La relazione incompiuta.

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di A. Hall e M. Minetti

1 – La costruzione dell’Io

Il sé come centro dell’indagine, dunque: gli esempi dei modi di inquadrarlo sarebbero infiniti e porterebbero lontano: proprio in virtù la sua interna complessità, esso appare sfuggente, difficile da descrivere, arduo da trattenere.

Più volte si è delineata la salute psichica e la possibilità di esprimere con pienezza il potenziale del proprio sé con la metafora dello “stare tra gli spazi” (Bromberg 2007). Se essere a pieno titolo soggetti della propria esperienza psichica è uno stare “tra” diversi nuclei dell’esperienza di sé, quasi in una terra di mezzo o in un “area che connette”, allora possiamo senza dubbio ascrivere al sé la caratteristica di un’ineliminabile molteplicità. Ciò significa che essere sé stessi non è semplice, poiché non è molto chiaro cosa significhi effettivamente. Ciascuno comprende dentro di sé un’ampia gamma di declinazioni e modi della propria vita soggettiva, una serie di configurazioni mutevoli, vive e in costante mutamento.

La metafora dello “stare tra gli spazi” permette dunque di cogliere e affermare il valore intrinseco del molteplice per la vita psichica, il quale diviene la cifra da cui guardare il sé e insieme chiave d’accesso alla realtà e all’altro; il molteplice permette di descrivere le pieghe del mondo interno ed esterno a partire da una logica complessa e non riduttiva, nella quale uno e molti non siano alternative rigide tra cui dover scegliere, bensì polarità in tensione che diano origine a una vitale interazione dialettica: molteplicità e unità, coesione del sé e mutamento si articolano in modi complessi e, come afferma Mitchell:

Le rappresentazioni del sé come multiplo e discontinuo e del sé come unico, continuo e separabile sembrano in contrasto, reciprocamente escludentesi. Non è così. Le persone agiscono sia in modo discontinuo sia in modo continuo; organizzano la propria esperienza in configurazioni sia molteplici sia uniche. ”(Mitchell 1995, p.127)

Inoltre, permanendo nella metafora di Bromberg, il fatto di “stare tra” ci presenta un sé internamente discontinuo: esistono scarti, incongruenze, increspature dell’esperienza soggettiva che costituiscono il semplice e naturale fluire dell’esperienza, e che possono esporre al rischio di perdersi o mettere a repentaglio la coerenza del sé. E’ possibile abitare l’inquietudine del discontinuo senza sentire di smarrire la strada solo se si ha fiducia che, nel momento in cui tale discontinuità verrà attraversata, sarà possibile restare sempre gli stessi nonostante il cambiamento (Bromberg, 2007); che, in altri termini, essa non aprirà un varco troppo profondo nell’esperienza di esser sé stessi dal quale potrebbe essere poi difficile riemergere.

Semplificando all’estremo potremmo immaginare la vita psichica dipanarsi tra due polarità: ad una di esse troviamo rigidità, impermeabilità, congelarsi dell’esperienza, dissociazione tra aree del sé che non comunicano tra loro e si disconoscono a vicenda; all’altra flessibilità, fluidità, permeabilità, attraversamento: ciò che conta o, che si potrebbe dire, fa la differenza, è la libertà con cui si accolgono differenti stati dell’esser se stessi e modalità di essere con l’altro:

Siamo tutti individui che tentano di “creare ponti” in un interiorità divisa. In questo caso il modello binario non si può applicare. La realtà psichica non è un isola solitaria di soggettività separata dalla terra ferma della realtà oggettiva. Piuttosto la realtà psichica esiste come possibilità di “gettare ponti” tra isole separate di soggettività, un infinito lavoro di ricomposizione che unisce tra loro isole di affetto, memoria, desiderio, introiezioni, rappresentazioni, parola, metafora, stato d’animo, immaginazione e visione che costituiscono i componenti multipli dell’esperienza di sé.”(Pizer, 2014, p. 52)

La vita soggettiva si costituisce mediante questo processo mai compiuto e sempre attivo di connessione, ricomposizione, movimento verso e movimento da per il quale l’autore usa il significativo termine bridging process (1), che è un peccato dover tradurre, dal momento che offre un’immagine potente di una tessitura in costante divenire e del laborioso sforzo di costruire legami tra elementi soggettivi distinti e talvolta lontani- rappresentazioni interne, pensieri, credenze, emozioni, parole, simboli.

Le risorse più potenti del sé sono da reperire in questa creatività vitale che, seppur quotidiana, non è molto diversa da quella di un poeta o di un artista e anzi chiama alla stessa sfida: sapersi immergere nel molteplice, abitarne i paradossi, vivere il potere delle contraddizioni anche qualora coinvolgano la percezione di chi si è e di chi si possa diventare senza perdere la capacità di negoziazione indispensabile per mantenere legami flessibili tra diverse aree della propria esperienza.

Il sé, inteso allora come configurazione di stati multipli in continuo cambiamento, flessibile e robusto al tempo stesso, non si trova a confronto soltanto col discontinuo, ma con la più difficile dimensione del paradosso.

La mente che tentiamo di descrivere è chiamata a scendere a patti con gli aspetti paradossali dell’esperienza: il paradosso, quando non sia considerato soltanto un problema di logica ma a tutti gli effetti una questione psichica, è la sfida per eccellenza alla possibilità della mente di rimanere coerente a se stessa, è una provocazione che può essere estenuante, uno scandalo della ragione, e insieme il modo con cui la mente si affaccia oltre sé stessa sostenendo la sua composita natura.

2 – Le identità molteplici

La piramide di Maslow

Nel 1954, lo psicologo statunitense Abraham Maslow pubblicò “Motivazione e personalità”, in cui espose la teoria di una gerarchia di motivazioni che muove dalle più basse (originate da bisogni primari – fisiologici) a le più alte (volte alla piena realizzazione del potenziale umano – autorealizzazione). All’interno di questo schema, che assumeremo solo come cornice, vorrei focalizzarmi sul bisogno intermedio di appartenenza ad un gruppo sociale che è, a mio parere, quello che porta gli individui a scegliere le proprie identità prevalenti per essere riconosciuti come (stimati) appartenenti alla famiglia, al gruppo di amici, alla comunità locale o ideale. Le identità, come il pensiero e il linguaggio sono sempre sociali, prevalenti nella relazione (Lingiardi 2019) e rese pubbliche e coscienti solo se adeguate al contesto.

Il sè molteplice si destreggia fra molteplici bisogni e desideri, alcuni coerenti con le proprie identità pubbliche, altri meno o per nulla, cercando di integrarli. Tuttavia quei nuclei pulsionali della personalità che rimangono inespressi, non scelti, negati, permangono comunque nell’inconscio come forze vive.

Ogni gruppo sociale assegna ad alcune identità (politiche, di genere, religiose, culturali) dei valori e dei disvalori o delle particolari forme di rappresentazione di quei valori. La semplificazione rigida di queste identità viene facilitata da un lungo percorso storico di modellizzazione dei comportamenti per i gruppi sociali, tesa ad “educare” gli individui all’adesione al modello socialmente più diffuso e accettabile.

Nella nostra società globalizzata ci sono tante piccole motivazioni (desideri o bisogni) che ci collocano in una frazione specifica di società (identità o profilo psicosociale) per adesione o per contrasto. I vari modi in cui seguiamo o ci opponiamo a questi desideri, ci collocano fra diverse appartenenze, tra le quali cerchiamo di trovare una coerenza tanto più la loro contraddittorietà ci spaventa.

3 – La relazione tra pari – identificazione

In adolescenza é fisiologico costruire la propria identità per opposizione, distaccandosi dalla fusionalità con il gruppo familiare. Di fronte agli stimoli del mondo esterno di solito si razionalizzano le proprie pulsioni nella forma: questo mi piace, questo non mi piace. Non ci si interroga se la reazione a questi stimoli venga da una precedente educazione a riconoscere ciò che “risuona” con il proprio ambiente di formazione. Ci piace il Metal o ci piace la Trap. Ammiriamo i fondatori di aziende di successo o i black block, la vita dei reali o le comuni autosufficienti, i calciatori o gli atleti paralimpici.

Il gruppo dei pari in adolescenza:

  1. Aiuta a costruire e definire la personalità e il nuovo ruolo sessuale.
  2.  Sostiene il processo di separazione fornendo sicurezza emotiva, sostegno all’autostima (rappresentando un luogo di reputazione sociale).
  3. Aiuta a sviluppare abilità sociali e affettivo cognitive tra cui competenza riflessiva, perché favorisce la conoscenza degli stati emotivi appropriati ai ruoli.
  4. Aiuta a sviluppare l’empatia, il senso di autonomia e controllo. (Maggiolini – Pietropolli Charmet 2008)

Ma l’adolescenza, con le sue insicurezze, dovrebbe essere una fase temporanea. Identificati i nuclei prevalenti della propria personalità, del proprio sè molteplice, può avere inizio il processo di integrazione degli altri nuclei, quelli messi da parte, anche se comunque presenti. L’equilibrio psichico, necessario al benessere futuro, lo richiede. Se alcune parti del nostro sè vengono rifiutate, isolate e proiettare al di fuori come esempio di ciò che è “cattivo”, assistiamo a quei meccanismi di scissione e identificazione proiettiva che danno vita alle sindromi da nemico interno, hate speech, settarismo, eterne conflittualità che contraddistinguono i piccoli gruppi.

Il perdurare nell’età adulta di forme rigide di appartenenza identitaria (gruppo omogeneo adolescenziale o banda) denotano una mancata evoluzione della personalità verso quella integrazione dei molteplici e contraddittori aspetti dell’Io (Benasayag – Del Rey 2008, p. 81).

C’é chi ha parlato di adultescenza (Ammaniti 2018) riferendosi a quelle persone che permangono nella condizione adolescenziale anche per tutta la vita, non riuscendo mai ad uscire dal riferimento a un sé rivendicativo, dalla ricerca di apprezzamenti, dalla semplificazione amico-nemico, dalla costituzione mediante opposizione (anti-qualcosa o no-qualcosa), ignorando i bisogni altrui, che siano dei prossimi, dei futuri o della società nel suo complesso. A questo contribuisce ciò che viene definito da M. Castells individualismo in rete.

Il ruolo più importante di Internet nella strutturazione delle relazioni sociali è il suo contributo al nuovo modello di socialità basato sul’individualismo. (…) Così non è Internet a creare un modello di individualismo in rete, ma è lo sviluppo di Internet a fornire un supporto materiale adeguato per la diffusione dell’individualismo come forma dominante di socialità. (…) L’individualismo in rete è un modello sociale, non una raccolta di individui isolati. (Castells 2002, p. 129 )

4 – Identità Vs Libertà

I meccanismi di scissione e identificazione proiettiva affondano le radici nella nascita della coscienza, nel pensiero magico e rituale, sono meccanismi di difesa fondamentali. Non sono certo dei fenomeni della modernità. Solo recentemente, dall’ultimo dopoguerra, sono stati studiati e applicati metodologicamente nella propaganda e nel marketing “capace di sfruttare sistematicamente la pulsione” (Stiegler 2019, p.63). Da quando la democrazia coinvolge le masse, la corsa ad accaparrarsi le identità più diffuse e la difesa dei bisogni alla base della piramide è iniziata, fascismo e nazismo ne hanno abusato. In un mondo percepito come pericoloso, il bisogno di sicurezza, economica e personale, sarà sempre preferito rispetto al superamento dei pregiudizi e all’autorealizzazione.

Fra le motivazioni interne classificate da Maslow, la forma decrescente indica che le persone adottano dei comportamenti più perché vi sono obbligate dalla paura di una sanzione (base della piramide), piuttosto che sentendone autonomamente la motivazione prosociale (vertice della piramide).

Rendersi consapevoli dei bisogni altrui e della intera società è una evoluzione notevole nello sviluppo dell’individuo e una necessaria integrazione dei bisogni individuali con quelli sociali che rappresenta la direzione verso il vertice della piramide. Fare di questi ultimi un movente autonomo risulta spesso una caratteristica personale eccezionale, infatti rispettare leggi e norme in assenza di controlli e sanzioni viene considerato spesso un comportamento “strano”. Eppure

“la tecnica di potere del regime neoliberale ha una forma subdola. Non si impadronisce direttamente dell’individuo: piuttosto si preoccupa che l’individuo agisca in autonomia su se stesso così da riprodurre in sé il rapporto di dominio e, di conseguenza, da interpretarlo come libertà.” (Han 2014, p. 26)

L’appartenenza ad un gruppo in un certo senso “obbliga” al rispetto delle regole della comunità a cui si vuole appartenere, senza bisogno che vi siano controlli o sanzioni. Più questa appartenenza è ampia e aperta, universale, più in questi doveri (il rispetto delle regole implicite) rientra la tutela di aspetti dell’umanità che prima ne erano esclusi. La libertà potrebbe essere la misura dell’ampiezza di questo senso di appartenenza.

La discrepanza tra il senso di appartenenza alla comunità politica istituzionale, le cui regole sono le leggi, e le varie comunità sociali concentriche, via via più particolari fino ad arrivare alla famiglia e all’individuo, ci portano ancora oggi a vedere come un obiettivo non raggiunto di civiltà il rispetto dell’essere umano, il senso civico, il contributo alle spese pubbliche, la tutela della natura e del paesaggio.

Questa appartenenza più ampia, universale, non é affatto naturale come si enunciò alla fine del ‘700 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. E’ l’obiettivo ancora non raggiunto di una ideale “comunità umana” universale astratta, molto lontana dall’essere vissuta come effettiva appartenenza (Benasayag – Del Rey 2008, p. 144).

Di contro, infatti, nella pratica, le varie identità particolari rivendicano il loro riconoscimento, e la loro rappresentanza, le une contro le altre. L’universalismo dei diritti umani e il particolarismo della rappresentazione degli interessi in conflitto fra le parti sociali (divise per razza, censo, sesso, pensiero politico), costituiscono la normale dinamica dei rapporti nelle democrazie liberali, considerate “libere” proprio perché garantiscono l’espressione e la rappresentanza delle minoranze.

Proprio in nome della molteplicità del sé e delle identità compresenti, non si tratta di ordinare gerarchicamente le identità esistenti in una lotta di potere fuori e “dentro” l’individuo, ma di evolvere le attuali identità in forme nuove, integrate e pur sempre molteplici. La capacità di evolvere le proprie strutture interne è un meccanismo adattivo evoluto, necessita sicurezza, intelligenza e supporto del gruppo sociale.

5 – La militanza nel disagio

Il militante, termine che deriva da milizia, esercito, è un individuo che si mette a disposizione di una organizzazione con fini ideali in cui crede fermamente e per cui vuole lottare. Ad un grado più basso del sacrificio di sé troviamo l’attivista, persona anche non affiliata ad un gruppo organizzato, che si impegna volontariamente per l’affermazione di alcuni valori.

Sia il militante che l’attivista hanno dei bisogni che vanno dal riconoscimento da parte del gruppo, alla autorealizzazione, a una moralità condivisa e talvolta (Nagel 2017) al superamento dei pregiudizi, al rispetto reciproco, all’accettazione dell’altro.

A differenza delle persone disimpegnate, che possono avere delle opinioni anche definite e radicali che però non conducono ad una attiva partecipazione alla dialettica e allo scontro politico o sociale, militanti e attivisti vivono con tale forza i propri bisogni da dedicargli parte del proprio tempo o addirittura tutta la vita.

Non è certo mia intenzione sminuire il contributo che queste persone danno o a volte ritengono di dare allo sviluppo della comunità umana, quanto cercare, fra le motivazioni che le spingono a questa scelta di vita, di considerare anche quegli aspetti di mancata integrazione fra le varie componenti del sé.

Contro cosa lotta l’attivista o il militante? L’ipotesi é che sovente lotti contro una parte di sè che non accetta e che proietta al di fuori, che lotti contro propri fantasmi interni. Il bene che lotta contro il male. Mentre male e bene potrebbero essere dei nomi che diamo a parti non integrate del nostro stesso io plurale e molteplice.

Spesso la descrizione del nemico, dell’antagonista nei vari movimenti sociali o organizzazioni politiche, siano di destra, di sinistra, rivendicativi, ecologisti o tradizionalisti, è accomunata da tratti di dissociazione (2) e di proiezione. Il nemico è sempre vago, è un concetto ideale, di cui le persone sono delle espressioni imperfette. La connotazione del nemico comprende la causa semplificata del male nel mondo: capitalismo, comunismo, patriarcato, femminismo, mondialismo, razzismo, inquinamento o riscaldamento globale, religione, materialismo. Eliminata questa causa globale di pericolo e sofferenza potrà affermarsi la società giusta. L’importante è che questo aspetto “nemico” non mi appartenga e se mi appartiene sia ben nascosto, negato o rimosso fino a scomparire.

6 – Combattere il nemico interno

Soprattutto sui social network, possibilmente senza moderazione e censura, ben nascosti dalla coerenza del profilo e dietro uno schermo, neoreazionari o sacerdoti etici della purezza attaccano individualmente ogni comportamento considerato non conforme, ogni parola “sbagliata” considerata al di fuori del linguaggio accettato nella comunità identitaria. Queste formazioni libidinali ripartite fra una galassia di destra alt-right o neofascista, che combatte strenuamente il politicamente corretto, gli immigrati, le donne e tutte le differenze sessuali, razziali o culturali e, specularmente, i “bulli piangenti”(3) della estrema sinistra, non più di classe, che conducono cacce alle streghe contro presunti razzisti, omofobi, sessisti, fascisti e servi del capitale annidati nel loro stesso ambiente sociale (piccolo borghese) e politico (sinistra), esprimono il desiderio malcelato di espellere dalla società chi vive o pensa diversamente, chi ha altre opinioni o semplicemente un linguaggio differente.

Spostando la lotta politica organizzata, ridotta a impotenza dalla frammentazione identitaria e dal distacco dalla realtà (4), sul piano dell’individuo e della vita privata, i militanti e gli attivisti digitali possono lottare “efficacemente” contro dei loro simili leggermente diversi, o molto diversi, se riescono a sfondare per pochi minuti le pareti di qualche bolla delle echo chambers confermative (Quattrociocchi – Vicini 2018). Fuori dal web questi comportamenti sfociano in brevi attacchi, verbali o fisici, contro il “nemico” riconosciuto e nell’incapacità di mediazione con la “diversità” anche nello stesso gruppo di appartenenza.

I portatori del “male” (deviazione dalla presunta normale “natura” umana) sono fuori di me, sono “gli altri”, moralmente irresponsabili o indegni, che vanno combattuti continuamente ma con nessuna possibilità di essere del tutto vinti. Questo bisogno inespresso di integrazione rimarrà insoddisfatto, a giustificare, con il proprio sacrificio, il malessere di vivere, la mancata soddisfazione dei bisogni e dei desideri, come “diritto al desiderio di rivoluzione“.

J.F. Lyortard, a proposito della perenne incompiutezza de Il Capitale di Marx, scrive:

Se noi ci limitiamo a una critica (che si vuole non-critica, certo) della colpevolezza o del risentimento presenti nel concatenamento del desiderio chiamato Marx e chiamato in generale militante*, restiamo di fatto dentro la metafora religiosa, sostituiamo semplicemente la metafora religiosa con una metafora irreligiosa, quindi sempre religiosa, nella quale si ritrovano all’opera i giudizi secondo il bene e il male in riferimento a un nuovo dio, che sarà il desiderio; buono sarà il movimento, cattivo l’investimento; buona l’azione in quanto innovazione, potenza di avvenimento, cattiva la reazione reiterante l’identità. Come descriveremo allora il dispositivo libidinale Marx o militante? Vi vedremo la passione di far espiare e il risentimento. (Lyotard 2012, p.115)

Lo stesso Lyotard non si piega ad una simile critica della teoria di Marx, accusandolo quindi di essere ancora alienato, simbolico (Baudrillard), religioso (lui stesso), economista (Castoriadis), supponendo così di aver superato, come osservatore, quella condizione in modo dialettico. Vuole dimostrare invece che anche “l’economia politica è una economia libidinale.”(Lyotard 2012, p.119) In questo vorrei esprimere la mia convergenza affermando, più semplicemente, che il politico é personale almeno quanto il personale è politico.

7 – Relazioni fra i gruppi

La condizione per cui le motivazioni interne, i bisogni, spesso inconsci, ci spingono verso posizioni identitarie e azioni conseguenti, non toglie peso e responsabilità a queste scelte ma ci obbliga, nel momento in cui ne acquisiamo consapevolezza, a valutarle alla luce di questo nuovo punto di vista. Riconoscere che quel nemico esterno é la proiezione di un nostro fantasma interno, sedimentato e nascosto da relazioni familiari, gruppali, culturali che abbiamo interiorizzato, ci permette di contestualizzarlo, definirlo e in qualche modo integrarlo, fosse pure per rifiutarlo. Ma rifiutandolo come parte di noi stessi, non come una forza incontrollabile esterna, mostruosa e invincibile, lo riconnettiamo alle nostre esperienze vissute, alla nostra natura sociale, riconfigurando fluidamente la nostra identità.

Al gruppo di tutti i terrorizzati da “quel nemico comune” (Remotti 2010), cristallizzati in cerca di un salvatore messianico o di un padre-madre-supertata marxista protettiva (Fisher 2018, p. 136), possiamo preferire il gruppo di coloro che si rendono conto della propria insoddisfazione e collaborano reciprocamente per poterla risolvere. Da una identità resistente anti-qualcosa, si transita verso una identità evolutiva per-qualcosa. Muovere dalla ricerca del gruppo dei buoni verso la collaborazione nel gruppo dove esiste qualcosa di buono, ovvero il molteplice, ci permette di fare il salto nell’età adulta.

Note

(1) L’autore usa il verbo to bridge che in inglese ha un’immediatezza difficile da rendere in lingua italiana. Questo atto è d’altronde l’essenza della proposta di Pizer, per il quale l’attività per eccellenza della mente è appunto quella di creare ponti che connettono aree potenzialmente e talvolta effettivamente dissociate: egli utilizza questo verbo moltissime volte e sostiene inoltre che le esperienze mentali naturalmente (e non patologicamente) dissociate abbiano la caratteristica fondamentale di essere sempre bridgeable, naturalmente connettibili al resto della mente, mentre la dissociazione più rigida e pervasiva rende alcune parti di sé inaccessibili e non negoziabili, in ultima istanza esperienze “non me”. (Pizer 2014, p. 52)

(2) L’iperattivazione disorganizzante minaccia la continuta’ del senso del Sé. L’uso della dissociazione si associa a una compromissione della competenza dell’emisfero destro a elaborare le emozioni particolarmente quelle a forte valenza negativa. Si tratta di un pervasivo disimpegno dell’attenzione dal mondo esterno ed interno. La dissociazione svuota l’esperienza relazionale del contenuto emotivo prosciugandola e comporta una disconessione mente-corpo producendo un collasso della dimensione soggettiva e intersoggettiva. La dissociazione impedisce esperienze evolutive e determina un funzionamento difensivo/reattivo volto ad evitare la catastrofe psichica attraverso il distanziamento” (M. Enderle, L’approccio interpersonale/relazionale di P. Bromberg: trauma, dissociazione e uso dell’enactment*, 2013 http://www.marianoenderle.it/lapproccio-interpersonalerelazionale-di-p-bromberg-trauma-dissociazione-e-uso-dellenactment/2013/08/20/

(3) “..un desiderio di scomunica, annichilimento e censura mutuato direttamente dall’immaginario repressivo di stampo borghese e clericale, che storicamente non aveva mai trovato spazio nelle narrazioni sviluppatesi a sinistra. In poche parole, uno stato di confusione e di isteria collettiva, colpevole di aver permesso negli ultimi anni alla nevrosi di sostituirsi alla politica … ” T. Cancelli, Il Tascabile, 15-1-2019 https://www.iltascabile.com/recensioni/contro-vostra-realta-angela-nagle/

(4) “.. But, rather than seeking a world in which everyone achieves freedom from identitarian classification, the Vampires’ Castle seeks to corral people back into identi-camps, where they are forever defined in the terms set by dominant power, crippled by self-consciousness and isolated by a logic of solipsism which insists that we cannot understand one another unless we belong to the same identity group…” M. Fisher, Exiting the Vampire Castle, Open Democracy, 24-11-2013 https://www.opendemocracy.net/en/opendemocracyuk/exiting-vampire-castle/

Bibliografia

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K. A. Appiah, La menzogna dell’identità, Feltrinelli, 2019.

M. Benasayag – A. Del Rey, Elogio del conflitto, Feltrinelli, 2008.

F. Berardi, Futurabilità, Nero, 2018.

M. Castells, Galassia internet, Feltrinelli, 2002.

P. M. Bromberg, Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces, Raffaello Cortina, 2007

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M. Fisher, Il nostro desiderio è senza nome, MinimumFax, 2020.

B.C. Han, Psicopolitica, Nottetempo , 2014.

V. Lingiardi, Io, tu, noi, Utet, 2019.

J.F. Lyotard, Economia libidinale, Pgreco, 2012.

A. Maggiolini – G. Pietropolli Charmet, Manuale di psicologia dell’adolescenza: compiti e conflitti, FrancoAngeli, 2008.

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A. Nagle, Contro la vostra realtà, Luiss, 2017.

S. Pizer, Building Bridges: The Negotiation of Paradox in Psychoanalysis, Analytics Press, 1998.

W. Quattrociocchi – A. Vicini, Liberi di crederci. Informazione, internet e post-verità, Codice, 2018

F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, 2010.

B. Stiegler, La società automatica, Meltemi, 2019.