Principi di individuazione ecologica.

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di A. Cava

La filosofia dell’ecologia e, nello specifico, lo studio del rapporto tra ambiente e organismo, possono essere teorie dei sistemi. Buona parte della costituzione di queste teorie sembra dipendere, più o meno implicitamente, nel modo di definire l’insieme di relazioni che compongono un preciso spaccato ontogenetico, cioè nel valorizzarne o disconoscerne la dimensione sistemica, nel sottolinearne o meno la stabilità e l’equilibrio, l’apertura o la chiusura. Analizzeremo quindi due modalità diverse di configurare i sistemi e di comprenderne l’equilibrio. Sistemi autopoietici o simpoietici, equilibrio omeostatico e trasduttivo: teoria della stabilità tra identici o tropismi di discontinuità tra dispari.

1 Simpoiesi e trasformazione

La prima formulazione organica della sistematica la dobbiamo a Ludwig von Bertalanffy che nel 1968 propone una teoria generale dei sistemi. Un primo aspetto interessante è che questa teoria si presenta da subito come una forma di irriduzionismo. L’isomorfismo degli eventi materiali osservabili e i differenti livelli e domini in cui questi si sviluppano, obbligano a invertire il processo scientifico: non è possibile adeguare tutta la realtà biologica, sociale, comportamentale alle leggi e ai costrutti della fisica, ma semmai bisogna procedere al contrario, trovando delle leggi contestualizzate ai livelli applicati. Von Bertalanffy pur muovendosi ancora nel solco del naturalismo e meccanicismo, cerca di intendere il mondo come “una grande organizzazione” e – ed è questo l’aspetto più interessante – ogni parte del mondo come organizzata e interrelata. L’ammissione di complessità della realtà empirica corrisponde a una semplificazione generale della comprensione umana: analizzare la realtà a partire dalla tendenza a costituirsi a sistema. In questo caso un sistema è sostanzialmente dato e mantenuto dall’interazione dei suoi elementi, cioè si da un sistema quando un insieme di elementi si influenza l’un l’altro.

L’approccio sistemico ha ampiamente influenzato le più disparate discipline, sia nella sua declinazione totalizzante che in quella ecologica (si pensi per esempio alla definizione di un ecosistema come rete complessa di relazioni inestricabili tra organismo e ambiente). Come ha sottolineato da Dempster (1998) la definizione di sistema varia a seconda che si enfatizzino i suoi confini esterni o le sue connessioni esterne. I sistemi chiusi da barriere impenetrabili o come totalità di oggetti connessi garantisce una definizione stabile del sistema che si analizza. Se invece ci si focalizza sulle relazioni e i comportamenti degli elementi tra loro il principio di connessione è distinguibile ma variabile. Dempster fa l’esempio di tre palle connesse da dei segmenti: disposte a mo’ di triangolo il sistema è abbastanza stabile e qualsiasi elemento nuovo dovrà modificare gli stessi confini del sistema; connesse come un pendolo gli stessi componenti con diverse relazioni avranno un comportamento indeterminabile. Per questo l’autore preferisce definire il sistema come un insieme di relazioni che descrivono un qualche tipo di associazione. Di conseguenza, uno studio dei sistemi (o delle associazioni) si chiederà: come sono stabilite le relazioni? Che cosa creano i pattern di questo particolare sistema? Sono indicate due modalità di auto-organizzazione dei sistemi: l’autopoiesi e la simpoiesi.

Nei loro studi, Maturana e Varela (2012) – come von Bertalanffly – si propongono di comprendere l’organizzazione del vivente a partire dal suo carattere unitario e si concentrano su quella che definiscono, coniando dal greco un neologismo, autopoiesi: la capacità dirimente di un sistema vivente, cioè la sua capacità di auto-produzione. Dato un particolare utilizzo dell’energia da parte di sistemi base (per esempio un gruppo di molecole complesse) per disporre la materia fisica in composizioni particolari, si definisce autopoiesi la capacità di queste composizioni di produrre ciò che è necessario per la propria continuazione. Sono le interazioni del sistema a formare i propri confini e non forze esterne. Le interazioni di questo sistema dinamico rigenerano ricorsivamente le stesse composizioni che l’hanno prodotto: questa rete di relazioni è un’unità che ha le proprie “interazioni preferenziali” all’interno dei propri stessi confini. Un’unità composita ed autoequilibrata. In sintesi, un sistema autopoietico ha: die confini determinabili, delle componenti unitarie che si alimentano e interfacciano tra loro, tutti prodotti da componenti interni allo stesso sistema. Questi sistemi si definiscono in base alla loro organizzazione – cioè ai rapporti tra i suoi componenti specifici –; la struttura (cioè le relazioni attuali e i componenti che costituiscono quel sistema in un dominio specifico); poiesi, cioè la capacità di continuare a produrre relazioni, cioè ricorsivamente l’organizzazione produce una struttura che riproduce un nuovo pattern di organizzazione e così via. Tutte le relazioni strutturali di un sistema determinano le risposte a perturbazioni e inneschi dell’ambiente esterno, che nel caso dei sistemi autopoietici interviene solo sulla struttura e non sull’organizzazione né sul ciclo di autoproduzione.

La relazione è l’essenza della sintesi” (Beer in Maturana e Varela 2012, p.63): il dominio chiuso di relazioni del sistema autopoietico definisce uno spazio nel quale può realizzarsi concretamente un sistema, “uno spazio le cui dimensioni sono i rapporti di produzione dei componenti che lo realizzano” (ibidem, p.88).

Relazioni di costituzione che producono la topologia in cui l’autopoiesi si realizza; relazioni di specificità, definita in base alla partecipazione delle componenti nell’autopoiesi; relazioni di ordine che determinano la concatenazione dei componenti all’interno della relazione. Questo spazio è auto-contenuto, cioè non è descrivibile usando metriche di altri sistemi. Allo stesso modo le relazioni che lo compongono e l’ordine che instaurano non hanno senso al di fuori del contesto che le definisce. In realtà questo tipo di relazioni non è specifico dei sistemi autopoietici ma riguarda la topologia dei sistemi cellulari (ma anche meccanici) in generale: l’autopoiesi emerge solo quando “la relazione che concatena queste relazioni è prodotta e mantenuta costante attraverso la produzioni di componenti molecolari che costituiscono il sistema attraverso la concatenazione stessa (ibid. p.93). Unità, permanenza e stabilità omeostatica definiscono il sistema autopoietico.

Abbiamo visto che l’attività poietica si distingue in organizzazione e struttura. L’autopoiesi è un ciclo produttivo in cui l’organizzazione si conserva e autoalimenta, producendo una struttura diversa che afferisce sempre alla stessa organizzazione. L’insieme virtuale di tutte le possibili relazioni di un organismo, al loro ogni momento, viene poi selezionato in base ai diversi ambienti: è questo “l’accoppiamento strutturale”, cioè l’incontro delle diverse possibilità autorganizzative con le perturbazioni ambientali. Per un sistema autopoietico, o i cambiamenti strutturali dovute al contatto con l’esterno ristabiliscono l’equilibrio che ha prodotto la struttura iniziale oppure semplicemente il sistema viene distrutto. L’organizzazione è così una sorta di campo trascendentale fisso che impedisce di assumere nuove condizioni vitali, cioè impedisce la produzioni di novità e di equilibri nuovi. Se l’organizzazione cambia, l’autopoiesi si annulla: per questo la prima è assunta come un invariante e come condizione delle strutture (forme attuali). I sistemi autopoietici sono unità autonome, che autodeterminano i propri confini spazio-temporali e tendono alla centralizzazione del controllo, alla creazione di una condizione stabile e alla prevedibile, orientata alla crescita e allo sviluppo più che all’evoluzione. La separazione del livello organizzativo dei sistemi autopoietici non vuol dire che sono completamente indipendenti da essi, ma sono semplicemente autogovernati. La trattazione sull’autopoiesi non esaurisce affatto i modi di esistenza e organizzazione dei sistemi viventi complessi, la cui gran parte è piuttosto caratterizzata da confini confusi e opachi.

Un altro caso di sistema poietico è infatti quello simpoietico, che si trova non in opposizione, bensì come scrive Haraway, in un rapporto di “frizione generativa” rispetto all’autopoiesi, che viene avvolta ed estesa da questa diversa sistematica. Simpoietici sono “i sistemi che producono in maniera collettiva, che non hanno confini spaziali o temporali definiti dal loro interno. L’informazione e il controllo sono distribuiti tra tutti i componenti. Questi sistemi sono evolutivi e possono generare cambiamenti sorprendenti” (Haraway 2019, p.55).

Simpoiesi significa “con-fare”, e quest’attività di produzione è caratterizzata da qualità amorfe e cooperazione. La differenza fondamentale sta nel fatto che questo concetto enfatizza i collegamenti e il comportamento sinergico: piuttosto che la produzione di confini, sono le continue relazioni complesse tra i componenti a definire questi sistemi. Un sistema autopoietico può definire sia ciò che è più piccolo che quel che è più grande della sua totalità in base a una propria scala di osservazione, legata ai confini spaziali che si dà da sé e per i quali il più piccolo sarà per forza una parte di quell’intero, mentre ciò che lo travalica è il suo ambiente.

I sistemi simpoietici dipendono dalle informazioni contenute dai loro componenti, ma sono in grado di rimanere aperti per accogliere nuove informazioni organizzative, incorporando sistemi complessi. Questa differenza nel modo di svilupparsi, come sottolinea Dempster (illustrandolo anche in nell’immagine qui di fianco), è una differenza di traiettorie temporali: un sistema autopoietico segue un percorso di crescita dal livello meno sviluppato a uno avanzato; mentre i sistemi simpoietici sono continuamente in cambiamento, divenire che rende inutile stabilire un avanzamento lineare e progressivo. Così l’evoluzione dei sistemi simpoietici è incerta e aperta agli imprevisti, rischiando di cambiare sorprendentemente o di ospitare pattern contraddittori, dovuti anche all’eterogeneità degli attori coinvolti nella inter- azione di questi sistemi. Non a caso gli esempi di questi orientamenti inediti sono casi di foreste miste ricche di biodiversità o catastrofi socio-ecologiche come il “Dust Bowl”9, l’apparizione di specie infestanti dopo il taglio netto di una foresta, così come la moltiplicazione del potenziale virale dopo l’inserimento di monoculture e allevamenti intensivi: tutti casi in cui il cortocircuitare di più sistemi, più modi di esistenza o forme di vita che dir si voglia, entrano in contatto e ridisegnano in modo ibrido, e anche dolente delle volte, i molteplici percorsi che questi incontri stessi determinano. È principalmente per questo che Haraway usa la simpoiesi come una sorta di standpoint, a indicare “sistemi storici complessi, dinamici, reattivi, situati” e riabilitare la porosità e l’apertura dei mondi danneggiati. Pensandoli come simpoietici, si supera l’idea di organismi ambientalmente indipendenti, cercando delle relazioni più complesse e contestualizzate, una maggiore vivacità nei nessi causa-effetto, dei modi di stare insieme dei terrestri che renda conto della molteplicità e del valore di ogni corpo coinvolto. Come nella convergenza di significazione e spazializzazione proposta da Whitehead, anche la simpoiesi è una prospettiva secondo la quale “le creature non precedono le loro relazioni, si creano a vicenda attraverso il coinvolgimento matererial- semiotico”. La simpoiesi quindi afferisce a un diverso modo di pensare il mondo, non come un complesso di sistemi che si compenetrano e si influenzano, in cui i viventi, le cellule, gli organismi, gli assemblaggi ecologici, si mangiano, digeriscono, respingono. Questi sistemi non è un’unità né un individuo, ma un olobionte, cioè un un essere intero costituito attraverso nodi politemporali e polispaziali, il cui intreccio è contingente e dinamico e sempre aperto al confronto e contaminazione con altri in schemi complessi. La relazione precede le sostanze, che sarebbero solo effetti precari e sempre in decomposizione e composizione in nuove relazioni. I sistemi simpoietici sono olobionti, al centro dell’olobionte c’è la simbiosi, “il sistema in cui membri di specie diverse vivono in contatto fisico” (Margulis 2020, p.1). Una relazione simbiotica non è caratterizzata semplicemente dallo stare insieme, ma da un coinvolgimento inclusivo nei rispettivi cicli di vita, cioè nei cicli riproduttivi, metabolici o trofici (Peacock 2011). Questo tipo di relazione accade in maniera regolare e non solo occasionale, così gli olobionti sono composti da simbionti a contatto tra loro – ma non necessariamente, perché anche la nozione di contatto dipende dalla scala e dal sistema di cui si sta parlando. Ciò che conta è che questa relazione tra i simbionti sia causale ed è per questo che Haraway parla di politempi e polispazi: perché si tratta anzitutto poliritmi, i cui pattern si possono sviluppare in maniera anche indiretta: è questo il caso dei cicli di vita di alcune prede e predatori (per esempio le balene e i banchi di krill). Ma oltre l’ipotesi più utilitarista, la simbiosi è intesa, sulla scorta di Margulis, non come un unione di due sostanze indipendenti a vantaggio reciproco, ma come un’attività continua di costruzione di nuove relazioni, cioè come simbiogenesi. È la fusione dei genomi che si realizzano nella simbiosi a determinare l’evoluzione e non le entità a sé stanti. La simbiogenesi è l’organizzazione dinamica di esseri viventi complessi e riguarda principalmente la produzione di novità, l’apparire di nuove specie. Tecnicamente “si riferisce all’origine di nuovi tessuti, organi, organismi – anche specie – mediante l’istituzione di simbiosi a lungo termine o permanente” (ivi). È il processo per cui due o più specie distinte forma un’associazione mutualistica, amplificata dalla selezione naturale in modo tale da definire una nuova specie. Cioè che non rende questo sistema un meccanismo di autoregolazione fisso è proprio la sua apertura, cioè il fatto che la regolazione della vita (che Margulis e Lovelock estendono su scala planetaria-molecolare a tutta “Gaia”) sia prima di tutto permeabilità e trasformazione. Così uno stesso organismo può essere predatore o parassita (la stessa predazione può essere pensata come una forta di parassitismo in cui l’ospite viene consumato tutto in una volta) in un ambiente, ma mutualista in un altro: il grado di tollerabilità utilitaristica di questi passaggi è direttamente proporzionale alla grandezza dell’ecosistema, cioè se si considera un quadro abbastanza ampio da superare gli effetti deleteri.

Tra i tanti esempi scientifici offerti da Margulis ne riportiamo solo uno molto semplice: “Anche una bevanda nutriente chiamata kefir e consumata tra le montagne del Caucaso è un complesso simbiotico. Il Kefir contiene cagliata granulosa che i georgiani chiamano “miglio di Maometto”. La cagliata è un pacchetto integrato di più di venticinque diversi tipi di lievito e batteri. Milioni di individui costituiscono ogni cagliata. Da simili corpi interattivi di organismi fusi a volte emergono nuovi esseri. La tendenza della vita “indipendente” è quella di legarsi insieme e riemergere in una nuova totalità a un livello di organizzazione più alto e più ampio. Sospetto che il prossimo futuro dell’Homo sapiens come specie richieda il nostro ri-orientamento verso le fusioni e le commistioni con i compagni di pianeta che ci hanno preceduto nel microcosmo.”

2 Nota sull’equilibrio

Per comprendere meglio la differenza tra i sistemi autopoietici e quelli simpoietici approfondiamo in breve i diversi equilibri che stabiliscono. Se l’equilibrio è comunemente definito come uno stato di quiete di un corpo, causato da un azione uguale di due forse opposte, il valore dipende direttamente dai parametri con cui si definisce il riposo. Come stabilità tra forze (meccanica), come uniformità indipendente dal contesto (termodinamica) o come morte (biologia), il senso di uno stato d’equilibrio cambia radicalmente ed è anche il motivo per cui è stata parallelamente fatta valore la nozione di non-equilibrio. Beth Dempster propone un cambiamento di approccio alla questione dell’equilibrio, differenziando tra i termini equilibrium e balance (che potremmo tradurre rispettivamente con “equilibrio” e “bilanciamento”). Solitamente, sostiene Dempster, ci si immagina l’equilibrio come ciclico, cioè come un passaggio da una perturbazione a uno stato di quiete, soffermandosi solo sull’oggetto di questo cambiamento.  Al contrario, potremmo invertire l’approccio, chiedendoci: cosa fa sì che quell’oggetto sia in questo tipo di stato? In questo modo vengono accentuate le forze che bilanciano e compongono i diversi sistemi e ambienti. Non c’è qualcosa che magicamente dissesta e riassesta lo stato delle cose, ma diversi modi di interazione che si configurano con diverse cinetiche. La prima visione informa essenzialmente la tranquillità estrattivista per cui si può disboscare una foresta o pescare in massa il fondale di un mare, tanto questi elementi torneranno al loro posto. L’approccio di Dempster propone una sottile differenziazione: “il sistema deve lavorare per tornare alla posizione originale”. Questo fa sì che anziché farsi domande per controllare le risposte, si possa mettere in discussione quello di cui parliamo: siamo sicuri ci sia un equilibrio della “natura”? Da cosa è costituito e come interferisce questa presenza o quell’attività? È un approccio radicalmente ecologico.

Come si è visto, i sistemi auotopoietici sono orientati verso il mantenimento, a causa della necessità di stabilizzare le proprie strutture con gli ambienti particolari: raggiunta la migliore soluzione possibile del rapporto ambiente-struttura, questa deve essere prevedibile e conservata. Questi sistemi sono omeostatici e controllati da feedback negativi: un bell’esempio è offerto sempre da Dempster e riguarda il sangue caldo degli animali. Potendo sopportare solo determinate temperature interne, al cambiamento delle condizioni ambientali sviluppano meccanismi per mantenerle entro un certo range: “sudare o ansimare quando fa caldo, tremare o mettersi un maglione se fa troppo freddo” (p.37). Gli equilibri omeostatici, un po’ come i sistemi fragili (di cui in p.I c.3.3), dipendono strettamente dalla previsione e per questo sono organizzati su una gamma relativamente stretta di cambiamenti (nel caso delle temperatura, riguardo i cambiamenti stagionali o diurni). L’elaborazione del concetto di omeostasi (impiegato nella termodinamica e nella cibernatica, branche di studi con cui Varela e Maturana si confrontano direttamente per l’applicazione del concetto di autopoiesi) come tendenza dell’organismo all’autoregolazione è mutuato da Cannon e gli studi sui feedback comunicativi. Si riferisce al meccanismo di raggiungimento di un equilibrio stabile in un sistema, che si da quando tutte le possibili trasformazioni risultano compiute e non sussiste più alcuna forza cioè tutti i potenziali di organizzazione risultano attualizzati e il sistema non può più trasformarsi. L’unica variante di questo tipi di sistemi è proprio ciò che mantengono invariabile, autoalimentandosi in un circolo virtuoso che mantiene la variabilità critica dentro i limiti fisiologici di un sistema, facendo di questa variabilità critica il modo stesso in cui si organizza il sistema. Cambiano gli elementi strutturali ma il sistema autopoietico-omeostatico sopravvive, si adatta, permane, proprio perché: “un sistema vivente è un sistema omeostatico la cui organizzazione omeostatica ha come variabile la propria organizzazione che mantiene costante attraverso la produzione e il funzionamento dei componenti che lo specificano, ed è definito come unità di interazioni da questa stessa organizzazione” (1980, p.48).

Il modo di ripetere il campo potenziale dei sistemi autopoietici è essenziale quello di una stabilità identitaria, la ripetizione della differenza e la permeabilità virtuale che condiziona poi la stessa attualizzazione della struttura è invece propria del bilanciamento simbiogenetico. L’equilibrio dei sistemi simpoietici è decentralizzato e mantenuto da una tensione dinamica, cioè un bilanciamento dinamico evolutivo auto-organizzato. In questo senso i sistemi simpoietici sono strutturalmente aperti alla trasformazione e la loro configurazione varia in base alle influenze globali e locali, ai punti di tensione, ai feedback e alla ricorsività e alla complessità. Vorrei suggerire di accostare questo diverso bilanciamento con le nozioni di trasduzione ed equilibrio metastabile. Quello che la simpoiesi e la simbiogenesi mettono in questo è il rapporto tra essere vivente e ambiente: facendo scoppiare le bolle con cui spesso viene costruita questa relazione, si scopre un rapporto biologico e semiotico mobile, nel quale i termini del rapporto si scambiano successivamente alle funzioni (cioè alle relazioni), travalicando i confini ectodermici o della cellula e aprendo molteplici traiettorie di scambio. La trasduzione si riferisce alla trasmissione di energia da un punto a un altro di un sistema, scambio di segnali e materiali genetici tra cellule esterne attraverso l’attivazione di ricettori e punti di contatto. È un processo che amplifica e trasforma le energie implicate negli altri processi. Gilbert Simondon la considera un’operazione vitale che si esprime nell’individuazione organica, il modo in cui lavora l’invenzione e l’intuizione. È un processo di definizione delle problematiche – intese in senso logico, psicologico ma anche generalmente vitale: non per deduzione o induzione, ma captando le dimensioni che lavorano alla costruzione di un problema. Cioè la trasduzione non cerca fuori di sé un principio per risolvere il problema, ma intuisce e amplifica le energie in entrata della situazione-problema: il contatto con l’esterno non è estrinseco ma polimorfo e ridefinisce la stessa struttura interna. In una frase, la trasduzione è una relazione dinamica che costituisce i termini messi in relazione, i quali non preesistono a quest’operazione.

Un’operazione, fisica, biologica, mentale e sociale, per mezzo della quale un’attività si propaga progressivamente all’interno di un certo settore, fondando tale propagazione su di una strutturazione, operata da un luogo all’altro del settore stesso: ciascuna regione strutturata occorre alla regione successiva quale principio di costituzione, così che una modificazione si sviluppa progressivamente e contestualmente a questa operazione strutturante. Un cristallo che, a partire da un germe minuscolo, s’ingrandisce e si sviluppa secondo tutte le direzioni all’interno della sua acqua madre fornisce l’immagine più semplice di un’operazione trasduttiva: ogni strato molecolare già costituito fornisce la base strutturante allo stato in corso di formazione. Così, il risultato consiste in una struttura reticolare amplificante. (Simondon, 2011p.44)

È quindi una forma di simpoiesi che lavora davanti a un problema. La situazione conflittuale è la prossimità in cui si scopre la novità, da cui scaturisce la vita e la sua risoluzione non è svolta espungendo gli elementi negativi, ma creando uno stato di equilibrio metastabile. Data la varietà di scale di realtà da cui è composto ogni ambiente, queste entrano in intercomunicazione proprio a partire da questi punti di tensione o centri di forza: così l’equilibrio metastabile è una condizione di equilibrio che non corrisponde a un minimo assoluto di energia e nel quale ogni ingresso di nuova energia comporta la ridefinizione del sistema, una nuova configurazione. È uno stato stazionario transitorio, laddove l’equilibrio stabile tende a valorizzare la totalità e quindi perdura nonostante i cambiamenti di composizione oppure si distrugge quando l’organizzazione virtuale viene bloccata, lo stato metastabile è sempre in divenire, cioè pronto a riorganizzarsi.

3 Ambienti dispari

I concetti di equilibrio metastabile e trasduzione, all’interno di sistemi simpoietici, permettono di dissestare radicalmente la forma di relazione adattiva individuo-ambiente. In questo regime di individuazione permanente, mai definitiva, il mondo e l’ambiente non sono né concetti a priori né a posteriori. È piuttosto un gioco continuo di energie potenziali e provvisorie attualizzazioni, che si sviluppa per inneschi, risonanze e partecipazioni. Si tratta dell’emergenza di una serie problematiche e della scoperta di relative assiomatiche risolutive, che generano i rispettivi assemblaggi, sempre su più scale e sempre in divenire. La monadologia ambientale è una scienza del dispars, mutuando ancora un altro termine da Deleuze e Guattari (1980). La tendenza è di seguire degli itinerari di flussi, piuttosto che tracciare delle forme generali; o ancora, anziché trovare le costanti tra le variabili, l’attenzione è rivolta alla messa in variazione continua delle variabili stesse. Per cui, più che la risoluzione omogenea di un problema, un milieu di questo tipo è il campo di vettori e la disarticolazione multiplanare e prospettica degli strati e legami che lo costituiscono permette di individuare laddove le singolarità si ripartiscono in maniera accidentale, ovvero il punto in cui sorgono delle problematiche.

L’ambiente non è allora qualcosa di unico ed omogeneo a cui si relaziona il vivente prima o dopo un’individuazione, ma un sistema, “un raggruppamento sintetico di due o più scale di realtà” (ibid. p.41). Questi sistemi sono unità tropistiche, che dispongono serie intensive orientate “non un individuo sostanzializzato in presenza di un mondo che gli risulta del tutto estraneo”, ma dei centri propulsori (che potrebbero essere i punti di inflessione e locazione visti sopra) sempre in una relazione pluri-diadica di disparazione rispetto ad altri ordini. Spiegandoci meglio, il fatto è che non si può dare la coppia individuo-ambiente, perché entrambi i termini designano un movimento della materia più che una forma data o uno stato: l’unità tropistica, che è unità trasduttiva, vuol dire che non si da una permanenza nel senso di identità e omogeneità, ma piuttosto uno sfasamento permanente del centro da sé stesso. Il divenire, tanto in Simondon quanto in Deleuze, non è una successione di stati dell’essere o del soggetto già sostanzializzato (come nella dottrina ilomorfica o analogica), ma una dimensione e un dispiegamento, cioè il movimento stesso attraverso cui l’essere continuamente e a intermittenza si sfasa da sé stesso, cambia e si riconfigura, straripa dal suo centro iniziale e ne conquista uno nuovo. L’ambiente (o “l’informazione”, cioè lo scambio che intercorre tra problematiche e assiomatiche) è una tensione fra una serie di reali disparati e si configura, innescando i processi di individuazione, quando queste scale di realtà possono costituirsi in un sistema. Non un termine, ma una tensione: la trasformazione di una incompatibilità in una organizzazione risolutrice ma non risolutiva. Così cioè che comporta l’individuazione in un ambiente è una sorta di cambiamento diacronico di fase in un sistema: il milieu si da simultaneamente, come condizione e conseguenza, alla produzione di novità, alla prensione di nuove scale di realtà, di nuovi “problemi”, in seno a una situazione conflittuale.

Così gli ambienti sono campi di interazione progressiva, eterogenea o variabile. Ci avviciniamo così a una definizione adeguata della nozione di ambiente: una zona di correlazione e tensione reciproca di strutture e dimensioni, fasce vitali non definitive. Questa propagazione ed effusione in un ambiente fa sì che esso sia multiplanare e multicentrico: scaturisce a partire dall’apparizione di “molteplici dimensioni dell’essere” a partire da un centro e dirette verso una pluralità di altre direzioni. L’ambiente è un medium, ma non media tra soggetti e oggetti già formati, piuttosto trasporta il processo ontogenetico stesso e coadiuva i diversi livelli di interazione e individuazione che vi scorrono attraverso. La teoria simondoniana, della quale abbiamo catturato e parafrasato in questo contesto alcuni degli elementi più interessante, si presenta con un aspetto a metà tra la comunicazione e l’ecologia, permettendoci di riflettere sull’inter-azione materialsemiotica nella sua essenza nodale. L’informazione e l’azione, sotto questa luce, producono significato e prassi non in quanto termini ultimi, ma perché emergenti da una differenza, una disparazione: un modo bizzarro per entrare in una teoria dei conflitti ecologici. Come si è visto diffusamente, è solo scomponendo il doppio processo molare e molecolare e situando la curva prospettica a metà (cioè: a mediare) tra i due, che è possibile restituire un valore generativo e performativo ai conflitti e le relazioni. Mentre nel caso dei sistemi autopoietici l’equilibrio omeostatico è l’obiettivo a cui tendere, se si considera l’equibrio metastabile si attribuisce alla stessa costruzione del sistema – inteso in questo caso come processo aperto e plastico – la responsabilità della struttura assunta. In altre parole, se il significato non è prodotto dall’identità e dalla stabilità, ma piuttosto prorompe da una diversità allora la semantica che si andrà sviluppando sarà una diplomazia tra i diversi poli e le diverse grandezze, una cesellatura fatta di scelte, alternative e soluzioni, che non obbedisce a qualcosa di precedente o successivo, ma di compresente. È il caso della mediazione vegetale fra un ordine cosmico e uno inframolecolare, cioè la selezione e ripartizioni degli elementi chimici nel suolo e nell’atmosfera grazie all’energia ricevuta nella fotosintesi. Ogni ambiente è così configurato come la coesistenza problematica e conflittuale tra nodi inter-elementari che svolgono un lavoro intra-elementare. Queste operazioni sono volte alla captazione di energia potenziale da attualizzare, a liberare spazio d’azione, che equivale a una modellare una struttura gommosa in grado di avviluppare e sviluppare piuttosto che al raggiungimento di una stabilità chiusa e fissa. Iniziando da una sfasatura, l’intreccio in divenire tra ambienti e individuazioni non può che non-concludersi in ulteriori cambiamenti di fase, di ampiezza e ondulazione. La parola energia riguarda sempre un’attività di trans-formazione, una formazione che è presa di forma e trasmissione di informazione, realizzazione di un potenziale e passaggio all’atto (da potenza, dynamis a energeia).

In Artistotele l’energeia è innanzitutto quella di un essere animato, di un’anima, psyche, la cui potenza di agire (la dynamis) passa all’atto, e questa coppia energeia/dynamis struttura tutta l’ontologia aristotelica – una coppia che giunge fino a noi, che passa per Simondon attraverso la polarità individuo/ milieu (…), e che tende verso il superamento di un’ontologia semplice: tale è precisamente la posta in gioco del pensiero ontogenetico di Simondon” (Stiegler, 2019, 343)

Pluralizzando i movimenti centripeti e centrifughi che in tutti i versi condizionano e informano la genesi della vita, si ribadisce la rilevanza della composizione e della capacità di azione, dell’energia potenziale: si può sapere cos’è qualcosa solo iniziando a chiedersi cosa sia in grado di fare o, che è lo stesso, con chi lo faccia. Il milieu è composto da centri di forza in tensione trasduttiva tra loro. Il processo di sfasamento che l’individuo porta avanti individuandosi è soprattutto uno sfasamento dal proprio ambiente: modifica la sua relazione con l’ambiente, si adatta, modifica anche sé stesso, la sua interiorità, e facendolo trasforma gli altri nodi con cui si trova in una situazione di risonanza. Propone una nuova assiomatica dei problemi vitali. Si è visto come l’individuazione, cioè la vita stessa, è concepita da Simondon come scoperta, in una situazione conflittuale, di “una assiomatica che incorpora e unifica tutti gli elementi di tale situazione in un sistema che contiene un individuo” (ibidem, p.43) e l’ambiente è relativo alle scale di realtà e ai sistemi che raggruppa dentro di sé. Si ha individuazione psichica quando si pone una nuova problematica: l’individuo, nel suo incontro con gli altri processi vitali, è ciò in cui e per cui emergono significati, consiste nell’“autocostituzione di una topologia dell’essere che risolve un’incompatibilità precedente attraverso la comparsa di una nuova sistematica (…) il vivente è un essere che si perpetua esercitando un’azione risolutiva sull’ambiente ed in quanto vivente reca in sé inneschi di risoluzione possibili (…) e in tal modo continua l’individuazione iniziale” (Simondon, 2011 p.356). La vita, insomma, è un movimento per spingerci oltre, è una tensione e un potenziale di divenire altri: “una riserva d’essere non ancora polarizzata, disponibile e in attesa”. La relazione trasduttiva tra milieu e viventi è sempre a intermittenza, a salti, per sfasamenti. Vedremo nelle prossime pagine in che modo, a partire da queste premesse, si compongono dei mondi comuni, transindividuali: mondi e conflitti non antropologici, ma ontologici ed ecologici, cioè non già dati o già fatti, ma da affermare e costruire. Se vivere è quindi un processo che procede per interruzioni e sospensioni sarà da chiedersi come questa possibilità, questa agency ontogenetica, è bloccata, irrigidita, omologata.

 

Bibliografia:

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