Guide nell’ecosistema

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di M. Minetti

A cosa servono i leader.

C’è un’opinione molto diffusa, soprattutto nelle forme della sinistra libertaria che negli ultimi cinquanta anni ha praticato forme di lotta dal basso, orizzontali, scaturite dalla organizzazione assembleare: ovvero che i leader non siano più necessari, anzi siano la causa dei fallimenti. Leader è il participio del verbo inglese to lead, che significa guidare, accompagnare, condurre.

Se è vero che molti movimenti sociali non hanno espresso dei leader formali, eleggendoli portavoce, segretari o presidenti di qualcosa, resta innegabile che in tutti i movimenti alcune persone, da subito, vengono riconosciute come guide e organizzatori a cui viene assegnato un potere informale, associato talvolta a quello che Weber definì carismatico. Queste persone sono a tutti gli effetti dei leader che emergono per delle eccezionali caratteristiche che li contraddistinguono, può essere l’abilità di scrivere e parlare in pubblico, può essere la dedizione e il duro lavoro a cui si sottopongono per organizzare le lotte, può essere il riconoscimento dell’essere stati vittime della repressione per aver incarnato i valori del gruppo, possono essere un insieme di qualità (un capitale immateriale: bellezza, cultura, intelligenza, forza, coraggio, amicizie, ricchezza, potere… ) in grado di favorire il successo del gruppo. Ovviamente portano sulle loro spalle la responsabilità sia del successo che dell’insuccesso dei movimenti che guidano, anche quando il loro potere era talmente fragile da non poter cambiare il corso degli eventi.

D’altro canto voglio tener presente che possono certamente esistere gruppi di pari, che affrontano le decisioni, la strategia e il lavoro pratico in modo perfettamente orizzontale. Il fatto che possano esistere non vuol dire che non siano rarissimi, talmente rari da non poter essere presi a modello per una forma di organizzazione generale e che si vorrebbe estendere alle masse. Per avere una struttura in cui tutti gli appartenenti hanno lo stesso potere e gli stessi ruoli temporaneamente intercambiabili, gli appartenenti al gruppo devono avere pari capacità, motivazione e stima nelle altrui capacità. Ciò può accadere, con un certo grado di imperfezione, in piccoli gruppi di scopo molto omogenei e fortemente coesi, uniti da un profondo affetto reciproco. Può essere una famiglia molto integrata, un gruppo musicale particolarmente affiatato, una squadra sportiva senza primedonne… tutte condizioni molto improbabili e comunque che non ammettono un numero di “pari” superiore ai cinque. Dopo un periodo l’equilibrio si può comunque rompere, fissandosi i ruoli, emergendo persone indispensabili e quindi più importanti di altre, conflitti, rivalità, delusioni e abbandoni.

Finché si tratta di divertirsi e fare festa, gareggiare per piacere o condurre una azienda tradizionale, questa armonia nella collegialità dei compiti organizzativi ed esecutivi può sopravvivere, ma se il gruppo deve confrontarsi nella produzione di merci per il mercato, nella gestione del governo o nell’organizzazione militare è abbastanza probabile, per non dire scontato, che si identifichino dei leader funzionali nella distribuzione dei compiti. Chi emerge in quel compito si specializza perfezionandolo in arte, e l’arte del comando è solo una fra le tante, ma rispetto alle altre è molto ambita perché conferisce potere e riconoscimento sociale.

Leader funzionali e controllo democratico.

La tesi che sostengo, supportato da diversi teorici dell’organizzazione politica, è che non sia possibile costituire e mantenere operativo un gruppo sociale, specie se molto ampio, senza delle figure leader. Quello da cui studiosi delle organizzazioni come Rodrigo Nunes ci mettono in guardia è la tendenza a cristallizzarsi delle strutture di potere, formando un corpo separato con degli interessi propri che non coincidono più con quelli del gruppo originario. Robert Michels nel 1911, studiando la SPD in cui militava, la definì “la legge ferrea dell’oligarchia” (Michels 2022).

“Per evitare la leadership tradizionale, infatti, i movimenti sociali devono rivolgere non minore attenzione ed energia all’invenzione e alla costituzione di nuove forme di leadership” (Hardt-Negri 2018, p. 29)

Per una organizzazione qualsiasi, avere una struttura formalizzata con regole certe e meccanismi di controllo democratico da parte della base degli aderenti è una garanzia per impedire che chi assume la funzione dirigente non usi quel ruolo per trasformarsi in una èlite interna. Nella storia antica si trovano moltissimi esempi di limitazione del potere monarchico o dei magistrati repubblicani, esercitato da pubbliche assemblee. La più nota e longeva fu il Senato, con un numero di Patres compreso fra i cento e i seicento, in genere. I vincoli di mandato e la rotazione delle cariche sono altri meccanismi che cercano di impedire la fissazione e burocratizzazione delle funzioni dirigenti. La collegialità delle cariche è un’altra forma pensata per limitare e armonizzare la funzione di guida. Nell’antica Roma i Consoli erano solitamente due mentre alcune cariche venivano ricoperte da triumviri.

Modelli organizzativi a confronto.

Partiamo dal modello più semplice e più antico, la monarchia. Il leader che riunisce attorno a sé i suoi guerrieri/fedeli. In epoca moderna lo troviamo in tutti gli esempi di cesarismo e culto della personalità. Da Napoleone a Mussolini, passando per Hitler e Lenin per arrivare al nostro Berlusconi o a suoi ispiratori di paesi poco democratici. Il gruppo si identifica con il leader che è capo del partito a vita. Il gruppo dirigente è scelto personalmente dal capo con criteri di fedeltà.

In una società pre-industriale, dove l’informazione non è centralizzata, questo modello monarchico produce una federazione di notabili che esprimono un potere territorializzato, clientelare o tribale ma poco coeso. In una società industriale burocratizzata si può formalizzare una dittatura compiuta in cui gli elementi esecutivi vengono deresponsabilizzati dalla gerarchia. In una società tollerante e aperta, fortemente interconnessa, possono emergere micropoteri personali frammentati, federati da interessi convergenti, come imprenditori in competizione/sinergia fra loro per la conquista del mercato/consenso.

Il secondo modello è quello repubblicano in cui la struttura associativa è solida e formalizzata, precostituita rispetto al gruppo dirigente, che viene scelto con meccanismi elettivi. Gli archetipi sono lo Stato, la Chiesa o la Massoneria. L’organizzazione è ampia e strutturata, come nei partiti o nei sindacati, le regole sono chiare e condivise e periodicamente gli associati sono chiamati ad eleggere i rappresentanti. In queste strutture, più sono estese e complesse e più possono attuarsi quei meccanismi informali e nascosti di cooptazione del ceto dirigente che formano il potere burocratico (Weber) tendenzialmente conservatore. Tipica dei partiti socialisti e comunisti era la designazione del successore da parte del segretario uscente, che lasciava in eredità il bacino di voti delle federazioni (o correnti) di cui era espressione. In tempi più recenti, e soprattutto a causa dell’ingerenza esterna sui partiti, il leader e la sua squadra possono essere designati da un potere esterno ma fondamentale al successo del partito: l’ambasciata di un paese straniero, centri di potere economico o militare, organismi finanziari o politici internazionali. E’ in questo caso che troviamo il maggior rischio, per non dire la certezza, che si formi una ristretta oligarchia il cui obiettivo è la propria continuità piuttosto che gli scopi dichiarati della organizzazione.

Una terza opzione, anche se possibile, non mi risulta osservabile. Ovvero, finora, non mi è mai capitato di imbattermi in organizzazioni che funzionassero diversamente. Anche quando si trattava di organizzazioni nascenti, queste hanno avuto inizio mediante dei passaggi che muovevano dalle azioni di un gruppo dirigente già formato e consolidato, da leader di lungo corso, che decidevano di dare vita alla propria organizzazione, magari nella retorica dell’orizzontalismo e dei gruppi spontanei, perchè quello era il clima ideologico corrente: il rifiuto della rappresentanza, la democrazia diretta e radicale, il controllo assembleare, la revocabilità dei mandati, l’inclusività nel prendere decisioni. Tutto ciò è esistito ma veniva gestito da poteri non formalizzati e non trasparenti, per nulla orizzontali, quindi senza nessun controllo democratico.

Perché sorga una nuova forma di organizzazione, con dei nuovi leader funzionali controllati dal basso, con lo scopo di attuare gli obiettivi espliciti dell’organizzazione, c’è bisogno di un cambio di paradigma. C’è bisogno anche che la base degli associati, che sostiene con contributi volontari o con il proprio lavoro l’organizzazione, pretenda di essere ascoltata e presa in considerazione, ma sia parimenti disposta a esprimersi attivamente. Al diritto di parola corrisponde il dovere di parola. La tentazione alla delega in bianco è fortissima soprattutto quando è diventata abitudine identitaria. Pensiamo ai milioni di iscritti ai sindacati, che pagano le loro trattenute in busta paga o pensione, quanta voce in capitolo hanno sugli indirizzi strategici della segreteria? Si fidano e basta.

Teoria delle rivoluzioni.

La rivoluzione è un avvicendamento, violento o meno, di un gruppo dirigente al governo. La rivoluzione può essere dall’alto o dal basso, può essere di destra o di sinistra, progressista o reazionaria. Avviene quando il ceto dirigente perde il suo potere effettivo perchè non è più espressione della classe dirigente. Per un certo periodo riesce a conservarsi formalmente, obbedendo di fatto ai nuovi interessi egemoni, fino a che il nuovo potere, raggiunto il consenso necessario, decide di esprimere direttamente il ceto dirigente, accusando quello vecchio di corruzione, parassitismo, incapacità. Allora e solo allora si mostra l’epifenomeno che chiamiamo rivoluzione, o colpo di stato, o semplicemente conquista del governo mediante elezioni, come ottenne democraticamente anche Adolf Hitler.

Finché la classe dirigente riesce, attraverso le organizzazioni che la esprimono, a conservare il potere effettivo e il consenso nelle masse, non può sorgere nessuna alternativa. Qualsiasi chiamata alla presa del potere risulterebbe, come in effetti è, velleitaria. L’occasione rivoluzionaria si presenta solo in caso di vacanza del potere, talvolta per condizioni geopolitiche prevedibili ma non influenzabili da piccoli attori. Nel passato queste cause sono state fondamentalmente la perdita di una guerra. Recentemente le cose non sono molto cambiate anche se per sostituire una classe dirigente basta molto meno. Una rivoluzione colorata, per esempio, o una primavera di scontri di piazza, se c’è nell’esercito chi è pronto ad approfittarne.

Sempre nel suo testo Neither Vertical nor Horizontal, Nunes distingue, con lessico deleuziano, fra rivoluzioni molari e rivoluzioni molecolari. Le rivoluzioni molari sarebbero quelle sopra descritte. Le rivoluzioni molecolari, invece, sarebbero per l’autore quei cambiamenti prolungati, diffusi e analogici nelle convinzioni e nei comportamenti delle masse che rendono possibili, al raggiungimento del limite di tensione accumulata, la rivoluzione molare corrispondente. Ad esempio l’estremizzazione del nazionalismo e di sentimenti di rivalsa antifrancesi, antiinglesi, antisemiti e anticomunisti, successivi alla sconfitta della Germania nella I GM, hanno favorito la presa del potere da parte di Hitler. Sia le rivoluzioni molecolari che quelle molari hanno origine da rinnovati equilibri tra le forze sociali, che possono essere stati modificati da assetti geopolitici, innovazioni tecnologiche e produttive, crisi finanziarie distruttive.

Le nuove forme della politica.

Visto che di illusioni, non si vive più, i movimenti di trasformazione sono da una parte mutati in movimenti d’opinione e intervento (ONG, fondazioni) che puntano a fare lobbing sul governo e spostare l’opinione pubblica. Le organizzazioni che hanno di fatto iniziato queste campagne di comunicazione sono state il WWF, Médecins Sans Frontières, Save the children, Bill & Melinda Gates Foundation, Open Society, Greenpeace, Amnesty International, in Italia Arci, Legambiente, Emergency, Comunità di S. Egidio, Mediterranea… e centinaia di altre. L’obiettivo è stato spostato dalla politica all’intervento sociale, umanitario o ecologico, in una sorta di welfare internazionale privato, sul modello del volontariato religioso filantropico, con strutture di tipo aziendale privatistico dai bilanci milionari.

Al livello territoriale ha preso sempre più piede il modello del community organizing di origine statunitense, incentrato su vertenze specifiche locali, spesso finanziate dalle grandi fondazioni se intervengono nel volontariato sociale (migranti, esclusione sociale, minori, donne in difficoltà..). In questo tessuto si sono formate generazioni di leader, anche Barak Obama viene dal community organizing, che non hanno l’obiettivo di prendere il potere ma di farsi sentire e scenderci a patti ottenendo il più possibile per la propria comunità. Questo modello di auto-organizzazione è nato per includere le minoranze nella democrazia del conflitto liberale.

Le organizzazioni politiche hanno seguito i modelli aziendali di ONG e fondazioni, presentandosi nel corso degli anni ’90-2000 come partiti televisivi o partiti azienda, come li definisce anche Paolo Gerbaudo nel suo Partiti digitali. L’aspetto comune di queste organizzazioni è quello di aver assunto il marketing come nucleo centrale di azione. In questo schema, per creare un cambiamento, occorre spostare il comportamento di grandi masse di persone, meglio se influenti politicamente ed economicamente, e questo effetto è realizzabile attraverso uno sforzo congiunto nell’ambito della comunicazione, in cui a maggiori finanziamenti corrisponde una maggiore visibilità dei contenuti attraverso le campagne attive e quindi una maggiore diffusione dei comportamenti auspicati. I risultati sono misurabili e valutabili quantitativamente, anche nell’aderenza della produzione legislativa dei vari paesi ai suggerimenti di questi portatori di interessi. La competenza dei leader dei movimenti-azienda è quella di rendere compatibili gli interessi degli stakeholder classici (imprenditori, amministratori pubblici, intermediari, gruppi finanziari..) con gli obiettivi della propria organizzazione ed evitare che entrino in conflitto, assumendo anche compiti di sussidiarietà. E’ qui che avviene il miracolo in cui i grandi capitali finanziari che si avvantaggiano della crescente diseguaglianza, si trovano impegnati nei programmi di iniziative di empowerment sociale nelle periferie e nei paesi più poveri. In cui i colossi dell’automotive e della estrazione e vendita di idrocarburi abbracciano le battaglie ecologiste per la riduzione delle emissioni inquinanti.

Senza voler criticare la reale efficacia di queste campagne, che comunque riescono a raggiungere i propri obiettivi specifici nella cornice neoliberista, vorrei solo analizzare la struttura organizzativa delle ONG. Questa risulta del tutto omologa, anche nella nomenclatura, agli organigrammi aziendali. Responsabili del fundraising affiancano chi gestisce le risorse umane, il personale amministrativo, i settori della comunicazione come ufficio stampa e campaigners che si avvalgono di creativi e tecnici spesso esternalizzati, con un numero elevato di collaboratori operativi qualificati o generici, estremamente precari, legati ai singoli progetti.

Solitamente, come nel settore imprenditoriale privato, i ruoli apicali vengono ricoperti da chi mostra maggiore efficacia nel raggiungimento degli obiettivi aziendali, ovvero accaparrarsi fonti di finanziamento e aumentare il peso dell’organizzazione in termini di potere.

L’organizzazione delle masse marginali

Per esprimere il potere di chi non ha potere occorre sommare il potere residuale (minimo) delle molte persone, i cui interessi non sono rappresentati, per accentrarlo in strutture in grado di trasformare il reale. Non è necessario che queste organizzazioni ricalchino il modello aziendale in quanto il principio ordinatore non sarà la fedeltà ai finanziatori (al vertice), bensì la coerenza agli intenti espressi (della base). Quella che un tempo era la funzione del movimento operaio, sotto forma di sindacati o partiti di massa, e che oggi probabilmente deve trovare altre forme di espressione che uniscano la coesione territoriale del communitiy organizing con un respiro più ampio, nazionale e internazionale, di progettazione della trasformazione possibile. Di certo, rispetto alle omologhe forme novecentesche, dovrebbero conservare la forma di finanziamento autonoma per evitare che i suoi vertici vengano indicati dai finanziatori privati o pubblici. Per la stessa ragione i leader dovrebbero essere funzionali, ovvero legati al compito, e rimanere soggetti al controllo popolare sul loro mandato, prevedendo dei vincoli e dei meccanismi di affiancamento e sostituzione periodica dei ruoli. Non mancano gli strumenti legali e tecnologici e la conoscenza organizzativa per dare vita a forme di organizzazione in grado di unire le rivendicazioni egualitarie e di emancipazione delle classi subalterne. Quello che manca è il bisogno esplicito di una tale impresa e la fiducia nelle persone che potrebbero portarla a compimento. Il bisogno, ovvero il desiderio incarnato e i leader, le persone motivate e preparate in grado di attuarlo. Non sto parlando dell’iperleader, della figura unica e carismatica, paternalista o maternalista, ritenuta risolutiva, invocata spesso dai populisti di sinistra ma di migliaia di organizzatori e attivisti inseriti in una struttura flessibile ma centralizzata.

Quali leader ci servono?

Se tutti sapessimo le stesse cose allo stesso momento e avessimo le stesse convinzioni saremmo cloni indistinti. In tutte le epoche si sono differenziati degli esploratori, che hanno provato strade (geografiche, teoriche, etiche, espressive..) inusuali e a volte con ritardo di generazioni, sono stati seguiti in quei percorsi grazie anche al supporto di intermediari. L’esempio classico è il ruolo di Gesù di Nazareth. Nato nell’ebraismo, ne rompe alcune regole. Propone, ad esempio, il perdono e l’eguaglianza fra tutti gli uomini e le donne. Gli apostoli ne scrivono (anche in epoche diverse) la vita diffondendone il messaggio e fondano una organizzazione con lo scopo di attuarne gli insegnamenti. In circa duemila anni questa organizzazione si è scissa in molte differenti, e alcune, dopo varie vicissitudini sopravvivono anche oggi. A differenza di altre caste sacerdotali, quella cristiana non ha vincoli di sangue, come i Bramini in India o i Leviti nell’ebraismo, ma è totalmente basata sulla organizzazione che è stata in grado, anche se con estrema lentezza, di rinnovarsi e adattarsi alle mutate condizioni storiche.

Molte organizzazioni politiche si sono ispirate alla chiesa come modello di funzionamento, e quella a sua volta era modellata sul funzionamento dello stato romano antico in cui è nata.

In quasi tutto il mondo è diffuso poi il sistema di organizzazione statale con la tripartizione dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario. La lentezza di questo tipo di organizzazione statuale è commisurata all’ampiezza dei territori che deve amministrare e alle sue differenze interne.

Un altro modello di organizzazione estremamente diffuso è quello militare, più strettamente gerarchico in quanto la catena di comando deve essere il più possibile affidabile. La velocità di esecuzione delle direttive deve essere di poche ore o di pochi minuti e richiede un grado di autonomia differente in base alla struttura tecnologica delle armi usate e quindi della tattica.

Una forma organizzativa ibrida fra le precedenti è quella dell’impresa produttiva o commerciale. Unisce il principio gerarchico, a volte sottomesso ad un “senato” dei principali azionisti, a margini di autonomia organizzativa dei dirigenti e degli operatori che può sfiorare l’autogestione delle unità operative.

In tutti questi casi elencati esistono leader. Anche nei movimenti di pensiero, nelle mode informali, nelle avanguardie artistiche o nei gruppi “spontanei” esistono dei leader, espliciti o impliciti, che organizzano il proprio seguito o che vengono seguiti per il proprio carisma.. ma questi ultimi sono stati supportati da qualcuno che ha preparato la situazione, e questi qualcuno sono i leader funzionali, spesso nascosti, che si tengono in secondo piano e riescono a catalizzare l’attenzione verso i portatori di visione in una struttura organizzativa efficace.

Questi leader funzionali sono fondamentali alla riuscita del progetto e una organizzazione sana deve avere dei metodi consolidati di selezione e formazione di questi intermediari che nel linguaggio obsoleto del novecento erano definiti quadri o dirigenti.

La persona adatta nel posto giusto.

Gestire le “risorse umane” è la perifrasi aziendale nella dimensione operativa (acquisto e gestione della forza lavoro), mentre assegnare ruoli e responsabilità all’interno dell’organizzazione, nelle funzioni dirigenziali, viene chiamato “managment” ovvero direzione. Nella aziende private l’espressione dell’interesse, quindi degli obiettivi strategici da perseguire, é in capo alla proprietà che può essere una persona o un consiglio di amministrazione.

Replicare questo schema in una organizzazione politica comporta che l’obiettivo strategico è collocato al vertice decisionale. Non ci si può stupire che questo vertice sviluppi dei suoi interessi autonomi rispetto a quelli della base di aderenti che esplicitamente si propone di rappresentare.

Nei partiti di destra questa verticalità nella gerarchia è palese e accettata per il “principio del capo”, il residuo monarchico che incarna i valori dell’organizzazione e si presume li estenda, mediante il suo potere, a tutti gli appartenenti al gruppo a cui appartiene e che con lui si identifica.

La questione diventa molto più spinosa e contraddittoria quando si parla di organizzazioni che nascono con l’intento esplicito di tutelare gli interessi di categorie numerose ma poco rappresentate nel potere. Un lavoratore o una lavoratrice che attraverso l’attività nell’organizzazione del sindacato riesce ad arrivare in parlamento e addirittura a ricoprire la carica di ministro, riesce in questa funzione a tutelare gli interessi della classe lavoratrice a cui apparteneva in origine o vengono invece cooptati a tutelare gli interessi delle èlite?

Fuor di retorica, non ci sono forme di controllo da parte dei lavoratori, che dovrebbero essere rappresentati, sulla possibilità di eleggere parlamentari o nominare ministri come loro rappresentanti. In un sistema politico come quello dei listini bloccati in cui la possibilità di essere eletti è lasciata alle direzioni dei partiti e la nomina dei ministri è una pura suddivisione del potere, in base a negoziati informali fra i leader di maggioranza, il controllo dei rappresentati sui rappresentanti è pressoché nullo, pertanto molti elettori rinunciano del tutto ad esprimere una scelta elettorale.

L’organizzazione che ha provato a vincolare il mandato dei rappresentanti ad un controllo mediato da strumenti di democrazia diretta è stato il Movimento 5 Stelle, deludendo poi in gran parte le aspettative dei moltissimi simpatizzanti e elettori che gli hanno dato fiducia. Alla prova del governo, conquistato grazie al superamento del 30% dei consensi elettorali nel 2018, sono emerse le numerose problematiche nella incapacità di mantenere il controllo della base degli aderenti sugli eletti e sull’attuazione del programma politico, condizionato prima dall’alleanza con la Lega e poi con il PD durante i due successivi mandati di Giuseppe Conte.

Le vicende che hanno scosso il M5S portandolo alla fortissima crisi in cui versa tuttora vanno considerate come monito per chi intendesse affrontare un analogo tentativo di applicare il controllo della base degli attivisti al corpo politico dei dirigenti e degli eletti di un partito. Anche in presenza di una solida struttura giuridica di regolamenti vincolanti, la crisi politica è risultata inarrestabile. Sicuramente il Movimento scontava una carenza di quadri preparati e con esperienza politica alle spalle, mentre molti improvvisati opportunisti hanno cavalcato la novità e la crescita esplosiva dei consensi per conquistare un seggio in parlamento.

La domanda che ci dovremmo porre alla luce di quelle vicende è: “che tipo di persone dovremmo individuare come leader di una organizzazione che non tradisca gli obiettivi espliciti che si è data?” Suggerisco: persone che esprimono conoscenze avanzate e critiche; persone con esperienza nel campo della organizzazione e amministrazione; persone con una visione politica chiaramente definita ed espressa; persone con spiccate competenze comunicative.

La seconda e non meno fondamentale questione è il perché queste figure individuate dovrebbero essere motivate a svolgere il faticoso lavoro di leader dell’organizzazione. Se fosse una enorme ambizione che li spinge o la prospettiva dei benefici economici che lo status di parlamentare garantisce, oppure un incontenibile narcisismo o la prospettiva di una carriera nelle istituzioni, queste persone andrebbero possibilmente evitate.

Spesso però la capacità non si trova nel volontariato e le più buone intenzioni si infrangono sui limiti evidenti dei generosi militanti. Anche se il riconoscimento economico non può essere il movente principale di chi si dedica all’organizzazione politica, nondimeno chi svolge questo importante ruolo deve essere garantito nei propri bisogni dagli appartenenti all’organizzazione, ricevendo un reddito adeguato.

La gestione delle persone come ruoli e responsabilità è quindi un fattore chiave del successo organizzativo e va affrontato con estrema serietà. La formazione deve essere continua e su molteplici piani e deve avere come obiettivo la riproduzione dei ruoli dei leader e la loro riflessività (T-group).

La partecipazione democratica

La partecipazione è la moneta con cui ripagare il lavoro volontario dei militanti e dei leader, ma gli esseri umani hanno anche bisogno di sicurezza economica e tempo libero.

La maggiore efficacia di una organizzazione che incorpora dispositivi di democrazia interna, rispetto a quelle che non ne hanno o ne conservano soltanto dei simulacri formali, è la capacità di motivare i membri del gruppo facendoli sentire tutti ugualmente importanti per il raggiungimento dello scopo prefisso. In questo modo si esaltano i fattori motivazionali intrinseci limitando l’ossequio al potere implicito alla leadership del capo. Nei gruppi democratici i leader interagiscono con gli altri membri del gruppo riducendo la frustrazione dei membri e l’aggressività verso l’autorità del leader. L’interdipendenza del compito è quel legame nel il gruppo che nasce perché deve portare a termine un obiettivo per cui è necessaria la collaborazione di molti. Tale forma di interdipendenza costituisce un elemento forte d’unificazione, perché lo scopo del gruppo determina tra i membri un rapporto di ripercussione circolare degli esiti. In altri termini, i risultati delle azioni di ciascuno hanno delle implicazioni sui risultati degli altri e questo stimola il senso del dovere verso il gruppo.

Per chi intende trasformare la società in un insieme di relazioni slegate dal rapporto di denaro e basate invece sulla reciprocità del legame comunitario, una organizzazione di questo tipo costituisce anche l’anticipazione dei legami futuri che si vogliono estendere anche all’ambito produttivo e riproduttivo. Farsi carico dei bisogni degli appartenenti all’organizzazione sarà quindi parimenti importante quanto la scelta di affidargli delle responsabilità.

“La leadership allora, se ancora ha un ruolo, deve esercitare una funzione imprenditoriale, non imponendosi su tutti gli altri o agendo in loro nome o persino rivendicando di rappresentarli, ma come semplice operatore di un’assemblea all’interno di una moltitudine che si autorganizza e coopera in piena libertà ed eguaglianza allo scopo di produrre ricchezza. L’imprenditorialità deve essere un agente di felicità.” (Hardt – Negri 2018, p.19)

La democrazia però non deve essere intesa come appiattimento numerico delle persone a individui indistinti che valgono soltanto in quanto votanti. La leadership si costruisce sul campo dell’azione e viene riconosciuta dalle persone su cui questa deve fondarsi. La democrazia serve come controllo affinchè le finalità collettive vengano rispettate senza cadere nella trappola della politica “dei due tempi”, il primo in cui si sacrificano i valori alla conquista del potere (del capo) e il secondo in cui (forse-mai) grazie al potere conquistato, attuerà le vere finalità dell’organizzazione. Questo troppe volte ripetuto inganno da parte dei politici di professione ha condotto ad un progressivo disinteresse nei confronti della politica elettorale con picchi di astensionismo che arrivano al 70%.

L’ecosistema politico futuro

I momenti di crisi permettono di cambiare gli equilibri esistenti. L’attuale ceto politico è in grave debito di credibilità, avendo promesso una serie di soluzioni irrealizzabili nell’attuale contesto internazionale dominato da una governance europea poco appariscente ma inflessibile.

Nuove forze politiche potranno emergere attingendo a quelle masse di delusi, che sono oggi maggioranza e che vengono a definirsi destra o sinistra in base a battaglie d’opinione puramente estetiche, che nulla vanno a cambiare degli effettivi rapporti sociali operanti nel paese. Non una ma molte forze politiche che convergano su una trasformazione sociale che è ormai matura, visto che gli attuali equilibri distributivi della ricchezza e del lavoro non hanno più nessuna ragione effettiva se non la conservazione di passate conquiste e appaiono ormai privi di senso. L’appropriazione di enormi rendite da parte di una borghesia parassitaria, assunta a ceto aristocratico, entra in crisi non perché qualcuno la minacci ma, proprio perché incontrastata, non può più riprodurre queste rendite venendo meno la produzione di valore da parte del lavoro.

Chi volesse affacciarsi sulle sfide dell’organizzazione politica con lo scopo di aggregare e rendere interdipendenti i destini di chi oggi, nella disgregazione moltitudinaria, subisce il ricatto della concorrenza al ribasso nel costo del lavoro, non potrà certo evitare di costruire una struttura sociotecnica integrata a strumenti tecnologici di comunicazione e decisionalità autonomi. Come l’evoluzione tecnologica cambia la forma delle relazioni produttive, così cambia anche le relazioni nei corpi intermedi che devono adattarsi alle rinnovate forme della comunicazione e dell’organizzazione.

Paolo Gerbaudo, nel suo libro Partiti digitali (Gerbaudo 2020), mostra l’evoluzione della forma partito, da quella burocratica dei primi del ‘900 alle forme aziendali/televisive degli anni ’90-2000, fino alle sperimentazioni dei partiti basati su intenet come il Partito Pirata, Podemos e in Italia il Movimento 5 Stelle. Queste organizzazioni incentrate su una nuova forma di intermediazione che, nei casi di maggior successo, hanno interpretato le teorie del populismo di sinistra di Laclau, hanno mostrato le potenzialità e i limiti dell’utilizzo delle nuove tecnologie. Sicuramente hanno saputo attrarre al coinvolgimento nella politica masse di cittadini che se ne sentivano esclusi, con l’effetto deludente di veder attuato un plebiscitarismo calato dall’alto in cui venivano semplicemente confermate le scelte degli iper-leader, che monopolizzavano gli spazi comunicativi interni ed esterni delle suddette organizzazioni.

Gli strumenti digitali, posti sotto lo stretto controllo della dirigenza, impedivano un reale dibattito interno e un controllo della base degli aderenti in favore di un accentramento della responsabilità delle scelte verso il cerchio magico dello staff di dirigenza. Niente di molto diverso da ciò che accadeva nella forma del partito-azienda volto all’intervento mediatico, soprattutto televisivo, in tutti gli altri partiti di governo e opposizione.

Non è la tecnologia a democratizzare le relazioni, come osserviamo nelle organizzazioni interne delle più importanti imprese tecnologiche, tutte fortemente integrate a sistemi di controllo e comunicazione basati sulla rete, ma questa fornisce la possibilità di superare le attuali forme delle relazioni mostrandoci senza mascheramenti la pervasività tentacolare del capitalismo della sorveglianza. Le tecnologie estremamente potenti che ci mettono tutti in comunicazione e che immagazzinano enormi quantità di informazioni e conoscenze, dopo essersi presentate come soluzioni si rivelano come problema da risolvere in quanto appiattiscono l’umanità a quantità da modellizzare, accentrando il potere di chi le controlla e massificano i comportamenti verso il consumo.

Solo un nuovo assemblaggio umano, interconnesso su basi differenti dal puro scambio di denaro, potrà costituire l’ecosistema politico che anticipa e costruisce delle forme della vita in cui si partecipa in quanto soggettività irripetibili piuttosto che come individui numerabili. Affinchè tutto questo possa accadere bisogna smettere di considerarsi individui nella moltitudine, formalmente uguali, in lotta gli uni contro le altre, aspirando al riconoscimento economico del merito conquistato con la formazione, la con-formazione ad aspettative sociali di successo.

E’ proprio dalla infelicità vissuta finalmente nel benessere economico e dalla rassegnazione che ne deriva che si pone l’anticipazione del rinnovato bisogno di dare senso alla vita, di raggiungere le rose oltre al pane. Quando il bisogno si delinea nettamente allora emergono con chiarezza anche le forme per soddisfarlo. Ad esempio sottraendo il proprio tempo alla valorizzazione del capitale.

Grande è la confusione sotto il cielo, e la situazione è eccellente” recitava un celebre motto di Mao Tse Tung.

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