Dai Baroni al cognitariato

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di M. Minetti

Incapaci di assoggettarli alla disciplina della catena di montaggio o di sostituirli con le macchine, i manager hanno organizzato tali lavoratori intellettuali attraverso contratti a tempo determinato.” (Richard Barbrook, L’ideologia californiana 1995).

La precarizzazione dell’accademia è il modo per disciplinare un ruolo sociale non più apicale.

Negli ultimi 30 anni abbiamo assistito ad una rivoluzione neoliberista europea che nel nostro paese ha trasformato profondamente le strutture sociali. Per adattare più rapidamente le strutture burocratiche, rese ipertrofiche da anni di stato sociale, sono state avviate privatizzazioni, ristrutturazioni, riduzioni del personale, precarizzazione dei ruoli operativi, esternalizzazioni, delocalizzazioni, sussidiarietà anche nei servizi essenziali della sanità, istruzione, servizi sociali, infrastrutture e servizi pubblici, trasporti, acqua, energia, telecomunicazioni, raccolta e trattamento dei rifiuti. Motore di questi profondi cambiamenti è stato il potere centrale dell’UE che dall’attuazione dell’unità monetaria europea, con l’Euro, ha governato con meccanismi finanziari premiali e vessatori la transizione allo stato attuale.

Il ruolo sociale della università e della ricerca non sono cambiati. Come sempre rappresentano la funzione di riproduzione culturale della classe dirigente. E’ la classe dirigente che è cambiata. Qui intendo il termine “cultura” come l’insieme delle conoscenze, delle tecniche, delle informazioni, delle ideologie necessarie a riprodurre e legittimare l’attuale sistema sociale e ad evolverlo negli interessi del gruppo sociale egemone. Durante il ‘900 la professione universitaria era, anche se non altamente redditizia, appannaggio della classe alto borghese. Richiedeva comunque una vita dedicata allo studio, passata nelle biblioteche come chierici medioevali ad accumulare conoscenze, per affascinare platee ristrette, esigenti e raffinate. L’università è diventata di massa con il ’68 e oggi accoglie il 40% della popolazione giovane anche se solo la metà degli iscritti arriverà alla laurea. Grazie all’assoggettamento dei lavoratori della cultura, diventati dei salariati precari nelle loro schiere inferiori (e che mai diventeranno superiori), all’alta borghesia basta ormai mantenere i ruoli apicali (Professori ordinari, Funzionari e Dirigenti) che decidono le modalità di accesso ai ruoli intermedi stabili e ben pagati, nonché la distribuzione dei budget tramite i bandi e le politiche di indirizzo ministeriali ed europee, presidiando i Comitati di Valutazione. Dal momento in cui i criteri molto selettivi dell’ASN hanno legato la possibilità di carriera alle pubblicazioni con riviste di fascia A o case editrici accreditate, è stato delegato al settore privato della editoria scientifica (principalmente straniera visto il peso maggiore attribuito), di fatto, il compito di valutare la qualità della produzione scientifica e quindi la selezione dei docenti. Come evidenziato anche da recenti ricerche condotte dal CNR sui criteri di valutazione della ricerca, le riviste e le case editrici scientifiche, tramite i loro editor, scelgono di pubblicare gli studi in base principalmente a criteri di mercato. Essendo prodotti editoriali, anche piuttosto costosi, devono incontrare il gradimento dei propri clienti-lettori. Soltanto le università italiane pagano per abbonamenti alle riviste scientifiche 63 mln di euro l’anno (2018) agli otto maggiori editori scientifici mondiali. Elsevier, Springer-Nature, Wiley, Taylor & Francis, American Chemical Society e Sage pubblicano più del 50 per cento degli articoli scientifici di tutto il mondo. Se una relativamente piccola rivista o casa editrice può farsi pagare dall’autore per pubblicare una monografia o un articolo, per essere pubblicati su una importante rivista internazionale di fascia A, sarà invece necessario adeguarsi al mainstream del momento, scegliendo la categoria disciplinare più attinente all’ambito di carriera che si vuole affrontare e spesso pagare la rivista (fino a diverse migliaia di dollari) per rilasciare l’articolo in open access per dargli la possibilità di farlo circolare maggiormente. All’aumento della produzione corrisponde così una minore variabilità delle ipotesi presentate (la ricerca non-mainstream non trova spazio) e spesso la riproposizione di ovvietà consolidate e misurate, per non incappare nella critica della peer review, che è tendenzialmente una valutazione di conformismo nella comunità scientifica. Il calcolo dell’impact factor, anche questo adottato dall’ANVUR in Italia per valutare la qualità della produzione scientifica degli aspiranti docenti (ASN), porta a citare sé stessi, i propri amici o coloro da cui dipendono le progressioni di carriera, ma non ha effetti rilevanti sulle misurazioni bibliometriche operate nelle ampie raccolte private di articoli indicizzati, che rivelano inequivocabilmente come l’aumento di produzione di letteratura scientifica non sia accompagnato da un reale interesse del mondo accademico. Questa maggiore produzione, generata dalla spinta del “publish or perish”, non fa progredire di molto la scienza perché la sua unica ragione di esistenza è la carriera dei suoi autori e i profitti degli editori.

Adattando gli strumenti di valutazione della ricerca agli interessi delle élite, l’accademia è riuscita finora a riprodurre sé stessa e a tutelare l’omogeneità culturale ai valori del “libero” mercato, spingendo verso una massiva privatizzazione della conoscenza. Il Prof. Stefano Fantoni, Presidente dell’ANVUR nel 2011, quando vennero decisi i criteri per accedere al ASN, è attualmente presidente di una fondazione che non nasconde la sua origine da grandi gruppi finanziari e industriali. Non c’è più bisogno che tutti gli accademici siano essi stessi èlite, basta che facciano il loro lavoro adeguandosi al mainstream, sapendo che il loro lavoro sarà misurato secondo indici quantitativi espliciti, che nulla hanno a che vedere con l’utilità sociale delle loro ricerche. Questa è la rinnovata proletarizzazione dei lavoratori culturali che designa il cosiddetto cognitariato.

Dalla pianificazione alla governance. Il meccanismo che alimenta il precariato è la forma dei bandi.

Prima degli anni ’90 del secolo scorso ogni paese europeo aveva la sua politica monetaria indipendente e poteva far fronte alle spese interne mantenendo uno stato sociale tra i più evoluti al mondo ricorrendo alla stampa di moneta (inflazione) o a prestiti (BOT) per lo più interni o stranieri. Con il Trattato di Maastricht del 1992, le politiche finanziarie e di indirizzo dei vari Stati vennero subordinate a dei parametri piuttosto rigidi che l’Italia già non rispettava per il suo eccessivo debito pubblico, salito in modo “incontrollato” nei dieci anni precedenti. Oltre alle “riforme strutturali” che l’adesione all’UE ci richiedeva, si inaugurava il fondamentale principio della sussidiarietà, per cui servizi fondamentali che prima erano erogati direttamente dagli Stati, potevano (e anzi dovevano) essere delegati a organismi decentrati (enti locali) o misti pubblici-privati (municipalizzate), o totalmente privati (corpi intermedi, aziende, singoli). Per attuare questa trasformazione nella struttura dell’amministrazione pubblica venne inaugurata la stagione delle privatizzazioni, della flessibilizzazione del lavoro e del sistema di finanziamento, attraverso bandi, dei progetti. Il bando, come ben sappiamo, eroga dei fondi pubblici individuando gli attori che possono partecipare per sviluppare l’offerta di quel servizio e pone delle condizioni a cui i progetti dovranno adeguarsi. Il fatto che il bando, e quindi il finanziamento, abbia una durata, implica che tutte le risorse impiegate nel progetto avranno copertura finanziaria solo fino al suo termine. Ecco perchè sono proliferati una serie di contratti di lavoro a tempo determinato sia nel settore pubblico che in quello privato e ancora di più nel privato sociale (cooperative, associazioni, ONG) a cui sono stati affidati i servizi in regime di sussidiarietà.

La ricerca è soltanto uno dei campi in cui il principio di sussidiarietà è stato applicato coerentemente. Questo meccanismo di governance, che va a sostituire del tutto o parzialmente l’intervento diretto dello Stato nella costruzione di infrastrutture, nella organizzazione degli enti periferici pubblici (quindi anche dell’università e dei centri di ricerca), nella assunzione del personale necessario al funzionamento degli stessi, si basa sulla sola distribuzione dei budget a disposizione. I soldi vengono distribuiti in base a bizantine prassi burocratiche di valutazione, monitoraggio e rendicontazione con fantasiose relazioni sugli esiti di impatto sui territori. Il linguaggio astruso e ingegneristico e l’obbligo di quantificare ogni elemento del processo si sono avvalsi della contemporanea informatizzazione di tutti i processi amministrativi, costituendo una nuova aristocrazia tecnocratica in grado di padroneggiare quei linguaggi, quelle procedure e quelle tecnologie. Alla burocrazia amministrativa si è sostituita la burocrazia della gestione e valutazione dei processi svolti altrove, usufruendo di risorse materiali e umane reperite sul mercato in forma privatistica.

Parallelamente, anche nel mondo della ricerca, tutti i progetti vengono ora assegnati con bandi e solo con i bandi ERC, che durano cinque o sei anni (budget europeo 16 Mrd di Euro), si possono assumere eccezionalmente docenti o ricercatori a tempo indeterminato. Con il PRIN 2022 il ministero distribuisce le risorse FIRST-PRIN e PNRR finanziando bandi biennali (742 Mln di Euro in Italia) parte dei quali riservati a ricercatori con meno di quaranta anni. E’ chi scrive i bandi che decide, in base alle politiche di indirizzo, a cosa possono essere destinati i fondi, restando il vincolo della temporaneità dei progetti di ricerca e quindi dei contratti RTDA. Più soldi per la ricerca non significa quindi stabilizzazione dei precari, piuttosto aumento del loro numero e acquisto di strumenti all’avanguardia che fra cinque anni potrebbero essere obsoleti e quindi da ricomprare.

Le forme di intermediazione solide e fluide.

Fino a trenta anni fa la vita delle persone si sviluppava in modo abbastanza coerente in un destino comune a molti. Parliamo della generazione dei baby-boomer in Italia. A rappresentare questo popolo c’erano partiti e sindacati di massa, con politici e sindacalisti di professione che hanno portato alla conquista di livelli di retribuzione e prestazioni sociali fino ad allora impensabili. Dal 1992 le condizioni di lavoro di questa classe media lavoratrice sono state erose sempre più. Le nuove generazioni hanno conosciuto un livello di istruzione maggiore, una sotto occupazione endemica, decenni di precariato-formazione-riqualificazione-precariato, orari di lavoro più lunghi, stipendi più bassi, una difficoltà a rendersi autonomi senza una welfare familiare. Politicamente la generazione-X era libertaria o in gran parte liberista, cresciuta nel mito della rivolta di Seattle o degli yuppies, coerentemente europeista, vista la trasformazione che stava vivendo e la caduta del muro di Berlino. Partiti e sindacati hanno perso attrattiva mentre hanno fatto breccia movimenti di opinione su temi sociali e ambientali, immigrazione, femminismo. Le organizzazioni emergenti del terzo settore sono state cellulari, diffuse, aggregate attorno a leader personali, oppure ONG, fondazioni,partiti con una forte struttura aziendale e una netta separazione fra dirigenti professionali e sostenitori-finanziatori. L’esplosione della rete e dei social, coincisa circa nel 2010 con la diffusione completa degli smartphone, ha nuovamente stravolto il panorama sociale. Le forze politiche che hanno saputo cavalcare i nuovi media sono stati il Movimento 5 stelle e la Lega ma non si sono radicati in modo permanente nel tessuto sociale. La più giovane generazione-Z è invece perfettamente integrata, con tutti i disagi che comporta quella condizione, nella competizione globale per la sopravvivenza e per il successo, che si misura in denaro e visibilità.

Nella narrazione meritocratica corrente, vincitori e vinti possono considerare solo l’aspetto individuale dell’adattamento ad un ambiente su cui sentono di non avere alcun controllo. Il proprio corpo diventa il limite dell’io. Le regole del gioco sono decise altrove e costituiscono un nuovo ambiente naturale a cui bisogna soltanto adattarsi. L’alternativa è scomparire. Quali saranno i riferimenti politici della prossima generazione ci è oscuro, ma considerata l’egemonia culturale dimostrata attualmente, è possibile che prevarrà l’Ideologia californiana, una forma di pensiero libertariano condiviso fra sinistra e destra, di cui una voce è la rivista tecnoentusiasta Wired. In questo panorama individualistico non c’è posto per la rappresentanza. Specchio di questa dissoluzione delle meta-narrazioni collettive che segna il passaggio al post-moderno, iniziato almeno quaranta anni fa, è la crisi narcisistica della politica di cui scriveva Cristopher Lasch in Io minimo, sopravvivenza psichica in tempi difficili, del 1984. Considerata la percezione di isolamento e impotenza appresa in cui viviamo, abituati a sospettare degli altri perché concorrenti nel raggiungimento del successo, sperimentiamo delle forme aggregative principalmente identitarie, tribali (riunite attorno ad un totem come le bolle dei social) e di contro-identificazione proiettiva (nel senso che identificano in un nemico specifico una parte di sé rifiutata). Le persone vogliono appartenere ad un Noi ma non sono disposte ad un impegno collettivo, chiedono diritti ma rifiutano i doveri che quelli comportano, restano individui nella moltitudine. Anche le persone che si definiscono impegnate non sono disposte a finanziare un progetto comune, a lavorare in modo coordinato per raggiungere degli scopi, a inserirsi in una gerarchia organizzativa. Vogliono soltanto poter scegliere, come fa il consumatore, tra opzioni seducenti che gratifichino il loro io. E la scelta è volatile come i flussi elettorali o le abitudini di consumo.

Cambi di stato

Il momento attuale è calmo ma non tranquillo. La pandemia di Covid-19 ha reso tutti consapevoli di quanta poca libertà sia residuale in momenti di emergenza e come, in tali frangenti, l’azione dello Stato sia indispensabile per la sopravvivenza di ampie fasce della popolazione. La guerra russo-ucraina che ci vede co-belligeranti, in quanto appartenenti alla NATO che è direttamente coinvolta, stravolge il mondo globalizzato a cui eravamo abituati fino a pochi mesi fa. Una nuova cortina di ferro sembra delinearsi tra Europa occidentale ed Europa dell’est e Asia, con una serie di conflitti che, passando per Israele, la Siria e l’Iran arrivano alla Libia, al Sudan e all’Etiopia, ridefiniscono le zone di influenza neocoloniali.

Non è affatto detto, quindi, che ciò che abbiamo conosciuto nei passati trenta anni continui a manifestarsi nelle stesse forme. Già Il PNRR è una inedita versione neoliberista di un intervento keynesiano di sostegno alla spesa pubblica, dopo anni di austerità. Infrastrutture tecnologiche, transizione energetica dalle fonti fossili (russe-mediorientali) alle rinnovabili, armamenti e qualche spicciolo a rinnovare il capitale umano. Ma solo quello “meritevole”. Nei prossimi anni potremmo assistere ad una importante crescita dei bilanci militari (ora all’ 1,6 % del PIL) e una parallela riduzione della spesa per assistenza e pensioni (22 % del PIL), per l’istruzione (ora al 3,9 % del PIL) e per la sanità (7,9 %.PIL).

I ricercatori e le ricercatrici dell’università sono figure importantissime nei tempi di crisi perché rappresentano una ristrettissima minoranza, estremamente competente e critica sulla società ma non riconosciuta e integrata pienamente nel ruolo istituzionale. I cognitari hanno gli strumenti concettuali, linguistici e metodologici per interpretare i dati e trarne conclusioni mentre contribuiscono a legittimare il sapere scientifico nel momento in cui questo viene mercificato. Solitamente sanno scrivere, parlare in pubblico, argomentare portando dati e teorie, padroneggiano i sistemi di calcolo e i modelli matematici e statistici, conoscono le lingue e hanno spesso vissuto all’estero. Sono gli intellettuali e potenziali leader di un cambio di paradigma culturale e politico, come è stato quello del 1968. Nel momento in cui cambiano le condizioni geopolitiche e quindi anche economiche di ampie fasce della popolazione, gli strumenti culturali devono rinnovarsi di conseguenza, per identificazione o contrasto con quelli emergenti, e questi processi nascono nell’università o ai suoi margini, proprio perchè quello è il luogo in cui si forma la classe dirigente di domani. Nel 2021 c’erano circa 15.000 assegnisti di ricerca, 11.000 ricercatori a tempo determinato, 7.000 ricercatori a tempo indeterminato, 24.000 professori associati e 15.000 ordinari. Queste differenti categorie di riconoscimento professionale e reddituale rappresentano una gerarchia che tende verso il suo vertice ad essere molto integrata con il tessuto politico, amministrativo ed economico. Pertanto i docenti universitari vengono spesso cooptati dalla politica e dall’amministrazione con la funzione di esperti, ad attuare quelle politiche espresse dai governi. Notiamo anche dal loro numero che i ricercatori precari sono una minoranza rispetto ai docenti a tempo indeterminato. La categoria veramente maggioritaria sono gli esclusi dal sistema della ricerca, che spesso finiscono per trovare impieghi in altri campi o come docenti nei gradi inferiori dell’istruzione, in cui troviamo in ruolo nel 2022 ben 120.000 uomini e 580.000 donne.

I dipendenti del Ministero della istruzione e del merito hanno in questi anni svolto efficacemente il loro lavoro di formazione delle giovani generazioni per l’ingresso nella economia globalizzata, rafforzandone i valori di libertà nel mercato del lavoro, in cui competere per il successo o la sopravvivenza. La fase della globalizzazione unipolare sembra però essersi chiusa, non certo per il nostro consapevole intervento ma, forse, solo perché, alla sua espansione senza ostacoli, si oppone ora il ri-nascente imperialismo orientale. La democrazia liberale (o ciò che ne rimane) dell’occidente, incontra il nazionalismo militarista e autoritario del resto del mondo. Saremo tutti mobilitati o lo siamo già? C’è una opposizione sociale e politica o si è spenta nella difesa bipartisan dei valori europei e nazionali? Domande a cui potremo dare risposte solo a posteriori. Nel frattempo, oltre a costruirci una rappresentazione meno ideologica che spieghi l’esistente, potremmo anche iniziare ad organizzarci per cambiarlo. La trasformazione è inevitabile ma non è già determinata. Saranno le forze effettive emergenti nei prossimi anni a stabilirne la natura e gli esiti.