15 risposte sul lavoro

di M. Parretti e T. Cumbo

Tommaso Cumbo

Esperto di politiche e servizi per il lavoro, lavora da più di 20 anni presso l’agenzia nazionale del Ministero del lavoro. Si è occupato in particolare di immigrazione e di politiche della transizione dall’istruzione al mondo del lavoro, pubblicando anche articoli su questi temi in libri e riviste specializzate. Dal 2012 è membro di A.Re.La (Associazione per la redistribuzione del lavoro).

Mauro Parretti

Attualmente pensionato – ingegnere elettronico – specialista in teoria dei sistemi – dirigente industriale, settori “marketing”, “ricerca e sviluppo”, “vendita internazionale” – dal 1986 studia economia politica – membro dell’A.Re.La.

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Domanda1 – Quando parliamo di disoccupazione e di difficoltà a trovare lavoro ci riferiamo soprattutto, o quasi esclusivamente, a forme di lavoro dipendente quindi salariato. Quali sono le caratteristiche di questa forma del lavoro e perchè è in crisi?

(M. Parretti):

La caratteristica è che il lavoratore esegue indicazioni da parte di un committente, che usa il tempo del lavoratore per fornire un prodotto, bene o servizio, ed eroga in cambio denaro, il salario.

Il committente ricava dalla vendita del prodotto netto di quel lavoro una quantità di denaro superiore a quella spesa come salario ottenendo un profitto.

Come può entrare in crisi la forma di lavoro salariato?

Complessivamente le imprese, per poter vendere il prodotto netto del lavoro impiegato, devono trovare degli acquirenti.

Una parte cospicua del prodotto è riacquistata dai lavoratori stessi, che fanno riaffluire alle imprese il denaro che queste hanno pagato come salari, ma, anche se i lavoratori salariati spendessero completamente tutto il salario ricevuto (cosa che fanno sicuramente finché non abbiano soddisfatto tutti i loro bisogni primari, cioè fondamentali), la parte del prodotto netto costituita dai profitti deve trovare un acquirente tra i capitalisti, cioè tra coloro che si appropriano dei profitti.
I profitti (e le rendite) devono quindi essere spesi affinchè la parte di prodotto netto eccedente i salari possa essere venduta ed i profitti potenziali realizzati.

Parte dei profitti sono spesi dai capitalisti per i loro consumi.

La parte risparmiata deve però essere necessariamente reinvestita perché i nuovi investimenti rappresentano la unica domanda possibile per la parte di prodotto corrispondente ai risparmi.

Qui sta il punto che distingue i critici del capitalismo dai suoi apologeti.

Le imprese sono costituite per produrre profitti per i loro proprietari e tendono ad abbassare i costi per poter aumentare il margine di profitto.

Lo fanno in due modi.

  1. Introducendo tecniche produttive sempre migliori per abbassare i costi di lavoro e mezzi di produzione.

  2. Cercando di pagare il lavoro il meno possible.

Finché il lavoro è abbondante ed i lavoratori si fanno concorrenza tra loro, la merce lavoro diminuirà di prezzo fino al limite minimo accettabile, cioè il suo costo di riproduzione, ed il salario tenderà al salario di sussistenza. Per questo il capitale tende sempre ad avere forza lavoro in eccesso e disoccupata, ricorrendo all’immigrazione, quando eventualmente la disoccupazione diventasse scarsa ed ha cercato sempre di ostacolare la contrattazione collettiva del salario.

Se i salari rimangono compressi dalla concorrenza tra i lavoratori, le innovazioni che aumentano la produttività, aumentano i profitti ed il rapporto tra i profitti ed i salari.

Di conseguenza aumentano anche il rapporto tra nuovi investimenti e consumi.

Ma i nuovi investimenti servono solo ad aumentare la capacità produttiva e la capacità produttiva non può aumentare più dei consumi, cioè il mercato dei mezzi di produzione può aumentare solo in proporzione a quello dei consumi.

Ci si trova allora di fronte ad una dinamica contraddittoria perché da un lato la dinamica capitalista tende ad aumentare la quota di nuovi investimenti rispetto a quella dei consumi, ma dall’altro, i nuovi investimenti non possono aumentare di più dei consumi.

L’unica merce che, all’aumentare del capitale, fa aumentare anche i consumi è il lavoro produttivo (quello che si oggettiva nel capitale, cioè la mano d’opera diretta, operaia), perché, come i mezzi di produzione, deve aumentare in proporzione al maggior prodotto.

Ma quando il rapporto tra il valore dei mezzi di produzione e del lavoro produttivo (quella che Marx chiama composizione organica del capitale) diventa troppo elevato, lo scarso aumento percentuale dei consumi, indotto dal maggior lavoro produttivo, non giustifica l’enorme aumento percentuale, che dovrebbero avere i mezzi di produzione.

Questo determina la crisi del capitalismo, che si manifesta nella eccedenza di capitale inutilizzato e nell’aumento della disoccupazione dei lavoratori salariati.

(T. Cumbo):

Questa forma di lavoro (lavoro salariato) si caratterizza per il fatto che il prestatore dell’attività deve vendere la sua forza lavoro al capitalista/imprenditore per ottenere il salario che consente la riproduzione delle sue condizioni di vita. Si tratta di una forma del lavoro che ha assunto dimensioni di massa solo negli ultimi secoli della storia umana, con lo sviluppo capitalistico (e quindi ha un carattere storico). Essa è in crisi perché l’innovazione tecnologica distrugge più posti di lavoro di quanto il sistema economico non sia in grado di reimpiegare nell’ambito dei rapporti di produzione dominanti. In pratica, l’azione combinata del fenomeno dell’innovazione, che consente di risparmiare forza lavoro e della (enormemente) accresciuta capacità produttiva, per cui le merci non trovano sbocchi anche a causa della riduzione dei redditi e dei consumi dei lavoratori espulsi dal processo produttivo, genera una condizione che Keynes definì di “penuria nell’abbondanza”. Si tratta di una tendenza in atto nei paesi capitalistici avanzati, ma che si manifesta gradualmente anche nei paesi che via via si affacciano alle economie capitaliste, per il fatto che lo sviluppo avviene al livello tecnologico dato e i mercati del lavoro tendono a non assorbire tutta la forza lavoro disponibile.

Storicamente, nei paesi occidentali lo Stato sociale ha permesso di reimpiegare la forza lavoro che nell’ambito dei rapporti capitalistici non sarebbe stata utilizzata, permettendo per un certo periodo di tempo – dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni ’70 – una situazione di sostanziale piena occupazione. Lo stato ha impiegato il lavoro salariato per scopi diversi dal profitto, che è alla base dell’accumulazione capitalistica, consentendo il soddisfacimento di bisogni sociali (istruzione, sanità, case popolari, etc.) che altrimenti non sarebbero stati considerati dalle imprese private. Nella produzione capitalistica, infatti, lo scopo principale che mette in moto l’attività produttiva non è soddisfare bisogni e migliorare le condizioni di vita della società, ma l’ottenimento di un profitto da parte delle aziende, la creazione di una ricchezza oggettiva crescente (per sé): se gli imprenditori non intravedono una redditività degli investimenti non mettono in moto il processo. L’intervento dello stato sociale è però entrato in crisi negli anni ‘70 perché l’effetto moltiplicativo della spesa pubblica, che in una prima fase aveva sostenuto la crescita economica e il miglioramento delle condizioni di vita (con un generale soddisfacimento dei bisogni primari) si è scontrato di nuovo con il problema della sovrapproduzione e con la tendenza al risparmio degli investimenti e dei consumi dovuta allo stesso miglioramento delle condizioni di vita. Da quel momento sono ritornate in auge le tesi liberiste e viviamo una situazione di stallo che si protrae ancora oggi, caratterizzata da un equilibrio di bassa crescita e di mancato aumento dell’occupazione, nonostante i “trucchi statistici” con i quali si cerca di mascherare il fenomeno (ad esempio l’Istat considera occupato, chi dichiara di aver lavorato almeno 1 ora nella settimana di riferimento della rilevazione).

Domanda 2. Nel senso comune il lavoro produttivo è quello che produce qualcosa, un valore, un servizio.. ma nel lessico di Marx il lavoro produttivo è solo quello che accresce il capitale, quindi il lavoro salariato su cui si estrae plusvalore. Tutte le altre forme di lavoro sono improduttive (rispetto al capitale) anche se producono valore eccome. C’è un conflitto tra i lavoratori produttivi e quelli improduttivi, in un certo senso tra tute blu e colletti bianchi, che nella società terziarizzata sono diventati la maggioranza?


(M. Parretti):

Lavoro improduttivo non vuol dire lavoro inutile. Vuol dire semplicemente che non si trasforma in capitale produttivo.

Dunque il lavoro del poliziotto o del personale amministrativo o di quello dell’ufficio acquisti o del progettista, se non producono un servizio che è venduto ad altri, rappresenta un lavoro, che può essere perfino utilissimo, ma non si trasforma in capitale.

Quando in una fabbrica si fa l’inventario del magazzino dei prodotti finiti o del materiale in lavorazione (il cosiddetto WIP Work In Process), la valutazione è fatta al costo dei fattori variabili usati (cd costi variabili), materiali (ed eventuale logorìo delle macchine) e mano d’opera.

Nella mano d’opera non c’è il costo del personale amministrativo o di progetto o di vigilanza o di pulizia, ma solo del lavoro impiegato secondo i tempi standard.

Nella società dei servizi c’è solo la riduzione al minimo del lavoro produttivo, sostituito dalle macchine automatiche.

(T. Cumbo):

In teoria non ci dovrebbe essere conflitto tra i lavoratori produttivi e quelli improduttivi, dal momento che si tratta in ogni caso di lavoratori salariati. Probabilmente si può determinare un conflitto relativo allo status sociale e all’identità professionale. Ad esempio, De Masi sottolinea come i colletti bianchi esprimano posizioni tiepide e corporative nelle lotte per il miglioramento delle condizioni di lavoro (ad esempio lo smart working è piovuto dal cielo con la pandemia, ma non si registra una presa di posizione forte perché diventi un’occasione per una trasformazione duratura delle condizioni di lavoro attuali).

Domanda 3. Molti che scrivono di lavoro sono allarmati per la sostituzione di manodopera, anche intellettuale e qualificata, da parte di robot e sistemi di intelligenza artificiale. Interpretando il Frammento sulle macchine (Marx, Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia 1968-70, II vol. pp.389-411 ) già dagli anni ’70, si è affermato che il valore venga prodotto attualmente più dal sapere tecnoscientifico incorporato nel capitale fisso, che dal lavoro umano. Una macchina ha un costo ma non genera plusvalore. E’ corretto? E’ un problema per il capitalismo?

(M. Parretti):

Poiché la sostanza del valore di scambio sarebbe costituita dal “lavoro semplice” equivalente, produttivo, socialmente necessario, la sostanza del valore di scambio di una massa enorme di capitale reale avrebbe un valore irrisorio. Già da molto tempo fa, secondo Marx, il lavoro avrebbe cessato ed avrebbe dovuto cessare di essere la misura del valore di scambio ed effettivamente sarebbe già crollata la produzione basata sul valore di scambio. Molto più semplice constatare come avesse ragione Marx nel prevedere che: “Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso” [K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica Vol.II, La Nuova Italia , pag.401]

Usare le vecchie definizioni pertanto per lo stesso Marx, avrebbe poco significato.

Che sia un problema per il capitalismo è sotto gli occhi di tutti.

Il tasso di interesse reale è negativo da decenni.

Il PIL del primo mondo non cresce.

La quasi totalità del lavoro non solo non è “produttivo” marxianamente, ma è anche inutile ai fini produttivi e serve solo ad ideare, promuovere e vendere prodotti che non nascono da bisogni endogeni, ma tecnicamente ideati, promossi e pubblicizzati dal capitale.
Questo è sempre più immateriale e volto ad ostacolare l’ingresso di altri nei mercati, anziché costituito da mezzi di produzione. Poichè quel capitale immateriale diventa necessario per poter accedere ai mercati, diventa artificialmente “socialmente necessario”, ma serve solo al capitale a perpetuare il suo potere ormai anacronistico ed arbitrario.

(T. Cumbo):

Il problema consiste nel fatto che la scienza incorporata nel capitale fisso genera una capacità produttiva che “eccede la possibilità di essere consumata” (domanda solvibile) da parte della società (in particolare dagli stessi lavoratori, che una volta disoccupati, non possono acquistare le merci necessarie per la loro riproduzione). Tale fenomeno è collegato all’espulsione dei lavoratori dal processo produttivo per via dell’innovazione tecnologica. Nel c.d. “Frammento sulle macchine” si dice che il “capitale riduce senza alcuna intenzione il lavoro umano (il dispendio di forza) ad un minimo” e che “ciò tornerà utile al lavoro emancipato ed è la condizione della sua emancipazione”.

Il fatto che il valore venga prodotto più dalle macchine che dal lavoro vivo appare un fatto secondario rispetto alla sottolineatura che nel momento in cui le macchine, ossia l’appropriazione da parte del capitale della scienza come fattore di produzione e le sue applicazioni tecnologiche, sovrastano il lavoro “il capitale lavora così alla propria dissoluzione come forma dominante della produzione”. Perché genera una capacità produttiva che, sulla base dei rapporti sociali di produzione dominanti, non riesce a convertire in un ulteriore processo di accumulazione (a causa del “combinato disposto” della sovrapproduzione e progressiva della diminuzione del lavoro come fonte principale di valore e di ricchezza), con un impoverimento sociale generalizzato che stride con la potenziale ricchezza sociale disponibile.

Nel Frammento, si prefigura la possibilità di rapporti sociali di produzione, alternativi a quelli capitalistici, per l’impiego delle macchine (meglio di un “sistema automatico di macchine”) in una società emancipata dal lavoro salariato.

Qui sta probabilmente un punto critico di alcune interpretazioni del Frammento sulle macchine e di alcune tendenze culturali che ad esso fanno riferimento (ad esempio alcune delle tesi c. d. neo-operaiste). Esse fanno discendere dalla sussunzione sotto il capitale della scienza, della natura, e di tutte le attività umane che concorrono direttamente, come lavoro produttivo o indirettamente (il “cervello sociale”) alla produzione e al profitto, la necessità politica di un reddito di cittadinanza o addirittura di “esistenza”, etc. che rappresenterebbe un vero e proprio diritto. Ciò tuttavia rappresenta una scorciatoia, dal momento che per giungere ad una appropriazione collettiva dei mezzi di produzione e dei prodotti occorrono rapporti sociali di produzione alternativi. Chi dovrebbe garantire quel reddito? Lo Stato, le imprese? E a fronte di quale attività produttiva verrebbe erogato quel reddito? Infatti, mentre il lavoro salariato messo in atto dal capitale consente la soddisfazione dei bisogni altrui dietro la spinta della necessità, in assenza di questo vincolo quale forza garantirebbe la produzione per il reciproco soddisfacimento dei bisogni? Non certo il fatto di disporre di un reddito come diritto naturale di ogni essere umano, perché essendo garantito a tutti, si porrebbe il problema di organizzare in una forma alternativa l’attività produttiva necessaria per garantire l’appropriazione sociale della ricchezza effettiva e potenziale generata dallo sviluppo della precedente forma capitalistica di produzione.

La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e la redistribuzione del lavoro potrebbero costituire una prima risposta in vista dello sviluppo di rapporti di produzione alternativi.

Domanda 4. La tecnologia di connessione ubiqua e i dispositivi che ci portiamo sempre appresso ci permettono di lavorare anche al di fuori dell’orario di lavoro. In alcune professioni non c’è praticamente distinzione tra lavoro e vita. Prima accadeva quasi soltanto nelle libere professioni, ora anche per lavori dipendenti e precari proprio perchè le comunicazioni permettono di ottimizzare i tempi di lavoro 24/7. Questo tempo dedicato al lavoro e non contrattualizzato come va considerato?

(M. Parretti):

così come appare, cioè lavoro sottopagato e con orario di lavoro esteso oltre il contratto e non pagato, cioè sfruttamento.

Anche il lavoro improduttivo, anche quello inutile (alla produzione di valori d’uso) e perfino quello dannoso (ai membri della società), è sfruttato.

Sono le categorie dello sfruttamento che sono però cambiate.

(T. Cumbo):

Si tratta di una forma di sfruttamento e di estensione della giornata lavorativa oltre ogni limite, come evidenziano ad esempio le distorsioni dell’uso dello smart working; che per altri versi rende apprezzabile la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, se regolamentato…. Nel lavoro autonomo (consulenze, etc.) è una sorta di autosfruttamento sotto la spinta a guadagnare di più facendo “gli imprenditori di sé stessi”. Si coltiva l’illusione della libertà, ma si è dipendenti dalla necessità di trovare nel mercato (sia privato che pubblico) acquirenti delle prestazioni lavorative offerte.

Uno degli aspetti che andrebbe approfondito nel contesto della pandemia è il fenomeno delle dimissioni, che interessa diversi paesi (USA, Inghilterra, diversi paesi europei, ma anche l’Italia, come testimoniato dai dati dell’INPS che registrano proprio un incremento elevato delle dimissioni nell’ultimo anno): può essere una manifestazione del rifiuto del lavoro salariato, dello sfruttamento, etc.? Può essere l’espressione di un bisogno embrionale di un senso diverso del lavoro e dell’attività produttiva? Ciò aprirebbe il campo ad una sensibilizzazione alle tesi della riduzione dell’orario a parità di salario e della redistribuzione del lavoro.

Domanda 5. Il tempo libero viene eroso dal tempo che dedichiamo al consumo, a valutare i prezzi e prodotti, a farci sollecitare dal desiderio di possibili acquisti (pubblicità recepita), a produrre comportamenti che ci rendono destinatari di pubblicità mirata. Inoltre produciamo volontariamente contenuti per le piattaforme della sharing economy, quelle che mettono gratuitamente o meno in comune i contenuti degli utenti, talvolta monetizzandoli mediante la pubblicità.
C’è chi dice che questo tempo è una forma di lavoro non pagato (implicito, ombra) che permette l’estrazione di “plusvalore assoluto” e il “divenire rendita del profitto” (Marazzi 2015, 174).
Sei d’accordo?

(M. Parretti):

Il valore di scambio in un sistema capitalista si basa sulla quantità di “lavoro semplice equivalente produttivo socialmente necessario”. Quando il rapporto tra plusvalore e valore necessario (consumi del “lavoro semplice equivalente produttivo socialmente necessario”, che reintegra quello usato) diventa troppo elevato, l’accumulazione capitalistica si arresta. (la trasformazione di parte del plusvalore in pluscapitale, cioè in capitale produttivo aggiuntivo, che si aggiunge al capitale produttivo, già preesistente e reintegrato, fa sì che il capitale produttivo si accumuli. Se il pluscapitale non serve più, perché basta il capitale produttivo reintegrato, non c’è domanda di pluscapitale e l’accumulazione si arresta).

A questo punto al capitale non resta altra scelta che inventare nuove tecniche per:

  1. spingere al consumo anziché al risparmio monetario e/o
  2. spingere il risparmio monetario alla spesa in prodotti finanziari

Per spingere al consumo e alla spesa finanziaria, diventa necessario impiegare lavoro improduttivo (che non serve a produrre di più) e capitale improduttivo (che non serve a produrre di più).

Questa enorme massa di lavoro improduttivo ed inutile (cioè utile solo a far spendere il salario), è però utile, anzi necessario al capitale, che così riesce ad continuare l’accumulazione di questo nuovo capitale improduttivo ed inutile, che, sempre più spesso, si rivela anche dannoso all’ambiente e alla salute fisica e psichica, perché tende a modificare non solo la realtà fisico naturale, ma anche la realtà psichica dell’antropos, cioè il pensiero. Quando la massa di questo nuovo lavoro improduttivo diventa 10, 20 o 30 volte maggiore del residuo lavoro produttivo, continuare a ragionare in termini di plusvalore diventa paradossale e scientificamente irrilevante, cioè non aiuta a capire bene la realtà.

Se il lavoro è improduttivo, non produce valore e plusvalore, ma lo consuma.

Ma se il capitale ha bisogno di quel lavoro per i suoi scopi, quel lavoro improduttivo diventa necessario al capitale.

Tanto per capirsi concretamente: se i costi per produrre una camicia, materiale, mano d’opera e profitto industriale, è di 4€ (2€ materiale, 1€ mano d’opera, 1€ profitto) e la camicia viene venduta

a 50€ in Germania,

a 35€ in Portogallo,

a 20€ in Bulgaria,

a 15€ in Tunisia

e capiamo che ciò deriva dal fatto che per vendere una camicia (che costa 4€ e che è prodotta in Romania) occorre spendere una massa di denaro in Germania che è all’incirca il 40% maggiore che in Portogallo,

il 150% maggiore che in Bulgaria,

il 230% maggiore che in Tunisia,

forse riusciamo a capire che ragionare in termini di valore e plusvalore è leggermente inadeguato.

La cosa più importante è rilevare che quella enorme massa di lavoro e capitale improduttivo, spesa o investita (a seconda dei punti di vista) per poter vendere una camicia (e non solo) in Germania, Portogallo, Bulgaria, Tunisia ecc. non è proporzionale alla quantità di camicie (ed altri capi di abbigliamento simili) vendute.

6- I servizi pubblici forniti alla cittadinanza sono un costo per la collettività, ma possono produrre profitti se vengono privatizzati. Quali sono le spinte economiche alle privatizzazioni ed esternalizzazioni?

(M. Parretti):

Spesso i servizi pubblici sono forniti a pagamento, come i trasporti.

Dunque la fornitura di un servizio a pagamento è simile allo scambio di merci che avviene sul mercato. Da quando il meccanismo della spesa pubblica come traino all’economia si è inceppato, qualunque spesa dello stato

  1. o è coperta da una corrispondente entrata fiscale, cioè pagato da chi paga le tasse

  2. o è sostenuta emettendo una quantità corrispondente di titoli del debito pubblico, cioè va ad aumentare il debito pubblico, sottoponendo i titoli di stato alla pressione speculativa dei mercati dei future

  3. oppure viene emesso denaro senza contropartita, cioè generando direttamente inflazione

Pertanto quello che spende lo stato è semplicemente pagato dalle tasse oppure è pagato dalla svalutazione di ogni forma di patrimonio e dei salari contrattati.

Visto che il neoliberismo si è affermato proprio sull’onda della lotta all’inflazione, la tendenza è stata di coprire la spesa pubblica con entrate fiscali e di fornire i servizi alla collettività a pagamento e compensando le spese.

Poiché lo stato opera in regime di monopolio, quindi senza i vincoli della concorrenza, ha sempre difficoltà a controllare l’efficienza della sua organizzazione, che può facilmente essere sottoposta a clientelismi e corruzione ed ha comunque acquisito la fama, spesso meritata, di inefficienza. Questo ha favorito un clima politico nel quale privatizzare è stato pubblicizzato e venduto alla opinione pubblica come sinonimo di efficienza e quindi, anche quando lo stato forniva un servizio in perdita (cioè gratuitamente o con tariffe basse, che non coprivano i costi) e la privatizzazione avrebbe comportato che quel servizio ora sarebbe stato pagato di più, la cosa sarebbe sempre andata a favore dei cittadini, perché avrebbe pesato molto meno sulle tasse, che avrebbero dovuto pagare.

Questo clima politico, trasversalmente favorevole alle privatizzazioni, ha permesso che si privatizzassero anche imprese pubbliche di fornitura di servizi strutturalmente, cioè intrinsecamente, monopolistici (o al massimo oligopolistici), come la fornitura di acqua, energia elettrica, servizi telefonici, autostrade, trasporti pubblici.

Questa è una grande opportunità per un capitalismo che ha difficoltà a fare profitti nella forma tradizionale di crescita del capitale produttivo perché, insieme alla nuova attività speculativa sulle attività finanziarie, offre ai privati di occupare una posizione di monopolio e di profitti anche in un mondo capitalistico virtualmente a zero profitti, dove cioè il PIL reale è stazionario, quindi non c’è bisogno di capitale aggiuntivo, quindi non c’è accumulazione di capitale reale, quindi i profitti sono un gioco a somma zero (come nel poker, se qualcuno vince, ci deve essere un altro che perde), come dimostra il tasso di interesse reale negativo da almeno vent’anni.

La cosa diventa palese perché si è dovuti ricorrere alla foglia di fico delle authority e dei garanti, che dovrebbero controllare i privati a nome dello stato, quando lo stato ha privatizzato teorizzando che non riusciva neanche a controllare se stesso.

7- In alcuni settori dei servizi il prodotto venduto (es. un software, un film) è frutto del lavoro di molti, che ne costituisce il costo, ma poi produrre una copia o un milione di copie non cambia quel costo, ma cambia sicuramente il ricavo ed il profitto, che si moltiplica per il numero di copie vendute. In queste situazioni è corretto dire che il lavoro di produzione iniziale produce profitti, se poi i profitti non dipendono per niente da esso?

(M. Parretti):

Cambia totalmente la natura dei profitti e del capitale.

Il profitto netto è pari al plusvalore meno i costi improduttivi.

Se una camicia costa industrialmente 4€ e si vende a 50€ il plusvalore è =46€ , ma bisogna sottrarre tutti i costi di pubblicità distribuzione ecc. C’è una catena di imprese (importatore, grossista regionale, negozio). Se questa catena di imprese in totale vende 100.000 camicie ottiene 4.600.000€, ma se sostiene costi fissi improduttivi per 4.500.000€, il profitto netto è pari a 100.000€ su un costo industriale di 400.000€ e pari a (100.000/5.000.000) cioè al 2% del fatturato finale.

Il software commissionato dalla P.A. è totalmente diverso. La P.A. vuole un software che non esiste sul mercato e che è progettato e prodotto in esemplare unico per lei. Paga, poniamo, il doppio del costo sostenuto. A questo 50% di margine lordo, vanno sottratti pochissimi costi fissi, perlopiù mascherati, perchè in generale sono costi di lobbing, agenti commerciali, donazioni, licenze, agenzie, consulenze, convegni, ecc.

L’industria del software è completamente diversa. Un pacchetto software, che viene venduto a 35€, ha un costo diretto irrilevante. Ogni copia incassa 35€, che sono anche il margine lordo.

Il costo del progetto è un costo fisso improduttivo (ad es. 350.000€, da ammortizzare in 4 anni. Il margine lordo delle prime 2.500 copie vendute pareggia l’ammortamento (87.500€) e il fatturato corrispondente rappresenta il fatturato di pareggio. Ogni copia venduta al di là del fatturato di pareggio porta un profitto, al lordo delle tasse, di 35€.   Quei 350.000€ sono il cosiddetto capitale cognitivo.

8- L’economista Christian Marazzi afferma che non si deve distinguere tra profitti commerciali e finanziari e profitti industriali. Possiamo allora dire che oggi il profitto venga prodotto anche dal lavoro di pubblicitari, sponsor, finanziari, comunicatori, attori, ecc.?

(M. Parretti):

La questione sta nel fatto che il profitto ed il capitale, nei termini in cui era definito produttivamente, è diventato quasi inesistente. Lo sviluppo tecnologico è travolgente e quindi l’aumento della produttività è continuo ed enorme. Nonostante ciò il PIL è praticamente fermo da vari decenni. Ma se produciamo oggi all’incirca lo stesso (a prezzi costanti) di quello che producevamo l’anno scorso, poiché la produttività è aumentata, oggi ci sarà bisogno di meno capitale di quello necessario l’anno scorso. Allora il capitale produttivo che ha reintegrato quello consumato l’anno scorso, essendo più produttivo, deve essere minore (in valore) di quello consumato.

Quindi un PIL stazionario con produttività che aumenta comporta una diminuzione regressiva del capitale produttivo.

Se il capitalismo reagisce a questo introducendo, come abbiamo già visto, del capitale intangibile, fatto da “conoscenze” e “relazioni sociali” costruite ed arbitrarie, cioè basate su “proibizioni”, che rendono artificialmente necessario quel capitale intangibile ed improduttivo, lo stock di capitale può tornare a crescere, aggiungendo al sempre minore capitale produttivo un sempre maggiore capitale intangibile improduttivo, che è arbitrariamente necessario. Se allora torna a crescere lo stock di capitale, tornano ad essere possibili anche i profitti reinvestiti (che cioè si accumulano allo stock di capitale precedente).

Invece di cercare di trovare una formulazione che tenti di riportare i profitti ed il capitale ad una similitudine al capitalismo dell’ottocento, rimuovendo la questione della formazione di questo postcapitalismo arbitrario, sarebbe meglio smascherarlo, anziché assecondarne la sua posticcia riformulazione mediante questo nuovo capitale intangibile, cognitivo e relazionale.

Ci troviamo in un momento storico simile a quello in cui stava per avvenire la rivoluzione borghese ed i tempi erano maturi perché si erano ormai sfaldate le basi strutturali dell’ancient regime, che era ormai diventato obsoleto ed arbitrario, così come oggi è obsoleto ed arbitrario il capitalismo.

Assecondarne la descrizione di facciata, per cui sembra che, mutatis mutandis, il capitalismo funzioni ancora, serve solo a continuare a rimuovere psicologicamente nei progressisti la necessità di rivedere storicamente la crisi di entrambi i tentativi di superare il capitalismo stesso, cioè la socialdemocrazia dello stato sociale ed il socialismo bolscevico. Se il capitalismo funziona, il sindacato può sperare di assolvere le vecchie funzioni di contrattazione. Ma se lo sviluppo non c’è e continua ad imperversare una crisi inspiegabile ed inspiegata, il ruolo del sindacato cambia e deve, ad es., non più continuare nella pia illusione di opporsi alle delocalizzazioni, ma alla lotta per la promozione di una legislazione, che permetta alle industrie delocalizzate di continuare a poter produrre in forma autogestita le stesse merci, in barba al “brand” ed alla proprietà intellettuale dei progetti, ed introdurre una protezione fiscale della merce forza lavoro. Per questo è più facile illudersi che il capitalismo, mutatis mutandis, ancora funzioni.

9- Alcuni economisti hanno sottolineato la crescita della rendita rispetto ai profitti.
Per questo parlano di neofeudalesimo, in quanto esisterebbe una classe egemone, che si approprierebbe della ricchezza con posizioni di monopolio, al di fuori della concorrenza del mercato, come l’aristocrazia dell’ancient regime. Allora sarebbe ancora corretta la tesi marxista che la rendita deriva da e si sottrae ai profitti?

(M. Parretti):

Non solo c’è il ritorno alla fornitura privata di servizi essenziali intrinsecamente mono_oligo_polistici, ma c’è anche il fenomeno per cui, in un mercato stazionario (quasi costante), dove il prezzo di vendita è enormemente maggiore del costo di produzione (ad es., una camicia che costa industrialmente 4€ e che viene venduta al consumatore a 50€, oppure la copia di un software viene venduta 40€ e non costa nulla copiarla), si inserisce l’attività di capitalisti, che investono, in concorrenza tra loro, in capitale intangibile improduttivo, che serve ad impedire che altri imprenditori possano vendere su quel mercato senza fare quegli stessi investimenti.

Insomma i capitalisti hanno imparato a farsi concorrenza tra loro investendo in capitale improduttivo, anziché riducendo il prezzo di vendita. Quell’enorme margine di contribuzione lordo viene così ridotto dalle inutili spese di finanziamento e commercializzazione fino ad un profitto netto molto esiguo e tutto da consumare o reinvestire in nuovo capitale, a sua volta improduttivo.

Il vantaggio di uno sviluppo tecnologico impetuoso si risolve in enormi e crescenti costi improduttivi di circolazione, senza peraltro che il capitale stesso riesca ad avvantaggiarsene poiché lo stesso profitto, al netto di questi enormi e crescenti costi improduttivi di circolazione, è vicino allo zero, come dimostra empiricamente il tasso d’interesse reale, che dagli anni ’90 del secolo scorso è negativo, tanto che le banche hanno un eccesso di depositi e chiudono le filiali, che sono la sorgente dei depositi delle famiglie e spendono pagando lavoratori dipendenti, come consulenti finanziari, che cercano di convincere i depositanti a togliere il loro denaro dai depositi ed investirlo, magari sotto la loro gestione.

Questo processo, dietro la sostituzione di capitale produttivo con capitale intangibile ed improduttivo, che appare come una metamorfosi innocua, rende il funzionamento dei mercati simile a quelli mono_oligo_polistici e rendono il capitale ormai ostacolo ad ogni ulteriore sviluppo, in quanto usa la crescente produttività non per diminuire il lavoro necessario, ma per creare inutile lavoro aggiuntivo ed in forme socialmente dannose perché tendono ad imbrigliare il tempo libero e ad estender artificialmente quello necessario, al solo scopo di mantenere in vita il capitale come mediatore dei rapporti sociali di produzione.

In questo contesto il profitto prende le apparenze di una rendita, in quanto sembra scaturire da una posizione mono_oligo_polistica, anziché dalla concorrenza sul mercato tra capitalisti.

Se lo stato decidesse di mettere un’imposta sull’aria che respiriamo, potrebbe poi vendere i diritti di riscossione e trasformare anche l’aria che respiriamo in capitale, che sarebbe la rendita su un bene comune, l’aria, che lo stato potrebbe arbitrariamente capitalizzare. Questo esempio paradossale ed assurdo, assume contorni meno assurdi e reali se, invece dell’aria, prendiamo l’acqua potabile, che, privatizzata, riesce a produrre dei profitti, che somigliano di più ad una rendita.

Possiamo etichettare questo fenomeno come vogliamo, ad es., come neo-feudalesimo, ma la sostanza è che non si tratta di un ritorno al passato, ma di un capitale, purtroppo ancora egemone culturalmente, che riesce a conformare la legge in modo da confermare arbitrariamente se stesso mediante il suo dominio culturale.

10- Alla luce della drastica riduzione del lavoro operaio e della enorme crescita del lavoro di commercializzazione, finanziamento e promozione, la teoria marxiana del valore-lavoro può essere ancora ritenuta valida?

(M. Parretti):

Secondo la sua definizione non più:

Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso.

Ma ora si tratta almeno di ridefinire come sostituire, hic et nunc, qui ed ora, la mediazione produttiva del capitale.

In particolare si tratta di risolvere vari problemi:

  1. Poiché la produttività e la sua continua crescita ha come presupposto la divisione del lavoro e la cooperazione tra persone reciprocamente indifferenti, come è possibile superare il lavoro salariato e la mediazione ed il dominio del capitale, ottenendo l’autogestione delle imprese da parte dei lavoratori?

  2. Poiché il denaro come riserva del valore di scambio, cioè come rappresentante del capitale reale, non può più crescere, mentre cresce il bisogno dei membri della società di assicurare i loro diritti futuri, ad es., pensione, assicurazione contro infortuni e malattie, contro disatri naturali ecc., come è possibile sostituire il denaro come rappresentante dei diritti della persona sulla società?

  3. Poichè i membri della società, come aveva indicato Marx, non sono immediatamente pronti a cooperare aldilà del rapporto di valore, cioè mediante lo scambio tra equivalenti, cosa e come può temporaneamente fungere da denaro come mezzo di scambio, pur senza essere in sè riserva di valore?

  4. Come può avvenire ed a quali condizioni la transizione verso un superamento del rapporto di valore e verso un agire comunitario?

  5. Come è possibile organizzare e dirigere le capacità e le conoscenze tecnico scientifiche nel campo fisico naturale e nel campo umano per continuare il processo di aumento della produttività e la soddisfazione di nuovi bisogni al di fuori del dominio e dell’egemonia del capitale?

  6. Come è possibile favorire la determinazione di nuovi bisogni in modo che i membri della società non condizionino, ne’ siano condizionati, gli uni gli altri nel processo decisionale dei loro nuovi bisogni?

  7. Se e come eventuamente favorire lo sviluppo di bisogni culturali (scienza, arte, politica, ecc.), anziché puramente edonistici?

Almeno le prime sei domande sembrano congruenti con il comunismo scientifico, indicato da Marx. La settima sembra ipotizzare in modo latente una scelta del futuro umano, basata sull’etica, anziché sulla scienza, …..ma già le prime sei sono abbastanza impegnative da rispondere.

11) Tutti ritengono che negli ultimi 40 anni sia avvenuto uno sviluppo tecnologico enorme; eppure la quasi totalità degli economisti afferma che i dati empirici sulla produttività dei paesi più industrializzati mostrano che la produttività non è realmente aumentata ed in alcuni casi sembra che sia perfino diminuita. Come si spiega questo fenomeno, che sembra contraddire il senso comune?

(M. Parretti):

La misura della produttività deve valutare la capacità di ottenere una produzione grande consumando meno risorse possibili. Non può dunque essere altro che il rapporto tra la misura delle merci prodotte e la misura delle merci che è necessario consumare per produrle.
Il fatto che ad es., una società non abbia accantonato risorse sufficienti per ottenere un grande volume di produzione o che sia necessario consumare delle risorse per perseguire dei criminali o per spingere le persone ad acquistare alcuni prodotti invece di altri o dei prodotti che esse non acquisterebbero spontaneamente, sono questioni che non attengono alla misura della produttività di una società. Una società potrebbe essere estremamente produttiva, ma produrre molto meno di quello che potrebbe, perché la sua organizzazione sociale o i bisogni dei suoi membri non determinano la necessità o l’opportunità di farlo.

Dal punto di vista della produttività peraltro teorie economiche così diverse come il marxismo o il marginalismo danno una definizione di produttività che, mutatis mutandis, cioè pur cambiando la descrizione del processo produttivo, coincide.

Nel marginalismo consiste nella produttività marginale dei fattori produttivi (capitale e lavoro produttivi, che si dimostra ottimizzata quando la composizione tra lavoro produttivo e capitale produttivo uguaglia le loro produttività marginali).

Nel marxismo consiste nel rapporto tra il valore del prodotto lordo ed il valore del capitale produttivo consumato, cioè il rapporto tra la produzione lorda unitaria ed il costo dei fattori aggiuntivi necessari, cioè del costo marginale unitario.
Affinchè dunque si misuri correttamente la produttività occorre misurare il rapporto tra il valore della produzione aggiuntiva o marginale ed il suo costo. Pertanto è metodologicamente sbagliato dividere il valore del prodotto lordo totale per il valore di tutti i fattori consumati.

Occorre invece dividere il valore di una unità aggiuntiva o marginale di prodotto (che vale uno per definizione) per il suo costo aggiuntivo o marginale mediamente necessario.
Allora non è difficile capire che lo sviluppo tecnologico degli ultimi 40 anni permette di produrre una unità aggiuntiva di prodotto ad un costo marginale quasi irrilevante, rispetto al costo marginale di 40 anni fa, ma adesso è esplosa una contraddizione evidente.

40 anni fa nelle società più sviluppate, grazie a politiche di piena occupazione, spesa pubblica crescente per lo stato sociale e contrattazione collettiva del lavoro, la maggior parte dei membri della società aveva soddisfatto ampiamente i bisogni primari (quelli improcrastinabili, se accompagnati da un potere d’acquisto sufficiente) ed aveva iniziato a consumare sempre meno del 100% del reddito aggiuntivo (cioè ad avere una propensione marginale al consumo sempre minore).

Progressivamente si è poi arrivati ad un progresso tecnico che faceva aumentare la produttività più dell’aumento dei bisogni secondari, cosicché il capitale consumato (o logorato) e reintegrato poteva produrre di più di quanto fosse necessario farlo. Questo cominciò a rendere semplicemente inutile acquistare più capitale e ad avere una tendenziale stagnazione (o perfino possibile una recessione).
Se però i mercati, sia dei consumi, che delle merci intermedie, rimanevano stazionari, ciascuna impresa poteva consumare delle risorse aggiuntive per cercare di conquistare una quota di mercato maggiore (a scapito delle quote dei suoi concorrenti). Poiché tutte le imprese facevano quelle spese, non aumentava la domanda dei mercati (a parte la piccola domanda aggiuntiva dovuta proprio a quelle risorse aggiuntive spese), ma ora era diventato necessario fare quelle spese per mantenere la propria quota di mercato. Insomma crescevano quelle spese di marketing, pubblicità, relazioni pubbliche, lobby, regalìe, promozione, e così via che erano diventate necessarie per poter mantenere le proprie quote di mercato. Al tempo stesso gli aumenti di produttività rendevano possibile creare sempre maggiore margine di contribuzione lordo che potesse spesare una crescente quota di capitale totalmente improduttivo, ma necessario alle imprese per competere sui mercati.
Una evidente manifestazione fenomenica di ciò è rappresentata da mercati diversi, nell’ambito di aree di mercato a libera circolazione, come all’interno della stessa UE, dove una identica merce ha prezzi estremamente diversi, cosa spiegabile soltanto dal fatto che in un paese la stessa merce ha un prezzo maggiore e dunque un maggiore margine di contribuzione lordo, che però deve compensare spese commerciali improduttive molto maggiori e viceversa quel mercato più ricco, dove le imprese possono permettersi prezzi maggiori e maggiori margini di contribuzione lordi, essendo molto più ambito, vale l’investimento maggiore in capitale commerciale improduttivo più grande, necessario per mantenere una quota di mercato così ambita. Insomma il costo della vita in Germania è molto maggiore che in Portogallo, cioè le stesse merci o merci equivalenti costano in Germania molto di più che in Portogallo.


12) Dopo il ritorno al neoliberismo, la crisi di molti paesi del terzo mondo (America Latina ed Africa) e la relativa stagnazione nei paesi più sviluppati si deve a cause simili a quelle che causarono la crisi degli anni ’20 del novecento o è dovuta al fatto che il terzo mondo ha dovuto imparare ad essere più competitivo ed i paesi più sviluppati hanno smesso di vivere al di sopra delle loro possibilità economiche sfruttando quelli meno ricchi?

(M. Parretti):

Il neoliberismo, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, ha cominciato a strangolare finanziariamente i paesi del terzo mondo in via di sviluppo, costringendoli ad abbandonare le politiche keynesiane. Ragioni politiche strategiche in estremo oriente avevano condotto ad aprire i mercati del primo mondo alla produzione dell’est asiatico. Invece in Africa ed America Latina le politiche keynesiane avevano incontrato un ostacolo nelle continue esportazioni di capitale, che limitavano il ritorno fiscale sulle attività indotte dalla spesa pubblica, per cui le borghesie locali in quei due continenti avevano regolarmente esportato i loro profitti, sottraedoli al controllo ed alla pressione fiscale del proprio paese ed andando a costituire regolarmente dei depositi bancari negli USA, in Europa e nei “paradisi fiscali”. Spesso quei profitti, convertiti in dollari, erano poi prestati dalle banche ai paesi d’origine, che si indebitavano verso l’estero, anziché verso i propri cittadini.

Talvolta politiche protezionistiche impedivano che le loro bilance di pagamento, già appesantite dalla esportazione di valuta, portassero ad ipersvalutazioni continue.
Una politica di pressione ed accordi sul petrolio e le materie prime portò alla situazione per cui, piani di indebitamento estero, basato, ad es., sul prezzo del petrolio di 35$/barile, con proiezioni a 90$/barile, si scontrassero con un prezzo che passò bruscamente a soli 15$/barile e rimase tale per più di vent’anni. Le politiche neoliberiste e monetariste obbligarono i paesi del terzo mondo ad abbattere le loro protezioni doganali ed a fare una politica monetaria di stabilità della loro valuta, impedendo ogni politica sociale perché i profitti nazionali dovevano pagare tassi sul debito nazionale in dollari >10%/anno, continuare a coprire la continua esportazione di capitali ed avere un bilancio in pareggio.

Paesi come Messico, Brasile, Argentina, Venezuela, Nigeria e così via furono devastati socialmente ed obbligati a ridurre i salari fino a dover concorrere sui mercati basandosi sul basso costo della mano d’opera. Inizialmente i paesi sviluppati trassero vantaggio dal basso costo delle materie prime e dai risparmi su questa pesante voce della loro bilancia dei pagamenti, ma poi si trovarono di fronte dei paesi che non avevano denaro per importare ed obbligati a competere sui bassi salari, dove cioè era diventato possibile produrre a basso costo.

Negli anni ’90 poi si aggiunsero i paesi ex comunisti dell’est Europa, con mano d’opera qualificata ed a basso costo. Con l’improvviso e brutale impoverimento del terzo mondo e l’entrata nei mercati dei paesi del secondo mondo con mano d’opera ad alta scolarità ed a basso costo, a mercati aperti e globalizzati ed il terzo ed il secondo mondo devastati dalla povertà (tutti i paesi ex comunisti impiegarono più di 10 anni dalla fine del comunismo per tornare ad avere il PIL che avevano) diventarono le aree dove delocalizzare progressivamente le produzioni ed al tempo stesso i fornitori di mano d’opera a basso costo immigrata nei paesi del primo mondo a sostituire potenzialmente la mano d’opera locale e costringerla alla concorrenza anche interna.

Con la globalizzazione e la deregulation dei mercati, divenne impossibile fare una politica di welfare ed il lavoro fu costretto ad accettare di nuovo la concorrenza tra lavoratori, che fu (ed ancora è) addirittura teorizzata.

Il controllo dei mercati, mediante capitale commerciale e finanziario improduttivo, permette di avere paesi a diverso costo della vita e diverso costo dei salari ed una concorrenza capitalistica, che non è più tra le imprese, ma tra gli stessi paesi, cioè tra le stesse diverse economie nazionali e quindi tra i lavoratori.

Ritorna perciò progressivamente la compressione dei salari, reintrodotta abolendo le tre misure del periodo keynesiano, cioè

  1. la contrattazione collettiva (che ora servirebbe almeno europea, se non internazionale),

  2. la piena occupazione (sostituita da una disoccupazione e sottoccupazione) e

  3. la riduzione delle prestazioni dello stato sociale.

Il neoliberismo tornò a teorizzare che <la riduzione dei salari porta a maggiori profitti e maggiori investimenti, quindi allo sviluppo e ad una nuova occupazione>.

Quarant’anni di liberismo dimostrano che siamo tornati drasticamente ad un progressivo impoverimento di quella che era diventata classe media e che ora assiste impaurita ed impotente al processo della sua progressiva riproletarizzazione, sempre più simile alle condizioni dei lavoratori del secondo e terzo mondo.

La misura incoerente della produttività, ottenuta dividendo il PIL per le tutte le ore lavorate (comprese quelle improduttive, che sono la quasi totalità) fa apparire (e permette ai neoliberisti di teorizzare) che la crisi del neoliberismo si deve al fatto che, dopo 40 anni di sviluppo tecnologico bestiale, la produttività è magicamente rimasta all’incirca la stessa.

Poichè i dogmi del neoliberismo hanno pervaso anche la sinistra, non manca perfino chi, tra gli stessi progressisti, imputi la scarsa “produttività ufficiale” attuale al fatto che ora il terzo mondo sia “meno sfruttato” e perfino chi ritenga positivo che il lavoro si sposti verso i paesi a basso costo del lavoro, perché così possono progredire, mentre sarebbe da considerare normale che i lavoratori del primo mondo stiano peggio perché prima avevano vissuto al di sopra delle loro possibilità, “indebitandosi a scapito delle nuove generazioni”! Insomma l’Europa del gloioso trentennio keynesiano (’45-’75) avrebbe sfruttato la Cina e l’India!

13) La crisi dell’occupazione (soprattutto giovanile) è dovuta alla incapacità delle nuove generazioni a competere con i lavoratori dei paesi meno ricchi (perché sono stati viziati e sono abituati a vivere alle spalle del terzo mondo) o il neoliberismo ha ricreato condizioni che spingono alla disoccupazione ed alla diminuzione dei redditi dei lavoratori?

(M. Parretti):

Il fallimento di 40 anni di politiche liberiste, che hanno provocato disoccupazione ed abbassamento dei redditi e dei diritti dei lavoratori, stagnazione produttiva sono così poco contrastate sul piano della teoria economica, da far dimenticare che il capitalismo è in crisi

Il capitale “produttivo” era composto da lavoro in processo e mezzi di produzione, che erano “assolutamente necessari” per produrre una certa quantità di unità di una certa merce (ad es., abiti o automobili).

Infatti erano capitale produttivo principalmente il capitale circolante ed il capitale fisso che entrava nel prodotto per il suo logoramento, cioè capitale che si consumava come “costi variabili”, cioè proporzionali alle quantità prodotte.

Questo significava la possibilità di poter produrre quella merce e gli unici problemi erano che quel capitale fosse allo stato dell’arte (cioè potesse produrre quella merce ai costi usuali) e che ci fosse a breve tempo una domanda per quella merce.

Le cosiddette “proprietà intellettuali” o i “Brand name” non si logora facendo le copie e sono necessari solo perché la legge permette solo a chi ha la “proprietà intellettuale” o il possesso del “Brand name” di copiarlo e proibisce agli altri di farlo.

Proibisce di cantare la canzone di un altro.

Proibisce di fotocopiare il libro di un altro.

Proibisce di fare un abito uguale ad un altro.

Proibisce di scrivere su un capo di abbigliamento il nome di un altro.

Proibisce di produrre una medicina inventata da un altro.

Proibisce di seminare piante selezionate o geneticamente modificate da un altro.

Sono queste proibizioni che creano quegli “immobilizzi immateriali”, che costituiscono quello che talvolta è indicato come “capitale cognitivo”, ma che non è costituito soltanto da “conoscenze”, ma anche da “relazioni sociali”.

Il “brand name” non è altro che una “relazione sociale” costruita con il “mercato” (cioè con le persone che consumano) dalle campagne pubblicitarie.

Le “relazioni pubbliche” sono costituite da conoscenze di funzionari pubblici (entrature), consolidate da promozioni personali (regalie), lobby (capaci di orientare la legislazione).

Come si spesano (da quale plusvalore) questi “investimenti immateriali” che danno luogo ad “immobilizzi immateriali”, cioè a “capitale intangibile“?

La risposta è semplice concettualmente ed è costituita dal fatto che il lavoro “produttivo”, così come inteso da Marx, ma anche dalla contabilità industriale, è diventato complessivamente estremamente minoritario e capace di produrre con l’automazione una quantità enorme di merci, cioè di valore, per cui il plusvalore, rispetto al valore dei salari è enormemente alto.

Questa enorme massa di plusvalore può essere appropriata da chi si è impadronito di quelle “relazioni” e “conoscenze”, che permettono di mettere arbitrariamente un prezzo alla “conoscenza” ed alle “relazioni”.

Poiché questo capitale intangibile ed improduttivo è solo “arbitrariamente necessario”, non solo non serve a produrre di più, ma invece a produrre più capitale senza produrre di più.

Dunque il capitale improduttivo “arbitrario” occupa solo una parte della crescente produttività, cioè della crescente capacità di produrre lo stesso valore (a prezzi costanti) con meno lavoro.

Il risultato netto non può che essere costituito da una necessità di lavoro continuamente decrescente, dovuta proprio alla continua straordinaria crescita della produttività ed aver reintrodotto la concorrenza basata sul costo del lavoro e quindi sulla compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori, abbassandone il loro tenore di vita, aggrava enormemente la stagnazione, accompagnata da una decrescente disoccupazione.

Sostituire un lavoratore ben pagato del primo mondo con uno mal pagato del secondo o del terzo mondo, abbassa i consumi complessivi dei lavoratori ed aumenta la stagnazione, come dimostra il tasso di interesse reale (cioè al netto della svalutazione e della percentuale di insolvenza) del denaro, negativo da decenni.

14) Il fatto che molti anziani vivano a lungo e le loro pensioni debbano essere pagate dai giovani lavoratori, così come le prestazioni dello stato sociale, può essere la causa del peso eccessivo di tasse e contributi previdenziali, che aumentano il costo del lavoro, riducono i redditi netti e rendono poco competitivi i lavoratori dei paesi più sviluppati?

(M. Parretti):

Sicuramente un lavoratore, dal cui reddito da lavoro vengono spesati, mediante i contributi previdenziali che versa, le pensioni attuali e, mediante le tasse che paga, i servizi attuali e la spesa sociale attuale dello stato, ha un costo maggiore del suo lavoro se la percentuale del costo del suo lavoro che va in tasse e contributi previdenziali ed assicurativi (il cd cuneo fiscale) è maggiore.

Ma quel “cuneo fiscale” si chiama “civiltà” e rappresenta la differenza tra le condizioni originarie ottocentesche di un proletariato che doveva lavorare da fanciullo fino alla vecchiaia e quelle moderne, nelle quali, da giovane e per lungo tempo, può studiare e preparasi ad una vita attiva consapevole e colta, da vecchio, può continuare a vivere comodamente senza dover faticare e, durante tutta la vita, può contare sulla protezione attiva che garantisce lui ed i suoi familiari una assicurazione contro le malattie, gli infortuni, le minorazioni, le avversità casuali, come incendi, inondazioni, terremoti, disoccupazione e così via.

La produttività, enormemente crescente permetterebbe che il lavoratore potesse spesare una grande percentuale del costo del suo lavoro (salario totale lordo) e quindi sopportare un “cuneo fiscale” crescente ed una continua riduzione del suo orario di lavoro, quando è produttivamente attivo, ma il ripristino delle condizioni ottocentesche di concorrenza tra lavoratori, come abbiamo visto sotto tutti gli aspetti, rappresenta proprio il fatto che, quando cresce la produttività, la copressione relativa del salario dovuta alla concorrenza tra lavoratori, rende il capitalismo contraddittorio ed ostacolo ad ogni ulteriore sviluppo.

Quindi, qualunque sistema economico si voglia, possa o debba immaginare, è condizione necessaria eliminare definitivamente ogni forma di concorrenza tra i lavoratori.

Nel frattempo, poiché il superamento della concorrenza tra i lavoratori riguarda anche le relazioni ed i trattati internazionali, occorre proteggere il lavoro dalla concorrenza dei paesi a bassi salari, in tutti i modi possibili, a partire dalla protezione fiscale.

Occorre quindi tassare i risparmi e le spese improduttive invece del lavoro.

 

15) Quali sarebbero le eventuali condizioni necessarie per poter effettivamente produrre ciò che soddisfa i crescenti bisogni reali con un orario di lavoro sempre minore?

(M. Parretti):

Per tutto quello che abbiamo visto nelle risposte alle domande precedenti, ci sono possibilità tecniche per poter avere un orario di lavoro estremamente più ridotto, considerando che la produzione potenziale delle imprese è enormemente maggiore di quella reale, che il lavoro ed il capitale produttivo, strettamente necessari alla produzione, sono estremamente ridotti e si vanno riducendo ulteriormente ad un ritmo velocissimo, che la stragrande maggioranza dei costi sostenuti dalle imprese è costituita da spese improduttive e dannose.

Occorre però combattere direttamente la condizione di necessità, che ha caratterizzato il capitale intangibile improduttivo e sterilizzarne gli effetti operativi, ad es., istituendo marchi di qualità statali e detassando le merci “no brand” coperte dai marchi di qualità.

Altre misure possono essere: l’abolizione tendenziale di ogni forma di concorrenza tra lavoratori, detassazione del lavoro, tassazione del risparmio, tassazione delle spese improduttive, permesso di poter effettuare ogni produzione nazionale senza limitazioni di proprietà intellettuale o di marchio, protezione della proprietà intellettuale direttamente assicurata dallo stato e sviluppo di enti collettivi di ricerca tecnica senza fini di lucro.