto a dar battaglia, ufficio per ufficio, officina per officina, magazzino per magazzino.

 

I Tech Worker (non) sono gli operai del nuovo millennio

Le aziende del Big Tech, nate in larga parte in pieno neo-liberismo e cresciute in maniera rapida e caotica, raramente si sono dovute confrontare con forme di conflitto interno. Certo, si possono raccontare tanti esempi di conflitti individuali ai vertici di queste aziende, come quello tra Steve Jobs e Steve Wozniak, ma sono invece molto più rari gli esempi di conflitti strutturali. O per meglio dire: erano rari fino a pochi anni fa.

Sono sempre più frequenti infatti gli esempi di lavoratori tecnologici che, presa coscienza del proprio ruolo nel sistema di produzione della tecnologia digitale e dei danni che questa porta, decidono di prendere in mano la situazione. Proteste, scioperi, boicottaggi della produzione sono sempre più frequenti, sopratutto in USA. Un fenomeno nuovo, ancora giovane e acerbo, ma che ha squarciato l’illusione della pace sociale e che contesta il Futuro alle utopie tecnocratiche proposte dalla Silicon Valley e riecheggiate in tutto l’Occidente. Partendo da un desiderio latente di giustizia sociale, da una necessità di maggiori diritti per donne, comunità LGBTQIA+ e minoranze etniche, da posizioni anti-militariste ed ecologiste ma anche direttamente da rivendicazioni salariali è in corso una ri-educazione dei lavoratori tecnologici verso la lotta politica e sindacale.

Questo movimento, nato in un mondo ormai consapevole della Complessità, si configura come un ecosistema altamente distribuito e decentralizzato, con radici locali e ambizioni di coordinamento globali. Una galassia di gruppi, organizzazioni, identità, nomi: grandi mangrovie come Tech Workers Coalition e Game Workers Unite, piccole vespe, rapide e implacabili, come Amazon Employees for Climate Justice, microorganismi insediati nel ventre di organizzazioni molto più grandi come sindacati e istituzioni con la capacità di adattarne il microbioma e permettergli di digerire i cambiamenti portati dalle novità del lavoro tecnologico come il Tech Workers Organizing Committee della IWW o laboriosi formicai come Loomio.

Per alcuni viene spontaneo a questo punto ricercare in questi fenomeni similarità con i movimenti operai che hanno costellato l’ascesa del Capitale Industriale. Il nuovo Capitale Digitale, ormai affermato su scala globale, ripete gli stessi pattern.

Per altri invece la modellazione del cognitariato offre un fondamento per inquadrare l’esperienza e il modo produttivo dei lavoratori del settore cognitivo affermatosi con l’ascesa del modello neoliberale. Sebbene questa categoria catturi efficacemente alcuni aspetti nuovi presenti nelle forme di produzione della tecnologia, ne occulta altri fondamentali per comprendere le dinamiche di potere presenti all’interno degli open-space in cui viene sviluppato il software o nelle officine in cui viene progettato il nuovo gadget di turno.

Come in molte forme di lavoro cognitivo, anche nella produzione tecnologica il contributo individuale è difficilmente misurabile. Questo meccanismo nella pratica si traduce in un conflitto tra management e lavoratori per la logica di misurazione. Nella fabbrica fordista questo conflitto si svolge sui numeri dei pezzi prodotti, sulla durata delle pause o dei turni; nel lavoro cognitivo invece ciò su cui si contende è il sistema di misurazione stesso, il processo e, talvolta, l’obiettivo stesso della produzione e gli artefatti con cui arrivarvi. Una sconfitta totale da parte del lavoratore implica la libertà del manager di utilizzare metriche (ovviamente arbitrarie) in grado di dimostrare che nonostante l’impegno del lavoratore, il risultato non è soddisfacente e di conseguenza si auto-legittima a richiedere un impegno maggiore. Un esempio può essere un lavoro di grafica: il giudizio del committente è sempre il metro ultimo con cui si valuta un artefatto grafico e lavori da pochi minuti possono venire registrati come soddisfacenti mentre lavori che richiedono diversi giorni possono venire rifiutati perché non conformi alle richieste, questo con scarso potere di appello da parte del lavoratore.

 

Semi di resistenza spontanea

In ogni forma di lavoro cognitivo si può osservare questa dinamica di conflitto sul lavoro immateriale ma, io credo, il settore IT ha un tratto particolare: se, culturalmente ed organizzativamente, un manager si sente in diritto di giudicare un artefatto grafico, un testo o una pubblicità a prescindere dalla sua effettiva competenza in materia, lo stesso non si può dire di un software, di un design hardware o di un pezzo di codice. Può giudicarne l’interfaccia grafica e l’esperienza utente, ma raramente può andare più a fondo, banalmente perché le competenze tecniche necessarie sono oltre le possibilità della stragrande maggioranza della classe dirigente ma anche di altri programmatori non specializzati nelle stesse cose. Chi prova ad oltrepassare questa barriera, spesso e volentieri riceve una forte opposizione. Nelle organizzazioni in cui questa è la routine, se il software è una componente critica per l’organizzazione, questa invasione di campo viene riconosciuta comunemente come una potenziale causa di fallimento economico o strutturale dell’organizzazione. Nei rari contesti in cui organizzazioni del genere possono sopravvivere, questa attitudine porta alla creazione di mostri digitali, ostracizzati come anomalie da eliminare. Questo truismo anti-managerialista genera un’area grigia a bassa visibilità che apre ampie aree di autonomia e di potere, non eliminabili con deskilling, standardizzazione e automazione. I Tech Worker utilizzano questa argomentazione, spesso senza consapevolezza, per difendere istintivamente la propria autonomia quando presente (come nel caso dei programmatori) o quando va riconquistata (come nel caso dei grafici).

Perché il deskilling, un pattern apparentemente endemico nel ciclo di vita della maggior parte delle professioni, non sembra impattare l’IT? Per costruire un’argomentazione solida è necessario approfondire cosa esattamente significa produrre software e come evolve nel tempo l’utilizzo di una determinata tecnologia.

Il pattern fondamentale che ogni programmatore intuitivamente comprende è che, col passare del tempo, ogni soluzione ad un problema viene prodottizzata, semplificata e resa disponibile come codice open source. Così un programmatore mediamente qualificato che 10 anni prima avrebbe dovuto spendere migliaia di ore per sviluppare una data soluzione, ora può prendere un componente già fatto, customizzarlo in poche ore e avere una prima versione funzionante del sistema.

Un esempio lampante sono le tecnologie Big Data: se a metà degli anni 2000 solo Google, Yahoo e una manciata di altri potevano davvero permettersi di processare un volume di dati che oggi chiameremmo Big Data, oggi questo tipo di operazioni richiede poche centinaia di ore/uomo per avere una prima iterazione funzionante, la maggior parte delle quali necessarie a configurare una rete di computer su cui eseguire il programma. La logica del programma in sé diventa triviale una volta che si utilizza un Data Processing Engine, software dedicati a semplificare la scrittura di programmi distribuiti su più macchine. Questi software 20 anni fa non esistevano e fu proprio Google a stimolare la nascita del settore ispirando Hadoop, il primo vero Data Processing Engine, ancora in uso ad oggi in molte aziende. Hadoop, e poi Spark, Flink e tutta la genealogia di questi software, trasformano un problema estremamente complesso come la distribuzione dell’esecuzione di una pipeline di processamento dati in un lavoro alla portata di un programmatore non esperto che con poche righe di codice è così in grado di svolgere operazioni prima riservate ad una piccola élite di super-programmatori.

Questo assomiglia alla standardizzazione e automazione che si può incontrare in un contesto industriale, dove l’introduzione di una macchina più potente rimpiazza una frazione corposa della forza lavoro, eliminando la necessità di lavoro manuale. Sarebbe però un errore pensare che questo sia il pattern che si vede nell’IT: quello che si osserva è che semplicemente si espandono le ambizioni e le possibilità di chi produce software, puntando a catturare, processare e comporre informazioni sempre più grandi, sempre più complesse, in maniera sempre più pervasiva. Al momento non sembrano esserci vincoli fisici o sistemici all’espansione di questo meccanismo: la capacità computazionale è, ad oggi, ampiamente sotto-utilizzata e un qualsiasi rallentamento nella sua crescita semplicemente verrebbe compensata ottimizzando il codice esistente per meglio sfruttare l’hardware a disposizione. La domanda di servizi informativi fatica ad essere soddisfatta sotto il capitalismo cibernetico. In più l’offerta di forza lavoro umana necessaria è insufficiente, rallentando il meccanismo. Nulla cresce all’infinito, ma al momento all’orizzonte non si riesce ad immaginare un cambiamento non traumatico che porti ad un rallentamento nella crescita della forza lavoro impegnata nello sviluppo software.

Il modo in cui i lavoratori tecnologici si distribuiscono nell’arco di vita (concettualizzazione –> adozione –> commoditizzazione –> maturità –> declino/plateau) delle tecnologie su cui si specializzano tende a determinare il livello di benessere relativo del lavoratore, prendendo spesso precedenza su altri fattori come l’anzianità. Sebbene questo fenomeno costringa il lavoratore ad aggiornarsi costantemente, spesso a spese proprie e con danni psicologici enormi, garantisce anche una capacità potenzialmente illimitata nel reinventarsi come una nuova figura professionale: se si finisce su un’onda calante, si ha la certezza che investire su un’onda crescente eviterà l’esclusione dal mercato del lavoro, una prospettiva percepita come talmente improbabile da non essere contemplabile.

Ciò concede al Tech Worker una relativa stabilità, ormai inusuale nel mercato del lavoro neoliberale dalla quale può costruire forme di solidarietà, non per disperazione, ma per consapevolezza della propria forza. La certezza percepita di avere sempre una posizione lavorativa disponibile a prescindere dall’andamento dell’economia è tanto importante, sul piano strategico, quanto e forse più della sicurezza economica portata dagli stipendi sopra la media.

I distinguo però non sono finiti e c’è un altro livello di complessità che motiva i Tech Worker nella propria lotta, sopratutto in USA. Se una fetta corposa dei Tech Worker è relativamente protetta, con un contratto a tempo indeterminato, benefit e stabilità, molti altri non hanno questi privilegi nonostante siano parimenti competenti. In un campus di Google è normale vedere seduti fianco a fianco a lavorare sullo stesso pezzo di codice un software engineer “anziano” che guadagna 160k$ RAL e un precario, magari con la stesso livello di anzianità, pagato 90k$ RAL o meno. La differenza? Uno è riuscito a passare il processo di selezione notoriamente bizantino di Google. In una cultura dove la competenza tecnica è la misura della persona che hai di fronte, una situazione simile indispone sia il dipendente interno che il contractor e non esiste narrativa aziendalista che riesca a convincerli di meritare uno stipendio diverso.

Oltre a questi esempi lampanti, esistono innumerevoli storie e casi che alimentano un sentimento diffuso per cui l’intera industria risponde a impulsi irrazionali il cui risultato è insoddisfacente. Caduta l’illusione che più tecnologia possa essere la risposta, a riempire il vuoto arrivano le più disparate ideologie e soluzioni, alcune latenti da tempo, altre inedite e in piena accelerazione. Progressiste, rivoluzionarie, conservatrici o reazionarie, tutte contribuiscono alla politicizzazione di un settore che fino a poco tempo fa era dominio indiscusso del neoliberalismo, capace di difendere la propria posizione con la giustificazione che “la Tecnologia non va politicizzata”. Oggi questo mantra ripetuto ossessivamente per anni nei blog e sui forum di tutta l’Internet, ai meetup, alle conferenze, suona fiacco.

Una volta esclusiva degli ambienti più radicali e di nicchia, frasi come “deve intervenire lo Stato”, “il problema è politico, non tecnologico”, “bisogna abbattere l’attention economy”, “il Capitalismo è incompatibile con la Tecnologia Etica”, “bisogna nazionalizzare Facebook” non sono più così rare e non vengono più scartate come il blaterare dell’ennessima zecca venuta a disturbare le grandi menti impegnate a discutere i meriti della licenza GPL in confronto alla MIT.

Sarebbe però un errore credere che le sinistre, sia radicali che moderate, sia anarchiche che stataliste, sia lavoriste che anti-lavoriste, siano le uniche forze in entrata in questi spazi. Sopratutto in America, ma ormai purtroppo anche in Europa, le nuove ondate di Anarco-Capitalisti, Libertariani, NRx e altre ideologie di estrema destra si affermano, tra le altre, spinte tanto dall’alto quanto dal basso, forti di una base valoriale più compatibile con lo status quo dell’Ideologia Californiana in disgregazione. La battaglia è ancora aperta e il senso di urgenza pervade le strategie dei Tech Workers.

 

Identità

Il problema delle Identità è centrale e ricorrente nell’esperienza dei Tech Workers. Chi è un Tech Worker e chi no? Che identità vogliamo costruire per noi stessi? Cosa ci muove e verso quali fini? In un vuoto di narrative alternative e nel vuoto ideologico di cui abbiamo parlato poco sopra, la possibilità e la necessità di costruire identità condivise e funzionali alle strategie di mobilitazione dei lavoratori diventano un’occasione imperdibile per persone che sono state quasi sempre raccontate da altri.

Da un lato il pop che presenta tutti come nerd bianchi, giovani, infantili e smanettoni, che con un colpo di genio riescono a fare i miliardi. Dall’altro ambienti anarchici e socialisti spesso ostili a tutto ciò che è tecnologia digitale e che appiattiscono le differenze tra i CEO e i lavoratori delle aziende tech, registrando solo gli effetti di una macchina disumana che produce tecnologie a fini malvagi con in mente il profitto e lo sfruttamento, condannando tutti indistintamente come colpevoli. A questo fa da contraltare l’eroismo cyberpunk dell’hacker sovrumano e onnisciente, stereotipo a sua volta appropriato dal Capitale Digitale e mescolato a quello del nerd ingenuo ma geniale per creare ibridi abominevoli: startupper “anti-sistema” impegnati in una crociata solitaria per trasformare il proprio genio in una forza purificatrice capace di spazzare via le storture dello status quo. Crociata che sperabilmente si concluderà con enormi profitti per l’hacker-startupper e la creazione di un nuovo mattoncino per ampliare la distopia digitale in cui viviamo. Raccontarsi con la propria voce invece di farsi raccontare da altri è un primo passo necessario per trovare l’unità necessaria a portare avanti qualsiasi rivendicazione.

Questo movimento ha quindi il duplice compito di presentarsi come qualcosa di riconoscibile e inclusivo tanto verso la maggioranza di nerd conformi quanto verso le nuove generazioni che stanno portando nuovi elementi culturali, nuovi rituali, nuove estetiche.

Un conflitto già in atto da alcuni anni nel settore, alimentato dall’insofferenza per l’estremo nerd-machismo sedimentato in decenni di maschi dalle scarse competenze sociali e dall’empatia nulla, capaci di operare esclusivamente in un contesto di competizione. Questi, riconoscendo esclusivamente la competenza tecnica come metro di misura tanto della persona quanto del lavoratore, hanno selezionato negli anni principalmente propri simili come colleghi, creando ambienti di lavoro tossici e definendo, come effetto secondario, un ambiente ostile non solo alla solidarietà ma anche alla semplice comunicazione interpersonale. Inutile dire come il management non abbia mai avuto problemi ad assecondare queste tendenze per lungo tempo. Un’inversione di rotta si è avuta nell’ultimo decennio nel momento in cui la necessità di maggiore forza lavoro e di stipendi più bassi ha forzato il settore all’inclusione di persone con un passato e un’identità diversi.

Questo conflitto sta venendo capitalizzato dai Tech Worker per presentarsi come tedofori di una nuova visione del settore tecnologico, contaminando le logiche meramente identitarie dei liberal anglo-sassoni con discorsi più radicali. “Senza solidarietà e lotta di classe, le minoranze saranno sempre oppresse.”

Oltre alla tribù dei battitasti, il movimento dei Tech Worker punta al riconoscimento da parte delle sinistre radicali variamente ostili all’inclusione di programmatori e sistemisti tra le loro fila.

Sono colletti blu o colletti bianchi?”

Sono troppo privilegiati per essere radicalizzati.”

La tecnologia è uno strumento di oppressione del Capitale e loro la abilitano”

Consapevoli di queste critiche, non completamente infondate, i Tech Worker puntano a far emergere la complessità del settore, mostrando cosa esiste oltre al programmatore strapagato di Google: precarietà diffusa, supply chain del software che coinvolge lavoratori del terzo mondo con stipendi miseri, discriminazioni strutturali e individuali. Anche per le posizioni apparentemente migliori esistono lati oscuri: straordinari non pagati, burnout, violenza psicologica, sviluppo di dipendenze da Adderall, cocaina o altre sostanze per reggere i ritmi di lavoro.

Al momento della stesura dell’articolo, questo processo di sviluppo dell’identità è a mio parere ancora in una fase embrionale. Un progetto in divenire. Nonostante questo le tante anime del movimento dei Tech Worker sembrano avere un’idea condivisa, per quanto vaga, di come dovrebbe essere il lavoratore dell’IT:

  • proveniente da background sociali diversi
  • dotata di competenze tecniche pienamente integrate da capacità critiche e in grado di ragionare sui problemi degli umani tanto quanto su quelli delle macchine
  • vede l’impatto del suo lavoro sul mondo non come una serie di puzzle da risolvere ma come un intervento delicato in un sistema di equilibri complessi
  • comprende l’importanza della dimensione sociale nella produzione tecnologica e come questa venga influenzata dai sistemi di valori delle persone e delle organizzazioni coinvolte
  • è consapevole di essere una lavoratrice e che i propri interessi possono essere in conflitto con quelli di chi controlla l’azienda in cui lavora

Un tema su cui invece c’è più confusione è quello della competenza tecnica come valore. Da un lato si vuole essere inclusivi e non discriminare persone all’inizio del proprio percorso di apprendimento. Inoltre un ridimensionamento dell’importanza della competenza tecnica aprirebbe alla solidarietà con persone che svolgono lavori diversi nella stessa industria; idea cavalcata, ad esempio, dalla definizione molto precisa di Tech Worker adottata da Tech Workers Coalition: Tech Worker è chiunque contribuisca col proprio lavoro alla produzione di tecnologia. Questo include indistintamente i lavoratori manuali, cognitivi, programmatori, personale delle mense e delle pulizie, sistemisti, rider e autisti di Uber/Lyft e via di questo passo.

Dall’altro lato però la competenza tecnica è un elemento identitario consolidato e necessario per scardinare da una posizione di forza le strutture machiste di cui si è parlato in precedenza. Non solo: una politica “muscolare” finalizzata allo sviluppo e alla disseminazione delle competenze, verso i singoli e verso le organizzazioni, offrirebbe una base solida per un approccio pragmatico, capace di far presa su persone non abituate agli stilemi dell’attivismo e della politica partecipata. Noiosi dibattiti, lunghe assemblee che conducono a tante domande e poche risposte, eccessi di orizzontalismo e paralisi decisionali sono tratti visti con sospetto da molti Tech Worker e causa di forte attrito.

Sarebbe un errore cercare di imporre valori, forme e rituali delle sinistre su una massa che fino ad oggi ha fondato la propria identità sul pragmatismo, la depoliticizzazione degli spazi e la risoluzione eterodiretta dei problemi. Se il mondo dell’attivismo, sopratutto anarchico, non si pone problemi nell’avere inefficienze e prioritizza spesso la consultazione e il dibattito, i Tech Worker anche quando allineati ideologicamente, preferiscono strutture decisionali più strutturate ed efficienti. Di contro questa mentalità viene talvolta accolta con ostilità dagli attivisti, che nei rituali democratici e comunitari trovano una giustificazione morale al loro operato mentre interpretano il pragmatismo dei Tech Worker come riproduzioni delle forme organizzative del Capitale, orientate all’efficienza e all’obbedienza. Le attuali forme organizzative in larga parte coinvolgono la minoranza di Tech Worker già capaci di esistere in entrambi in mondi e di operare tramite logiche multiple a seconda del contesto.

L’apertura a forme di organizzazione diverse pone però un forte filtro all’inclusione diretta dei Tech Worker incapaci di adattarsi alle forme dell’attivismo e lo sviluppo di una pratica “mista” ed inclusiva è necessario per generalizzare le strategie organizzative adottate finora. L’obiettivo è integrare due visioni diametralmente opposte dei processi decisionali: da un lato l’approccio iper-razionale che vede la discussione come uno strumento per arrivare ad una soluzione oggettivamente ottimale, scremandola del superfluo. Ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla. Dal lato opposto una visione dei processi decisionali come processo per raccogliere la volontà collettiva e sintetizzarla in azioni che rispecchino i valori particolari dei partecipanti.

Una soluzione temporanea adottata da molteplici gruppi, in primis Tech Workers Coalition, è un’operatività su due livelli: democratica, partecipata, collettiva al suo interno e pragmatica, snella, lineare nelle aziende, durante le proteste e in generale durante le interazioni con individui e organizzazioni esterne, lasciate libere di organizzarsi secondo i propri tempi e modi ma guidati da obiettivi chiari e processi semplici, in cui le varie organizzazioni di Tech Worker fungono da facilitatori.

Esistono però numerose aree in cui si può osservare una compenetrazione tra il tema tecnico, familiare all’odierno programmatore, e il tema politico che gli è alieno. Ad esempio, ogni lavoratore tecnologico sa perfettamente quanto le logiche di produzione capitaliste siano incompatibili con la qualità del software. C’è chi lo accetta come inevitabile, chi è rassegnato e chi lo combatte, ma nessuno crede che la pressione competitiva di un’economia di mercato, associato ai tempi ridotti e allo stress che essa genera, porti ad un incremento della qualità, affidabilità, resilienza e correttezza di un software. Questa contraddizione è una delle tante leve su cui le Tech Worker provano a sedurre i tanti che pongono la qualità di ciò che producono come priorità assoluta nella loro attività quotidiana, ostacolati appunti da interessi aziendali invasivi giustificati dai desideri dei clienti o del mercato.

Offrire protezione per esprimere in tranquillità le proprie capacità tecniche è spesso una prospettiva più allettante per il lavoratore rispetto ad un aumento salariale. Discorsi simili possono essere fatti anche per gli usi per cui il software viene utilizzato: è molto forte la percezione di molti, anche non radicalizzati, che buona parte dell’industria IT non produca nulla di valore per nessuno. Avere un’alternativa capace di avere un impatto positivo sulla collettività è un altro desiderio profondo del lavoratore tecnologico: sottolineare come le promesse dell’Ideologia Californiana abbiano trasformato la società in una distopia noiosa allontana spesso e volentieri il lavoratore dal condurre nuovi tentativi all’interno della forma mentis neoliberale. Mettere sul tavolo nuove sfide, nuovi problemi, nuovi obiettivi è quindi una prassi estremamente efficace per un pubblico cresciuto nella convinzione di poter piegare natura, società e politica ai propri voleri.

Ci sarà tempo per educarli e spiegargli che l’eccesso di tecnopotere è uno dei mali del nostro tempo e che non possono essere arbitri del futuro della società, come provano a fare Mark Zuckereberg o Jeff Bezos.

 

La prospettiva italiana

Ciò di cui abbiamo parlato finora sta avvenendo principalmente negli USA, la Capitale dell’Impero. Qui nella provincia le cose sono un po’ diverse: è diverso il tessuto produttivo, è diversa l’identità, sono diversi il volto e la mano del Capitale, è diversa la storia dei movimenti sindacali, sono diversi i valori. Tuttavia la maggior parte dei fenomeni descritti in precedenza hanno avuto un impatto culturale e materiale, digeriti in modo diverso, distorcendosi o adattandosi al caso locale.

L’Italia è una colonia del neo-imperialismo americano in tante forme, ma è quantomai evidente quando si parla di produzione del software e delle nuove tecnologie in generale. Sia nella narrativa sia nella pratica, l’Italia è un mercato remoto per l’export tecnologico che partecipa in maniera principalmente passiva al processo.

L’Italia è una terra di amministratori e politici ingenuotti, pronti a scambiare perline di vetro in cambio dell’accesso incondizionato ai dati dei cittadini, al contrario di Francia, Germania e degli organi UE che un minimo di coscienza su questi temi, lentamente, la stanno sviluppando.

L’Italia è un pool di talenti da assorbire. Un sistema universitario con i suoi problemi ma tutto sommato valido e capace di produrre competenze che, con un abile trucco, è stato orientato a produrre laureati per mercati che in Italia non esistono o sono troppo piccoli. Così i migliori emigrano. USA, UK e di recente anche altri hub tecnologici come Berlino, Barcellona e Parigi ne beneficiano senza spendere un euro in formazione.

Infine l’Italia è un enorme fonte di appalti pubblici e privati. Aziende estere assumono programmatori italiani, prendono commesse italiane per produrre software da vendere ad altri italiani, mangiandosi enormi margini. La torta viene spartita da una manciata di nomi che si contendono l’accesso a questa miniera d’oro, escludendo nel mentre chiunque cerchi di entrarvi in maniera competitiva. Per le aziende italiane rimangono le briciole, i progettini, i siti vetrina per gli agriturismi di Civitella di Romagna. Qualche fortunato riesce ad entrare in questo sistema, fatto di lottizzazioni occulte, mazzette, giochi di palazzo ma sono piccole eccezioni che tendono a rinforzare lo status quo più che metterlo in discussione. Questo sistema non solo sifona un’enormità di fondi, ma produce software di scarsa qualità per riprodursi e continuare a crescere, impedendo la formazione di un tessuto produttivo autoctono e connesso con le realtà locali.

Questo soffocamento avviene sia dirottando fondi verso l’estero ma sopratutto ingabbiando fette consistenti di neo-laureati e neo-diplomati in gironi infernali di consulenza, fatti di ritmi forsennati, straordinari non pagati, software scritto di fretta, ambienti di lavoro tossici e totale sottomissione alle richieste di clienti e manager. Il tutto poi per stipendi relativamente bassi. Il meccanismo di ritenzione delle vittime di questo sistema è complesso ma si può cercare di definirlo come una convergenza di vari fattori: molti di questi lavoratori vengono assunti appena usciti dall’università o dalla scuola, attraverso meccanismi di recruitment predatorio che cerca di intercettare gli studenti prima che questi possano avere tempo di sviluppare le competenze per navigare il mondo del lavoro e comprendere le alternative. Vengono poi sottoposti ad un lento lavoro di condizionamento, che spesso inizia dal colloquio, al fine di normalizzare le pratiche lavorative e gli obiettivi della consulenza, spesso diametralmente opposti a quelli comuni nel resto dell’industria IT. La formazione è rara, spesso lasciata al lavoratore e talvolta su tecnologie utilizzate principalmente in consulenza. Per chi, dopo diversi anni di questa vita, si ritrova a guardarsi intorno la situazione appare grigia: queste esperienze sul curriculum hanno valore principalmente per altre società di consulenza. D’altronde chi può, evita di assumere una persona probabilmente psicologicamente massacrata e tecnicamente allineata ad un modo di lavorare incompatibile con ciò che si fa al di fuori della consulenza. Il percorso di riconversione è sempre possibile ma è spesso arduo e penalizza il lavoratore ben oltre il termine del proprio contratto in consulenza.

L’altro lato della medaglia è quello della piccola consulenza. Un esercito di P. IVA adibita allo sviluppo di e-commerce, siti vetrina, adattamenti di software gestionale e tanto altro lavoro “umile” per gli standard estetici e sociali del settore ma fondamentale per la digitalizzazione dell’Italia. Disillusi dalla classe imprenditoriale, decidono di mettersi in proprio e prendersi tutti i rischi del precariato in cambio di un guadagno dignitoso e della libertà dagli abusi psicologici dei caporali da ufficio, spesso rimpiazzati dai clienti in questo ruolo.

Il panorama è quindi estremamente diverso da quello Americano e irrimediabilmente i primi germogli del movimento, consapevoli di queste differenze, hanno la necessità di riadattare, rimappare, ripensare tanto le premesse quanto le strategie di un movimento come quello dei Tech Worker che per quanto abbia ambizioni internazionaliste, nella pratica risulta essere un prodotto locale.

India, Cina e in misura minore anche l’Africa sub-sahariana (in particolare la Nigeria) stanno vedendo nascere movimenti categorizzabili sotto lo stesso ombrello ma con tratti necessariamente diversi e con un dialogo estremamente limitato con le controparti del Nord Globale.

Queste esperienze diverse sicuramente saranno in grado di produrre spunti utili e necessari all’arricchimento dell’arsenale concettuale dei Tech Workers italiani, schiacciati tra la possibilità di avere un IT comparabile perlomeno con quello delle altre nazioni europee e una realtà materiale fatta di consulenza, outsourcing e piccoli sviluppi che rassomiglia di più al Karnataka che a Londra.

Tra questi due estremi si pone lo sviluppo di un discorso e una strategia autonoma. Esistono elementi per ambire a costruire un movimento dai tratti esclusivamente italiani: la nostra lunga storia sindacale e la teoria che ci stava dietro (ampiamente recuperata in USA in questi ultimi anni), il mito dell’imprenditoria socialista di Olivetti, la narrativa dell’eccezionalismo italiano che si riverbera magicamente anche sulle competenze in fatto di sviluppo software e imprenditoria digitale. Elementi tuttavia troppo deboli per stare in piedi sulle proprie gambe e troppo disconnessi dalla supply chain tecnologica globale. L’ambizione di un’autonomia tecnologica italiana, tanto più se guidata dal basso, è ancora più irrealistica di un’autonomia tecnologica europea. Questa strada, a mio parere, è un vicolo cieco e confido che nessuno al momento la stia percorrendo.

 

Titanomachie e Venture Communism

Il movimento dei Tech Workers, sebbene molteplice e decentralizzato, è soggetto ad una tensione da parte di due energie ben distinte, idealmente allineate verso un obiettivo comune ma nella pratica spesso in competizione per le risorse e le competenze che il movimento può spendere.

Da una parte c’è la strategia di reazione: controllare o distruggere Big Tech, sindacalizzare l’IT, coordinare un intervento pubblico per indebolire o scorporare le aziende che ad oggi creano più danni alla società o che sfruttano più marcatamente i Tech Workers. Il punto di partenza è l’analisi e la critica alla situazione attuale e l’obiettivo finale è appropriarsi della macchina-sistema e piegarla al proprio volere, vuoi come collettività, vuoi specificamente come Tech Workers.

A ciò si contrappone invece una strategia creativa: la macchina attuale è perduta. Il programma è troppo ingarbugliato e opaco, è inutile provare a debuggarlo. Bisogna riscriverlo da capo. Se alcune voci di minoranza si immaginano uno scenario rivoluzionario con un’IT di stato progettato dall’alto e costruito a tavolino, molte altre sono all’opera per elaborare pratiche, creare imprese e imbastire progetti politici in grado di costruire una macchina nuova, indipendente, che si nutra delle forze, delle competenze, delle esternalità e talvolta del capitale stesso di Big Tech per trasferire valore dal sistema capitalistico ad un sistema parallelo, capace di avere un impatto virtuoso sugli individui e sulle comunità in forme non riappropriabili dal Capitale.

Portiamo un po’ di esempi concreti: a livello locale, la strategia di reazione si materializza in lotte per la sindacalizzazione all’interno delle aziende, proteste a difesa dei diritti dei lavoratori, su questioni etiche, campagne di sensibilizzazione su specifici temi e scelte delle aziende come ad esempio contratti con i militari, lavoro politico all’interno di partiti e istituzioni e talvolta sabotaggi.

Il lato creativo invece si compone ad esempio di cooperative attive nello sviluppo del software più disparato, come ad esempio Loomio, FairBnB.coop o la nostrana Scuola Open Source ma anche in forma di piattaforma partecipata come Up and Go o addirittura reti di cooperative, come CoopCycle. Non solo cooperative, ma anche spazi di formazione culturale e discussione, estetiche utopiche come il SolarPunk e il LunarPunk, in cui l’elemento tecnologico è sempre centrale, o speculazione collassista, per cui la priorità è sfruttare la stabilità e il benessere relativo della nostra società per sviluppare il software e l’hardware che sarà necessario dopo il collasso della supply chain globale. Infine in questa categoria potrebbero ricadere tante pratiche meno consapevoli e che puntano ad aggiornare le ideologie hacker, FOSS e in generale di autonomia tecnologica verso una direzione più consapevole e magari più comunitaria. Ultima menzione va a tutto il mondo della CryptoLeft e della nuova cibernetica socialista, che con blockchain, IoT e tante altre innovazioni recenti e meno recenti cercano di creare, in piccolo, sistemi produttivi e monetari alternativi in maniera eterodiretta, esplorando “in vitro” i problemi e le opportunità offerti da un capovolgimento delle relazioni economiche.

La contrapposizione e occasionale compenetrazione tra queste due pulsioni è fondamentale per interpretare le azioni e le iniziative dei Tech Worker. Risolvere le frizioni ed elaborare una strategia condivisa, concettualizzando come queste due macro-strategie possano interagire virtuosamente è un’altra delle questioni irrisolte di questo movimento: se è chiaro che entrambe abbiano punti di forza tali per cui non sia possibile considerarne soltanto una, molto meno chiaro è come possano sviluppare sinergie. Oggi la mediazione si riduce a dare priorità maggiore ad una delle due: abbattere Big Tech per permettere ad un nuovo tessuto produttivo tecnologico di fiorire o creare un’alternativa solida per togliere ossigeno alle corporation fino a soffocarle?

Questa dualità tuttavia permette al movimento di presentarsi in forme diverse nelle varie realtà locali. Un esempio banale è proprio l’Italia: la battaglia contro le aziende di consulenza di per sé non è sufficiente a costruire un progetto politico ma al più una campagna di sindacalizzazione, fatta di obiettivi piccoli e, nel migliore dei casi, di vittorie piccole. Per un sindacalismo nostrano già carente di ambizioni, accontentarsi di piegare queste aziende a concedere un po’ più di salario e rispettare gli orari probabilmente si rivelerebbe una strategia inconcludente, incapace di ispirare i lavoratori alla mobilitazione.

Un’altra dimensione di conflitto che i Tech Workers fanno propria, al netto dei limiti della loro prospettiva internazionalista, è l’idea di una coordinazione di scioperi e proteste su scala mondiale. Lo sciopero globale di Google del 2018 è stato una “Proof of Concept” su come coordinare i lavoratori di una multinazionale verso azioni distribuite su più continenti, mostrando come la rete umana e digitale presente in queste aziende e necessaria allo sviluppo di tecnologie software potesse essere dirottata e piegata a scopi di agitazione. Il tempo ci dirà se il C-level di queste grandi aziende sarà in grado di controllare e monitorare le reti interne senza perdere la fiducia dei dipendenti e la produttività che deriva dal libero flusso di informazioni.

Il passo successivo, sogno proibito del sindacalismo da tempo immemore, sarà la costruzione di reti e strumenti capaci di coordinare sforzi attraverso la supply chain globale, composta di aziende diverse, lavoratori con valori e culture talvolta inconciliabili e relazioni di produzione eterogenee. Il Tech Worker, custode ed ingegnere del flusso di informazioni, inevitabilmente immerso in una dimensione di produzione globale, ha le carte in regola per fornire un nuovo approccio che si vada ad integrare con i vari tentativi presenti e passati di formazione di un vero sindacato globale.

 

L’utopia è il compromesso

Il conflitto deve avere obiettivi chiari e necessariamente utopici. Serve qualcosa di più, serve un’alternativa: spendere 8 ore al giorno invece che 9 a costruire un orrido accrocchio che decide chi è meritevole di un prestito e chi no è un miglioramento, ma non un miglioramento per cui vale la pena mettersi in gioco. La fuga individuale dal tritacarne sarà sempre una soluzione più vicina, più facile, più razionale. A questa battaglia mancano i toni epici che possono convincere un lavoratore di Google a restare e combattere: un cambiamento negli equilibri di potere in Google può riverberarsi sulla vita di miliardi di persone. Il privilegio della battaglia campale ci è precluso al di qua delle Alpi e quindi bisogna andare in un’altra direzione, più umile forse ma altrettanto ambiziosa: costruire qualcosa di nuovo, di utile, di soddisfacente per il lavoratore, di slegato dalle logiche perverse del settore IT. Al netto della sostenibilità economica delle alternative, un problema in Italia come altrove, i salari relativamente bassi del nostro paese rendono meno traumatica la prospettiva di una fuoriuscita dai circuiti produttivi dominanti: se in USA il lavoro nell’IT è spesso un patto col diavolo in cui in cambio di moneta sonante si chiede di chiudere un occhio sull’impatto del proprio lavoro, questo non è vero in Italia. Al tecnico nostrano è sufficiente dare una briciola di salario e sicurezza in più rispetto alla precarietà diffusa per tenerlo nei ranghi. Rinunciare a questa briciola in cambio di un’esperienza lavorativa nettamente migliore e allineata alla propria morale richiede uno sforzo chiaramente inferiore rispetto alla scelta di fronte a cui può essere posto un lavoratore americano.

L’incentivo però deve essere concreto e le alternative non possono basarsi sulla buona volontà e senso di sacrificio dei Tech Worker: sono imprescindibili una ridefinizione della narrativa e la proposta di un cambiamento concreto nell’IT e fuori, che si coniughino in maniera virtuosa alle aspettative e alle ambizioni dei Tech Worker. Le posizioni in difesa, il localismo, il compromesso, la gracile e stentorea opposizione all’avanzata del Capitale hanno intossicato il mondo progressista per decenni, all’inseguimento di una generalizzazione del cambiamento che non è mai arrivato. L’attitudine disfattista e l’auto-sabotaggio sono inconciliabili con la volontà di generazioni di tecnici educati alle potenzialità sconfinate della tecnica.

Il mondo politico e sindacale non può più rimandare il dialogo con questi lavoratori per orientarli alla democrazia e alla solidarietà che mancano nel loro curriculum. In questo dialogo, mi auspico, i progressisti potrebbero ritrovare la volontà di pensare in grande, di immaginare utopie e al contempo di appropriarsi del pragmatismo ingenuo e talvolta irresponsabile che permea l’ethos dei Tech Worker: meglio provare cento volte e fallire novantanove volte che non provare per paura di sbagliare, di ripetere gli errori di chi è venuto prima di noi, di umiliarsi di fronte ai nostri pari, di sprecare le nostre energie e quelle altrui. La libertà di sperimentare e di sbagliare, la libertà di reinventarsi, la libertà di non farsi appesantire da un bagaglio ideologico ingombrante sono necessarie per generare nuove forme, nuove idee, nuove strategie ed è troppo importante per lasciarlo agli startupper della Silicon Valley e alle nuove destre.