Necessità, condizioni e conseguenze della diminuzione dell’orario di lavoro.

di M. Parretti

Necessità della diminuzione dell’orario di lavoro

Le società più sviluppate si trovano di fronte le conseguenze di due dinamiche distinte:

  1. lo sviluppo economico capitalista e
  2. lo sviluppo dei bisogni umani.

Osserviamo le due dinamiche:

  1. Esiste un processo per cui parte delle merci prodotte vanno ad aumentare il capitale esistente e questo permette, a sua volta, di produrre una maggiore quantità di merci.
    Inoltre parte del lavoro sociale è dedicato a sviluppare conoscenze e tecniche che determinano una continua crescita della produttività e quindi la società è capace di produrre con la stessa quantità di capitale una maggiore quantità di merci.
    Tale crescita della produttività dipende dalle risorse, ad essa dedicate, ma soprattutto dal livello di istruzione dei lavoratori stessi.
    Quando questo aumento della produttività induce, a sua volta, una crescita dell’istruzione, il suo ritmo di crescita diventa esponenziale(1).
    Allora, se questa capacità di produrre, a parità di capitale e lavoro, un valore sempre maggiore, non è accompagnata dalla crescita, nella stessa percentuale, di reddito speso per la soddisfazione dei bisogni, la crescita del capitale diventa impossibile perché il capitale esistente già sarebbe sufficiente a produrre più di quanto richiesto ed il capitale aggiuntivo diventerebbe inutile.
    Da questo deriverebbe l’impossibilità di accumulazione del capitale e dei profitti e quindi la crisi del capitalismo.
    Allora, la crescita del reddito, proporzioneale alla crescita della produttività, della maggioranza dei membri della società, cioè dei lavoratori, diventa la condizione necessaria al funzionamento stesso del sistema economico.
  2. Esiste un’altra dinamica sociale, simultanea ed indipendente da quella appena descritta, per cui, man mano che le persone riescono a soddisfare i loro bisogni, cioè ad avere un reddito che permetta loro di acquistare i beni ed i servizi necessari a soddisfarli, maturano nuovi bisogni, la cui soddisfazione richiede un reddito sempre maggiore. Quindi una crescita del reddito determina una crescita dei bisogni, la cui soddisfazione implica, a sua volta, la necessità della crescita del reddito da spendere per la loro soddisfazione.
    Ma quando le persone sono riuscite a soddisfare i loro bisogni primari, cioè quelli definiti dall’apparato sensoriale e pulsionale umano, geneticamente determinato, maturano nuovi bisogni in modo più lento per due ragioni:
    1) una di natura economica: prima di spendere totalmente un maggiore reddito disponibile, le persone tendono a mantenerne una parte in forma precauzionale, come assicurazione contro possibili eventi negativi, che possano rendere insicura la soddisfazione futura dei bisogni primari. Ciò implica che la crescita di nuovi bisogni e la loro soddisfazione tende ad essere minore della crescita del loro reddito e quindi una parte sempre maggiore del reddito aggiuntivo viene risparmiata e la propensione marginale al consumo diminuisce al crescere del ritmo di crescita del reddito.
    2) un’altra di natura psicologica: le persone devono prima osservare e sperimentare che esiste un modo più conveniente per soddisfare i bisogni preesistenti o un modo di soddisfare dei bisogni, prima non soddisfatti, e solo allora riescono a cambiare i propri comportamenti.
    In altri termini, i nuovi bisogni emergono quando le persone intravedono la possibilità di soddisfarli e nuove forme di soddisfazione di bisogni già esistenti vengono adottate solo quando intravedono la convenienza di adottare i nuovi comportamenti, che le nuove forme di soddisfazione comportano.
    Questo implica che, per far emergere nuovi bisogni ed introdurre nuovi soddisfattori, è necessaria un’attività di promozione degli stessi, altrimenti il processo di sviluppo e soddisfazione dei bisogni diventa estremamente lento.

Queste due dinamiche determinano un fenomeno paradossale, un aumento dei bisogni minore dell’aumento della capacità di soddisfarli(2).

Se allora i bisogni aumentano in una certa percentuale, è possibile aumentare il reddito in quella percentuale, ma occorre anche una diminuzione percentuale dell’orario di lavoro pari alla “differenza tra l’aumento di produttività ed il minore aumento dei bisogni”, altrimenti il reddito non speso nella soddisfazione dei bisogni condurrebbe ad un risparmio di massa stabile(3).

È stata questa trasformazione di parte del reddito in risparmio monetario a ridurre il valore del moltiplicatore della spesa pubblica, provocare un crescente deficit del bilancio dello stato e dell’inflazione ed infine rendere impraticabili le politiche di welfare.

Infatti, di fronte alla crescita del reddito dei lavoratori, alla soddisfazione dei loro bisogni primari ed alla diminuzione della loro propensione marginale al consumo, il non aver proceduto alla riduzione dell’orario di lavoro, ha causato la crisi dello stato sociale e la restaurazione del liberismo.

Dal punto di vista economico, mantenere stabile il saggio di plusvalore permette ai lavoratori di avvantaggiarsi dell’aumento di produttività ed al tempo stesso al capitale di riprodursi e quindi impedisce le crisi di sovrapproduzione(4), ma ciò avviene solo se la differenza tra il reddito, che aumenta proporzionalmente alla produttività, ed i bisogni da soddisfare, che aumentano ad un ritmo minore, non si traduce in un risparmio di massa, che provocherebbe solo inflazione e stagnazione.

Allora è assolutamente necessario che quella percentuale di aumento di produttività, aldilà dell’aumento di consumi, si traduca in una diminuzione dell’orario di lavoro.

 

Condizioni per la diminuzione dell’orario di lavoro

Se nelle società più sviluppate è ormai necessario diminuire l’orario di lavoro, anche con un reddito crescente, occorre esaminare le condizioni necessarie a tale diminuzione.

Innanzi tutto non si può dimenticare che sono state le politiche dello stato sociale, che hanno indotto un aumento del reddito dei lavoratori quasi proporzionale alla crescita di produttività e che solo quella situazione di ricchezza diffusa e di soddisfazione dei bisogni primari ha condotto alla necessità della riduzione dell’orario.

L’aumento del reddito dei lavoratori in proporzione alla crescita della produttività è stato ottenuto superando la concorrenza tra i lavoratori, mediante la quasi piena occupazione, contratti collettivi di lavoro e leggi di tutela e protezione del lavoro.

Altrimenti il lavoro avrebbe continuato ad essere solo una merce sovrabbondante ed il suo prezzo, il salario, sarebbe stato compresso fino al solo costo di riproduzione, cioè al salario di sussistenza.

Quarant’anni di restaurazione liberista però hanno reintrodotto massicciamente la concorrenza tra i lavoratori, attraverso la globalizzazione, la concorrenza delle merci basata sul costo del lavoro, la precarizzazione del lavoro stesso e la dissoluzione dei contratti collettivi di lavoro.

Questo ha immediatamente e paradossalmente implicato, a fronte dell’aumento vertiginoso della produttività degli ultimi 40 anni, addirittura la riduzione dei redditi di lavoratori e pensionati e l’arresto dei profitti e dell’accumulazione di capitale, come dimostrano inequivocabilmente i tassi d’interesse reale (al netto dell’inflazione e del tasso medio di insolvenza) negativi.

È pertanto necessario almeno ripristinare il superamento della concorrenza tra lavoratori, la piena occupazione e la protezione del lavoro dalla condizione di merce sovrabbondante sul mercato.

Ma la contrattazione collettiva del salario ormai dovrebbe avvenire almeno in ambito europeo ed in attesa di ciò, è necessario proteggere il lavoro dalla concorrenza internazionale(5).

Il cosiddetto moltiplicatore della spesa pubblica mostra che, se questa è adeguatamente programmata sulla base della crescita del prodotto potenziale (stock di capitale per l’attuale indice di produttività), e se non dà luogo a risparmi monetari maggiori dei nuovi investimenti, riesce a trainare l’economia senza provocare deficit pubblico, ne’ inflazione(6).

Infine occorre tener conto che i lavoratori stessi debbono capire che, se riescono ad ottenere di nuovo che l’aumento di produttività sia finalizzato a migliorare il loro tenore di vita, esso non può consistere soltanto in un aumento del loro reddito, quando questo risulta maggiore di quanto necessario a soddisfare i loro bisogni effettivi.

Debbono allora capire che la parte di reddito non speso (risparmi), in una situazione di abbondanza di capitale, non può costituire ricchezza reale, ma solo inflazione e che non è più possibile continuare ad accumulare capitale produttivo. Ma essi sono abituati e convinti che il loro risparmio monetario possa accumularsi, cioè crescere e rendere altro denaro, perché l’accumulo di denaro è la forma prevalente di precauzione, che sono stati abituati a concepire(7).
Solo se comprendono che i loro risparmi possono essere solo denaro fittizio o illusorio, possono capire che il loro tenore di vita può migliorare solo soddisfacendo i loro bisogni reali, spendendo per la loro assicurazione e previdenza sociale o diminuendo il loro tempo di lavoro.

Se già verso la fine del trentennio keynesiano sarebbe stato necessario iniziare una riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario), che potesse compensare la differenza tra l’aumento della produttività e quella dei consumi ed allora, a maggior ragione, oggi dovremmo farlo con estrema urgenza ed in misura così ampia, da compensare tutto il mancato aumento di produttività trasferito al lavoro negli ultimi 40 anni, che ha determinato l’attuale nuova crisi del capitalismo.

Per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, è dunque necessario:

  1. contrattare socialmente e collettivamente i redditi, gli orari ed i diritti del lavoro, tenendo conto della crescita reale dei bisogni da soddisfare e dell’aumento di produttività;
  2. proteggere il lavoro dalla concorrenza tra lavoratori, interna ed internazionale (compresi i lavoratori “volontari”), favorendo fiscalmente l’aumento del reddito realmente speso e la diminuzione dell’orario di lavoro e promuovendo la contrattazione internazionale;
  3. sostituire il risparmio monetario (basato sull’accumulazione di capitale) con meccanismi assicurativi e previdenziali (basati sulla ripartizione della spesa) per garantire la protezione sociale (da vecchiaia, malattie, incidenti ed ogni tipo di avversità), detassando le spese previdenziali ed assicurative e tassando il risparmio monetario.

Le prime due condizioni rappresentano, in forma più chiara e consapevole, il ripristino delle condizioni che permettano lo stato sociale.

La terza è quella ulteriore, che è mancata negli anni ’70 del secolo scorso e che ha causato la famosa stagflazione (stagnazione con inflazione).

A questo punto è possibile e necessaria la quarta condizione per la ripresa del keynesismo(8), secondo le indicazioni dello stesso Keynes, cioè la diminuzione dell’orario di lavoro.

Resta da esaminare la condizione implicita a questo sviluppo, cioè il continuo aumento della produttività, base per la soddisfazione di bisogni crescenti e la diminuzione dell’orario di lavoro.

Durante tutto lo sviluppo del capitalismo, le innovazioni scientifiche e tecniche hanno costantemente migliorato i metodi produttivi e determinato l’aumento della produttività, cioè della capacità di ottenere un prodotto a costi sempre minori, con minor lavoro e minor capitale.

Queste continue innovazioni sono la conseguenza della concorrenza tra le imprese ed abbiamo anche visto che, quando parte del prodotto viene spesa direttamente per lo studio e lo sviluppo delle innovazioni tecnico scientifiche, la crescita della produttività diventa esponenziale.

Quindi il processo di accumulazione del capitale è stato accompagnato dal parallelo processo di aumento della produttività e questi due processi sono avvenuti simultaneamente senza problema.

Ma la mancanza di utilità del capitale produttivo aggiuntivo, dovuta ad un aumento dei consumi minore dell’aumento della produttività, ha spinto le imprese a capitalizzare ogni tipo di spesa improduttiva pluriennale (come le spese di progettazione di nuovi prodotti o di nuovi metodi produttivi, la promozione pubblicitaria di marchi e prodotti, vecchi e nuovi, le attività di “public relations” o di sponsorizzazione, ecc.), come “immobilizzi immateriali”(9), già da quando la crescita dei redditi dei lavoratori aveva cominciato a diminuire la loro propensione marginale al consumo.

Queste capitalizzazioni di spese per produrre e promuovere le innovazioni (marketing, lobbying, public relations, pubblicità, promozione, sponsorizzazione ecc.) hanno cambiato profondamente la concorrenza tra le imprese, che prima avveniva principalmente mediante il prezzo, tanto che alcuni hanno impropriamente interpretato tale cambiamento come la semplice “fine della concorrenza” capitalistica, proprio mentre questa diventava invece più aspra ed assorbiva risorse sempre crescenti, sottratte al lavoro e spese improduttivamente per costituire la forma intangibile di capitale come pura “capacità di appropriarsi di plusvalore futuro”.

Diventò così capitale e proprietà privata, sia lo sviluppo tecnico scientifico, che Marx aveva chiamato “general intellect”, sia la capacità di condizionare e modificare i desideri delle persone con tecniche di manipolazione psicologica (come la pubblicità, perfino verso i bambini), che in realtà rappresentano la forma sublimata della prevaricazione sulle persone mediante violenza (psichica anziché fisica).

Ma una semplice condanna etica di tali prassi economico sociali non aiuta a capire che esse ormai rappresentano l’attuale forma specifica della concorrenza e del capitale.

Adesso la concorrenza tra le imprese, che è e continua ad essere la condizione necessaria alle innovazioni, che aumentano della produttività, si svolge proprio mediante la proprietà delle stesse condizioni necessarie a tale aumento ed il capitale si è trasformato in proprietà diretta ed arbitraria delle condizioni per l’aumento stesso della produttività.
Allora vuol dire che il progresso della produttività nell’ambito dei rapporti capitalistici, cioè della proprietà e della gestione privata dell’impresa, implica che il capitale sia costituito dalla “appropriazione privata delle condizioni intellettuali ed emotive dello sviluppo umano” e poiché quest’ultimo rappresenta il miglioramento del tenore di vita dei lavoratori, in parte mediante la soddisfazione di maggiori bisogni ed in parte mediante la diminuzione dell’orario di lavoro, mantenere il continuo aumento della produttività costituisce una condizione necessaria alla ripresa di una politica keynesiana del welfare ed alla diminuzione dell’orario di lavoro, mantenendo ancora la mediazione del capitale.

Se però la società cominciasse a ritenere intollerabile questa “capitalizzazione” delle emozioni e del pensiero tecnico scientifico, potrebbe essere opportuno ostacolare l’introduzione e l’espansione di capitale inutile ed improduttivo (ad es. fiscalmente) e questa opposizione potrebbe rappresentare la nuova frontiera della lotta di classe.

Ma poiché queste forme di capitalizzazione (e le relative modifiche alla concorrenza tra le imprese) rappresentano la possibilità residua di continuare ad accumulare capitale, opporsi ad esse implica la necessità di sostituire la funzione del capitale nel processo produttivo e riproduttivo, cioè la formulazione di un modo di produrre aldilà del capitalismo ed introdurre la proprietà e la gestione personale delle imprese da parte dei lavoratori associati e chiedersi

  • se (ed eventualmente come) mantenere la concorrenza anche tra le imprese a proprietà e gestione personale per stimolare l’innovazione produttiva e gli aumenti di produttività
  • oppure concepire forme diverse, non ancora emerse storicamente, di stimolo al progresso produttivo ed alla creatività personale nella “soddisfazione e promozione” dei bisogni.

Conseguenze della diminuzione dell’orario di lavoro a parità di reddito

Abbiamo visto che, rispettando le quattro condizioni necessarie sopra descritte(10), appare possibile la ripresa di una politica dello stato sociale, anche mantenendo il quadro dei rapporti capitalistici, cioè la proprietà e la gestione privata delle imprese.

Il prezzo del mantenimento dei rapporti capitalistici sembra essere ciò che abbiamo definito

appropriazione privata delle condizioni intellettuali ed emotive dello sviluppo umano”.

È però possibile eliminare o quanto meno ostacolare la mediazione produttiva del capitale, contrastando la formazione del capitale improduttivo.

Consideriamo infatti che è possibile limitare la capacità del capitale di indurre artificialmente lo sviluppo di bisogni mediante tecniche psicologiche manipolatorie(11).
Se però viene meno la possibilità di accumulare capitale improduttivo, diventa impossibile mantenere i rapporti capitalistici (di proprietà e gestione privata) ed occorre allora affrontare la questione di come garantire l’aumento della produttività e quindi lo sviluppo e la promozione della soddisfazione di nuovi bisogni.

In particolare è necessario capire se la concorrenza tra le imprese autogestite possa ancora essere la base dell’aumento della produttività o se sia possibile ipotizzare meccanismi sociali diversi.

Qualunque sia il quadro delle relazioni sociali produttive, nel quale attuare la riduzione dell’orario di lavoro, se il progresso tecnico scientifico e le continue innovazioni continuassero a determinare un esponenziale aumento della produttività, mentre i bisogni continuassero la loro lenta crescita, la riduzione dell’orario di lavoro, al ritmo della differenza tra i due saggi di crescita, cioè:

riduzione%orario” = “crescita%produttività” – “crescita%bisogni”

sarebbe notevole e porterebbe ad un orario di lavoro così ridotto, che cesserebbe di essere una fatica pesante da compiere, cioè un obbligo oneroso.

Questa riduzione dell’orario avverrebbe mentre il reddito dei lavoratori crescerebbe e sarebbe in parte impiegato per attuare un grande nuovo piano collettivo di previdenza ed assicurazione, che potrebbe garantire ed assicurare tutti i membri della società contro ogni tipo di avversità (dall’anzianità, alla malattia, alla disabilità propria, di figli o familiari, agli eventi sfavorevoli, come incendi, furti, incidenti, inondazioni, terremoti, ferimenti, disoccupazione, infortuni, ecc.).

Quando pertanto, l’orario di lavoro arrivasse ad essere così ridotto, che il lavoro non fosse più faticoso ed indesiderato ed anzi il lavoratore desiderasse mantenere l’orario attuale per sentirsi utile alla società e partecipe della vita sociale collettiva, quella quantità di lavoro non sarebbe più “la faticosa attività necessaria” per soddisfare i propri bisogni, ma paradossalmente sarebbe diventata un bisogno.

Questa situazione ricorda quello che Marx scriveva nella Critica al programma di Gotha:

“….; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; … solo allora … la società può scrivere sulle sue bandiere: -Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”(12)

Infatti quella quantità di lavoro avrebbe smesso di essere “la fatica necessaria per soddisfare i propri bisogni”, cioè “soltanto mezzo di vita” e sarebbe diventata il bisogno che si desidera soddisfare, cioè “il primo bisogno della vita”.

Ciò vuol dire che il lavoratore ha il bisogno di effettuare quella quantità di lavoro, aldilà del denaro equivalente, che gli venga dato in cambio, perché avverte il bisogno di partecipare all’attività sociale di soddisfazione dei bisogni altrui, cioè all’attività collettiva, mediante la suddivisione del lavoro, per la soddisfazione di altre persone, verso le quali non ci sono distinzioni o discriminazioni, cioè nella reciproca indifferenza.

Un qualunque membro attivo della società si troverebbe “paradossalmente” ad avere il bisogno di lavorare per soddisfare i bisogni di altri, che non conosce, verso i quali non ha legami sociali, ne’ familiari, ne’ religiosi, ne’ culturali, ne’ di amicizia, ne’ di affetto e verso i quali non opera distinzioni o discriminazioni, ne’ di sesso o età, ne’ di razza, etnia o cultura, ne’ di religione o visione politica.

Solo allora, esercitando quel comportamento nella prassi quotidiana per un proprio bisogno personale ed osservando molti altri farlo intorno a lui, riuscirebbe a concepire, perché già lo sta facendo, come molti altri, che è possibile, logico e desiderabile fornire la soddisfazione dei loro bisogni ad altri, estranei, sconosciuti ed indifferenti ed a farlo, volontariamente e liberamente, secondo le proprie capacità.

Questo permetterebbe a tutti, quindi anche a se stessi, di ottenere la soddisfazione dei propri bisogni da altri, estranei, sconosciuti ed indifferenti, cioè ricevere secondo i propri bisogni.

Se allora seguiamo il percorso della riduzione dell’orario di lavoro, fino ad ottenerne uno così ridotto, da dover assistere a forme spontanee di azione comunitaria, dobbiamo chiederci a cosa questo percorso condurrebbe nel caso in cui siano state mantenute la proprietà e la gestione privata dell’impresa, cioè la mediazione del capitale e la capitalizzazione improduttiva.

È in realtà quello che molti ipotizzano, cioè lo sviluppo “spontaneo” del cosiddetto terzo settore, cioè di imprese basate sul lavoro volontario.

Ma io credo che questo sviluppo di “attività direttamente comunitarie” senza il superamento delle relazioni sociali produttive capitalistiche, sarebbe altamente contraddittorio perché tali imprese “sociali spontanee” sono possibili economicamente solo in quanto basate su “lavoro non pagato o mal pagato” e possono rientrare in concorrenza diretta con quelle private o essere addirittura facilmente sottoposte a finalità “private” (o “pubbliche”), riducendo la necessità di porre il dovere di soddisfare i bisogni, come condizione per l’erogazione del lavoro necessario.

Il “lavoro volontario” cioè, ponendo l’erogazione del lavoro “senza ricompensa monetaria” prima che la soddisfazione dei bisogni sia posta come “diritto universale impersonale”, rende superfluo il lavoro necessario, senza eliminare la mediazione produttiva del capitale e cancellando perfino la possibilità di poter vendere la propria forza lavoro, visto che è possibile ottenerla perfino gratuitamente e nell’ambito di rapporti privati.

Ma se si smantellasse l’anacronistico ed arbitrario potere del capitale su ciò che ho definito la appropriazione privata delle condizioni intellettuali ed emotive dello sviluppo umano”, forse i lavoratori riuscirebbero a superare la loro condizione di lavoratori salariati ed a concepire una nuova forma di relazioni sociali produttive, come lavoratori liberamente associati in imprese a proprietà e gestione personale collettiva.

Allora quella “appropriazione privata della fenomenologia umana” resterebbe annoverata nei libri di storia come l’ultimo, anacronistico potere della borghesia, abbattuto dalla nascita di una società senza classi sociali.

In questo nuovo quadro di relazioni sociali produttive, aldilà dei rapporti privati capitalistici, ci siamo chiesti se fosse possibile ipotizzare ed immaginare una spinta all’innovazione ed all’aumento della produttività, che potesse provenire da un meccanismo diverso dalla pura e semplice concorrenza tra le imprese e quindi che non fosse direttamente correlato al rapporto di valore.

Allora, avendo osservato che la riduzione dell’orario di lavoro sembra condurre allo svolgimento di un lavoro come bisogno e non come fatica, come diritto e non come dovere, sembra coerente con le “tendenze partecipative all’attività sociale” delle persone che la partecipazione al pensiero tecnico scientifico ed alla cultura possano rappresentare il primo dei bisogni e non essere più posto come contropartita per la soddisfazione degli altri bisogni personali.

Sto ipotizzando cioè che il lavoro di studio scientifico di conoscenza della realtà, di capacità tecnica di soddisfare vecchi e nuovi bisogni e di produzione culturale possa costituire la prima attività lavorativa, eleggibile a diventare un bisogno, un diritto ed un privilegio, anziché un faticoso dovere ed al tempo stesso, in quanto configurabile come “bisogno” da soddisfare, potrebbe anche essere sottoposta all’ulteriore condizione della finalità eterodiretta e propria di una attività di utilità direttamente sociale.

Insomma questa partecipazione al General Intellect come bisogno e non come fatica, aldilà del rapporto di valore, potrebbe produrre progressivamente, anche aldilà della concorrenza tra imprese ed al di fuori della mediazione del capitale, il continuo aumento esponenziale della produttività.

 

 

Note:

  1. Se “l’aumento della produttività” induce “l’aumento della capacità di aumentare la produttività”, allora diventa proporzionale alla sua derivata e la soluzione dell’equazione differenziale è una funzione esponenziale.
  2. Se la prima ragione della crescita più lenta dei bisogni rispetto alla possibilità di soddisfarli è costituita dalla tesaurizzazione del denaro come riserva di valore e dipende dalle attuali relazioni produttive capitalistiche, la seconda ragione appare dovuta alla natura umana stessa.
    Questo lascia presupporre che, anche ipotizzando il superamento del capitalismo, le attività promozionali di nuove forme di soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni non possano essere eliminate, perché necessarie a superare la resistenza al cambiamento e la coazione a ripetere, proprie della natura umana.
    Ovviamente potrebbero cambiare profondamente, se il sistema capitalistico fosse soppiantato o modificato.
    Ad es., il marketing potrebbe diventare un insieme di tecniche, volte ad agevolare i mutamenti dei comportamenti sociali, introdotti dalla creatività umana, mentre adesso è soltanto una tecnica per lo sviluppo dei mercati.
  3. Un risparmio diventa stabile quando non è finalizzato ad accumulare temporaneamente denaro in vista di una spesa notevole, come l’acquisto di un costoso elettrodomestico, di un auto o di una casa.
  4. Ricordiamo sinteticamente la teoria della crisi per sovrapproduzione, che, seppure con linguaggi e formulazioni diverse, è comune tanto a Marx, quanto a Keynes.
    Quando la quota di prodotto netto, che dovrebbe andare al capitale, diventa molto maggiore di quella, che dovrebbe andare ai lavoratori, diventa impossibile la ulteriore accumulazione del capitale, perché dovrebbe crescere di una quantità molto maggiore di quanto dovrebbero crescere i consumi (i quali possono crescere soltanto per il maggiore reddito dei lavoratori, speso in consumi).
  5. Non dobbiamo confondere questo con l’arcaico protezionismo mercantile, che oggi ripropongono alcuni reazionari nostrani ed esteri, come Salvini e Trump. Qui stiamo parlando di proteggere, ad es. fiscalmente, solo la merce lavoro non tutte le merci. La UE non permette il protezionismo sulle merci, ma come è ben noto, in modo esecrabile e folle, tollera la concorrenza tra sistemi fiscali diversi e la concorrenza sul costo del lavoro e questo lascia la porta aperta a forme di protezione “fiscale” del lavoro nazionale.
  6. Se però il reddito generato dalla spesa pubblica non viene speso totalmente, o come consumi o come nuovi investimenti, ed una parte rimane come risparmio monetario, esso rimane immobilizzato in una quantità aggiuntiva di denaro, maggiore della quantità aggiuntiva di capitale reale. Questa quantità maggiore di denaro, rispetto alla quantità di capitale, diminuisce il valore del denaro, cioè provoca inflazione.
  7. Marx affermava acutamente che il capitale produce valore solo in quanto è condizione per l’appropriazione di plusvalore futuro. Che i lavoratori risparmino parte del loro reddito, sperando che si trasformi in capitale reale e che questo possa produrre valore futuro (interessi reali), vuol dire che coltivano l’illusione di ricevere parte del loro reddito futuro dal loro stesso sfruttamento, di comprare il titolo di proprietà della loro stessa schiavitù, anziché liberarsi da questa.
  8. In realtà sarebbe necessaria anche una quinta condizione, la pianificazione sociale (da parte dello stato) della domanda e dell’offerta. La necessità deriva da quella di definire l’importo della spesa pubblica aggiuntiva annua.
    Poichè analizzare questo aspetto ha dei risvolti e delle precisazioni concettuali un po’ complesse, per semplicità sorvoliamo su questa quinta condizione necessaria alla riduzione dell’orario di lavoro.
  9. Non dobbiamo lasciarci ingannare dai conti economici ufficiali.
    Poiché i profitti vengono tassati, quasi sempre queste forme di “capitalizzazioni immateriali”, vengono contabilizzate come “spese” affinché possano essere immediatamente totalmente dedotte, anziché ammortizzate in più anni per non provocare la tassazione degli utili.
    Se un’impresa produce profitti lordi, può dedurre da questi le spese e gli ammortamenti. Supponiamo che i profitti lordi siano stati di un milione di euro e l’impresa abbia speso un milione di euro per il progetto di un nuovo dispositivo. Allora, ha convenienza a contabilizzare quel progetto come “spesa” e dedurla dai profitti lordi, azzerandoli e non pagando tasse. Se invece avesse ottenuto profitti lordi soltanto di 250.000 euro, avrebbe convenienza a contabilizzare la spesa per quel progetto come “immobilizzi immateriali” ed ammortizzarla in 4 anni, quindi ammortizzando nell’anno attuale soltanto un quarto di milione di euro, cioè proprio 250.000 euro.
    L’imprenditore, anche in assenza apparente di profitti, apprezza queste forme, seppure latenti, di capitalizzazioni intangibili, in quanto necessarie per poter ottenere quote dei mercati, anche se sono improduttive, in quanto non utili a produrre più valore (cioè ad aumentare il volume dei mercati) e, come suggeriva saggiamente la contabilità marxiana, sono in realtà costi che andrebbero sottratti al plusvalore prodotto.
    (10) Più la pianificazione sociale della domanda e dell’offerta e la prosecuzione dell’aumento della produttività
    (11) Le spese pubblicitarie oggi sono spesate dal margine lordo delle imprese e quindi esentate dalla tassazione e non pagano IVA, mentre i lavoratori pagano IRPEF ed IVA sul reddito speso per soddisfare i loro bisogni, compresi quelli indotti dalla suddetta onnipresente pubblicità pervasiva. Non c’è ragione di mantenere questo stato di cose, ne’ ragione che vieti di tassare le spese pubblicitarie e detassare il reddito speso dai lavoratori.
    (12) Marx K., Critica al programma di Gotha, in Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1974, p.962.