La Transizione digitale come biforcazione storica

di S. Bellucci

La fase storica che stiamo vivendo non è inquadrabile nel concetto di crisi ma in quello di transizione. La rivoluzione tecnologica è anche una rivoluzione sociale e politica e sta producendo i suoi esiti in conflitto con i vecchi assetti del mondo industriale e finanziario. Il lavoro salariato perde la sua centralità pur mantenendo la sua forma di sfruttamento ma ad esso si affiancano nuove forme di estrazione del valore basate sulla logica della gestione dei dati. La lotta si configura tra i modelli centralizzati e quelli decentralizzati e l’abilitazione di produzione diretta di valore d’uso.

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Il fattore chiave per comprendere le trasformazioni in atto e scegliere le opportune linee di azione, attiene alla valutazione della fase. La maggioranza delle analisi parte da una “tradizionale” percezione degli accadimenti e li inquadra all’interno della categoria della “crisi”. All’interno di questo approccio, inoltre, si sviluppa la convinzione di un recupero o della vecchia forma di stabilità (sia economica, sia di modello sociale e statuale) o del possibile “ritorno” a forme di contestazione, conflitto, lotta che consentirono, soprattutto nel secolo lungo del capitalismo industrial-finanziario di acquisire conquiste sociali, diritti, forme di rappresentanza in grado di produrre processi di identificazione e di delega. Questo anche nelle formazioni politiche e sociali che, pur auspicando un cambiamento “generale”, continuano a pensare che esso possa essere prodotto a partire dal “recupero” della “forza” (politica e sociale) che in passato avevano avuto le organizzazioni del mondo del lavoro.

Una sorta di ossimoro storico: per cambiare occorrerebbe ripristinare!

Tra l’altro illudendosi che il precedente “equilibrio” – che equilibrio non è mai stato – potesse essere foriero di un cambiamento “strutturale” della formazione economico-sociale in cui è immersa la società umana. Su questo stesso fronte del “ripristino” – e non è un caso – si incontrano le vecchie élite che ormai hanno compreso la messa in discussione dell’equilibrio sociale ed economico precedente e vedono il loro ruolo messo in discussione dalle dinamiche emergenti. Non è un caso che da queste élite di dimensione sovranazionale, legate al vecchio e, in realtà, instabile “sistema”, si sia lanciata l’ipotesi di un Piano di Ripresa e Resilienza, due termini che alludono esplicitamente al tentativo di “recupero” di un modello che anche loro, ormai, giudicano giunto al punto di rottura.

La categoria della crisi, a mio avviso, si può applicare sul piano storico ed economico solo ad una fase di modificazione degli equilibri interni ad una forma “stabile” di modello socioeconomico. La crisi si produce in continuità con il modello di generazione del valore e rappresenta una sorta di “ottimizzazione”, spesso di tipo darwiniano, del sistema in funzione. Le modificazioni possono passare anche per momenti tragici e duri e che può contenere anche fasi distruttive generalizzate, pensiamo alle esperienze novecentesche delle guerre mondiali, ma che non mettono in discussione la natura della formazione economico-sociale sottostante. Certo, durante un momento di crisi si possono innestare rotture di tipo “rivoluzionario” (intendo qui per rivoluzione, in termini classici, il concetto di cambio della classe dominante e soprattutto della “logica di generazione del valore”) ma che, quasi sempre, si traducono in semplici rotture delle élite al comando e non alla modificazione strutturale della forma della produzione del valore e del sistema delle attività umane connesse (in altri termini, le forme del “lavoro”). Al di là dei “nomi” delle persone che al termine della “crisi” risultano al comando (economico e politico) e della provenienza dei singoli componenti della élite che si appropria (o mantiene) il potere, la modalità di produzione, i rapporti tra le classi, rimangono sostanzialmente immutate pur se in condizioni differenziate di applicazione di vari modelli di Welfare State.

La Storia, infatti, non è mai neutra ed è sempre un errore pensare di poter attendere che chi sta al “comando” termini i suoi conflitti per riprendere un terreno di rivendicazione.

La crisi, però, non è la categoria di questa fase storica. Personalmente, infatti, sostengo da oltre un decennio che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale – nei suoi vari paesi e con forme leggermente diverse, frutto delle storie e degli equilibri “locali” – sia giunta ad un passaggio più significativo, un passaggio di fase, quello, cioè, di una Transizione. Occorre, in questo contesto però, declinarne il senso, evitando di scambiare il concetto teorico della “transizione” per la vulgata governativo-giornalistica contenuta nei documenti e negli annunci dei governi. Transizione ecologica o transizione digitale, infatti, sono termini usati per definire forme di intervento “a sostegno” di un modello economico-sociale che non allude a nessun cambio di testimone storico al comando delle nostre società. In altre parole, dal punto di vista politico, sono degli ossimori. Ma tanto, oggi, è uso reinventare “categorie” come cambiare le scarpe e riusare le parole che, svuotate del loro significato precedente, possono essere buone per qualunque operazione di marketing comunicativo. È uno degli effetti della “caduta del saggio di significato” delle parole derivante dallo scambio linguistico del valore dei significanti prodotto dall’inflazione comunicativa determinata dall’esplosione abilitata dalle tecnologie digitali e che ha subito una accelerazione fortissima dall’avvento dell’epoca dei social o del web 2.0. Ma questa è un’altra storia che ho affrontato in altri luoghi e che non riguarda solo la riproduzione del valore di scambio e valore d’uso del linguaggio. Su questo punto dovremmo recuperare un po’ dei lavori di un nostro teorico italiano che indagò negli anni ’60 questo terreno come Rossi-Landi che lo portò a usare nel sottotitolo di un suo libro che fosse necessario “un uso marxiano di Wittgenstein” (Rossi-Landi, 1968). So perfettamente, inoltre, del significato “denso” che il termine Transizione ha occupato nell’immaginario (e quindi nel senso) delle organizzazioni operaie.

Proviamo, quindi, a ricostruire un quadro concettuale condiviso (non necessariamente condivisibile da tutti ma necessario per comprendere la tesi che sto esponendo). Per decenni, infatti, nella tradizione delle organizzazioni del movimento operaio il termine “transizione” è stato sinonimo del passaggio dalla società capitalistica alla società socialista. Fu il retaggio di una rappresentazione storica che indicava il capitalismo come l’ultima formazione economico-sociale prima del comunismo e che necessitava di un passaggio (di una “transizione” di modello) che, nella vulgata, era schematizzato con la fase di comando sociale e politico della classe proletaria realizzabile nella società socialista. Dentro questo quadro teorico-culturale rimane (tristemente) famoso lo scivolone storico-politico del capo del PCUS Leonid Brežnev per il cambio di Costituzione dell’URSS del 1977 in cui si affermava, sostanzialmente, il consolidamento della fase “socialista” dello sviluppo dell’URSS e dell’uomo sovietico e, in pratica, l’inizio della fase dell’edificazione del Comunismo. Al di là delle nostre considerazioni (del tempo o postume) è illuminante la “sintesi” schematica del processo storico così come lo si era “mentalmente programmato” attraverso uno schematismo di stampo staliniano e diffuso ampiamente nelle “coscienze della classe”.

Quello stampo culturale, inoltre, non era e non è patrimonio “esclusivo” delle organizzazioni operaie e, in particolare, dei comunisti. La capacità “egemonica” di quella rappresentazione schematica fu introiettata per lungo periodo nel profondo dei corpi sociali. Dentro lo stesso schema anche se in termini completamente contrapposti, infatti, possiamo inserire l’illusione storica del concetto elaborato dal politologo Francis Fukuyama con il suo La fine della storia, pubblicato nel 1992 a ridosso del crollo del Muro di Berlino e della fine dell’URSS. La sconfitta del modello “socialista” del campo dell’URSS aveva convinto molti che la “storia” avesse raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo, snodo epocale a partire dal quale si sarebbe aperta una fase finale della avventura umana, la conclusione della storia in quanto tale. Detta in altre parole, l’ultima transizione si sarebbe consumata nel passaggio dall’economia feudale al capitalismo e questa formazione economico-sociale sarebbe stata in grado di modificarsi all’infinito senza modificare il suo cuore, restando per sempre interna e fedele al suo schema di fondo.

In realtà, occorre inquadrare il concetto di “Transizione” in termini di categoria politica, cioè in senso “generale” come passaggio da una modalità di produzione del valore ad una successiva, più “efficiente” e che risulta portatrice di una nuova forma di società. Un passaggio che necessita, produce e spinge differenti gradi di relazione umana, nuove forme giuridiche e istituzionali, nuove forme del “lavoro” e processi di accumulazione. Una società “nuova”.

Per tutta la storia del movimento operaio abbiamo introiettato l’idea che la vicenda umana era giunta ad una situazione che potremmo così sintetizzare: la società è arrivata al capitalismo e ora questa formazione economico-sociale della borghesia o estende il suo dominio restando salda al comando o – dovendo sviluppare sempre di più il suo asservimento con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e aumentando le masse sempre più impoverite da questo sfruttamento – produrrà la rottura che porterà ad una forma di potere in cui sarebbero state le masse a determinare i nuovi vincoli sociali di produzione e di scambio. Più si sviluppava il capitalismo, più si sviluppavano le forze antagoniste in grado di contendergli il comando. L’avvento di un nuovo grado di libertà nel percorso evolutivo umano era figlio di questo schema.

All’interno di questo modello la Transizione o sarebbe stata verso il socialismo o non sarebbe stata. La transizione era la questione del passaggio al Socialismo. Questo schema, introiettato per decenni, ancora “lavora nel profondo” delle posizioni politiche e culturali delle sinistre e impedisce di comprendere la “fase”. Tutte le trasformazioni gigantesche in atto, proprio perché alludono a processi di potere sempre più potenti ed elitari, continuano ad essere “letti” come una sorta di sviluppo “interno” al sistema, una ulteriore “fase del capitalismo”, scambiando le forme di potere autocratico che accompagnano questo passaggio storico come elemento di continuismo capitalistico. Infatti, se si misura una formazione economico-sociale per i suoi aspetti esteriori di potere si regala la fase storica ai potenti di turno. Nell’Ottocento, ad esempio, una analoga impostazione non avrebbe trovato nulla di diverso tra lo sfruttamento delle campagne e quello delle fabbriche. L’individuo continuava ad essere “sottomesso” a forme di potere schiaccianti di élite più o meno identiche. Aver compreso la differenza tra la condizione contadina e quella dell’alienazione operaia, invece, consentì di gettare le basi sia per le rivendicazioni sociali e salariali, sia per acquisire l’ardire di voler alzare gli occhi al cielo e “rivendicare il diritto al potere”.

In ogni caso, la “storia” si è incaricata di smentire lo “schematismo” positivista di stampo otto-novecentesco e ci sta ponendo di fronte ad un altro passaggio storico, quello di una “transizione” di nuova generazione anche in termini “quanto-qualitativi”, una transizione “oltre-capitalistica” ma non necessariamente “socialistica”. Nuove forme di produzione del valore avanzano, nuove attività umane generano valore senza essere “salariate”, vecchie forme istituzionali, di potere, giuridiche muoiono o vengono “svuotate” e, ben presto, si afflosceranno in ritualità che senza più un “senso” e capacità di rappresentanza e rappresentatività.

Le novità di questa “transizione” riguardano innovazioni e trasformazioni che sono non solo ubique, parallele e, praticamente, globali (per la prima volta nella storia) ma intervengono non solo sul piano economico-sociale (e solo indirettamente e secondariamente sulla realtà umana determinando anche un indirizzo nel destino vitale del singolo ma anche nello sviluppo evolutivo della specie come per ogni “transizione” precedente). Questa Transizione si nutre della capacità di intervento diretto su cose come l’intervento sui codici genetici della vita modificando la traiettoria evolutiva della vita sul pianeta e su quello della stessa specie umana, sulla produzione di materiali inesistenti in natura e assemblabili nano-tecnologicamente, nella produzione di “intelligenze” non a base carbonio, più o meno fisiche che siano, le sottostanti logiche comunicative basate sull’ipertestualità forgiano strutture neurali e cognitive di nuova specie producendo alterazioni e possibilità relazionali completamente nuove. La comprensione-visione del mondo si trasforma e de/forma le vecchie immagini del sé e della propria collocazione nel consesso sociale. La potenza tecno-scientifica di questa Transizione non ha paragoni e basa il suo salto sui processi di simulazione della realtà e della sua riproduzione (i famosi gemelli digitali) che annunciano lo sviluppo di vere e proprie riproduzioni e produzioni di ambienti in cui vivere, lavorare e giocare. La simulazione, nell’ambito scientifico, ha modificato alla radice la stessa forma della scienza e dei suoi modelli di funzionamento e l’accelerazione introdotta dai Big Data e dell’Intelligenza Artificiale scoprono connessioni, regole e leggi di funzionamento di ambienti, materiali, elementi che l’umano non stava neanche ricercando. L’estrazione di informazioni dall’ambiente, dalla società, dall’individuo stanno producendo un accumulo di conoscenza sulla realtà che produce direttamente valore. Sul piano meramente economico questo salto sta producendo “unicorni” che presto o tardi avanzeranno, “necessariamente”, la loro necessità nella sfera del “politico”. Una fase che non dobbiamo immaginare come una “discesa in politica” nelle forme del ‘900 e all’interno delle vecchie forme statuali (che stanno subendo un crollo in termini di rappresentatività e di rappresentanza) ma che sarà totalmente innovativa e capace di “attirare”, come un magnete, masse di cittadini digitalizzati senza più “guide” sociali o politiche o istituzioni in cui “credere”. La stessa forma delle “istituzioni democratiche”, infatti, è ormai in discussione. Figlie delle rivoluzioni delle borghesie imprenditoriali nazionali e basate sullo schema della separazione dei poteri di stampo settecentesco, la forma del politico scaturita dalle forme costituzionali nazionali già oggi ha perso molte delle prerogative di indipendenza e sovranità a favore di istituzioni e luoghi decisionali che non rispondono ad alcuna “base elettiva o rappresentativa”. La crisi verticale delle istituzioni democratiche, inoltre, riapre la porta a ipotesi (e richieste sociali) di possibili “ripristini” di forme di “potere assoluto” che, in diverse forme e modi, è già sull’uscio della porta della maggior parte delle cosiddette “democrazie avanzate”. Una crisi che non è confinata ad un singolo paese ma attraversa tutto l’Occidente e determinata sia della farraginosità delle varie storie “locali”, figlie delle storie nazionali che trasforma le differenze “statuali” delle forme decisionali in vincoli e costi per l’economia di scambio globale, sia dalla crisi (economica e di prospettiva della sua vecchia forma di produzione del valore) della classe sociale “borghese” locale – che aveva rivoluzionato la società contro il potere assoluto sulla base della rivendicazione “liberale” come il regno delle nuove libertà umane – che vede svanire il “ponte di comando” sicuro, affidabile, snello e impermeabile alle necessità sociali, sempre più corporativizzate, delle istituzioni nazionali. Le richieste di “presidenzialismo”, ove non esista già una neonata forma di ancien regime con “un uomo solo al comando”, si sommano alle prassi istituzionali in atto che spingono i governi a fare – e rivendicare il diritto a farle – direttamente le leggi e ad applicarle senza intermediari (in primo luogo sociali) e che vedono i parlamenti, ormai, svolgere solo una funzione di ratifica delle decisioni prese, spesso, del solo premier in carica. È imbarazzante vedere come i residui del pensiero liberale, in quasi tutti i paesi, rivendichino per loro questo esito svelando con ciò la loro fedeltà più che al principio del liberalismo, al mantenimento del potere della loro classe sociale oggi al comando.

È la potenza della nuova formazione economico-sociale emergente a produrre lo smottamento che le vecchie classi al comando stanno temendo. Anche se la contrapposizione tra vecchia classe al comando e nuova classe che si candida al potere appare più sfumata di altre rotture storiche, la discontinuità non solo è netta sul piano della natura del processo produttivo – il passaggio dalla economia materiale al ciclo immateriale (1) visibile con l’osservazione plastica del valore della capitalizzazione delle aziende mondiali – ma ha assunto dimensioni che la vecchia economia materiale non si sarebbe mai sognata di raggiungere. È di questi giorni, ad esempio, l’annuncio che la Apple ha superato la quotazione di tre trilioni di dollari, una valutazione che inserisce Apple sopra il PIL francese e lasciandosi alle spalle, in maniera consolidata, paesi come Regno Unito, India, Italia. La sua sola valutazione rappresenta 1/7 del PIL degli USA e in soli 6 mesi ha incrementato il suo valore di una entità pari al PIL di paesi come la Turchia, la Svizzera o l’Arabia Saudita. Microsoft 2,563 Trilioni, Alphabet 2,899, Facebook 0,9, Amazon 1,8 rappresentano, ormai, non solo la nuova ossatura del mercato finanziario e della economia statunitense e mondiale, ma una dimensione “critica” che pone questi colossi sul “confine” della ricerca della loro autonomia “politica”. I corrispettivi colossi cinesi, infatti, non sono altro che il contro-altare della situazione degli USA anche se il regime politico della Cina popolare consente alla dimensione politica ancora elementi di autonomia se non di controllo. Solo l’Europa è al palo, incapace di comprendere e incarnare il processo di trasformazione della produzione del valore che è contenuto nella grande rivoluzione (intesa proprio in termini classici) rappresentata dal digitale. La potenza accumulata nella produzione industriale classica (e che vede la Germania al centro di questo modello di sviluppo) impedisce di “vedere” le nuove forme e, probabilmente, condanneranno l’Europa ad incarnare realmente la sua definizione comune, quella di Vecchio Continente.

Per tutta la fase di sviluppo delle nuove forze produttive legate alla produzione del valore della nuova fase aperta dalla rivoluzione digitale, inoltre, il sistema finanziario si è valso della potenza insita nella nuova forma di produzione del valore. Anche questo grande “patto”, però, mostra le sempre più inevitabili crepe. L’avvento delle tecnologie Blockchain, infatti, non solo sta rendendo sempre più semplice ipotizzare la produzione di moneta “al di fuori” degli schemi consolidati nel ‘900 (Banche centrali, sistema bancario, mercati borsistici, scambio Out the Market, ecc…) ma consente di ipotizzare forme di scambio del valore completamente differenti, sia nelle nuove forme centralizzate, sia nelle forme decentralizzate. Il conflitto vero, a mio avviso, è proprio tutto qui: forme centralizzate di acquisizione, elaborazione e utilizzo dei dati e forme decentralizzate e autogestite di essi. Su questo terreno si svilupperà, proprio all’interno delle nuove forze produttive che si candidano al potere, il terreno del confronto e dello scontro. Per questo non è neutro il suo esito e non è utile “ignorarlo” o “aspettare che il potere si consolidi” (in una delle sue versioni) per poi rivendicare di nuovo pezzi di diritti, regole e forme di rappresentanza all’interno di istituzioni che saranno quelle “necessarie e utili” allo sviluppo delle nuove forze produttive. Questo scontro innerva, necessariamente, anche il campo del lavoro, riproponendo il tema del suo soggiogamento o meno allo schema di sfruttamento capitalistico (cioè la sua condizione salariata). Centralizzazione o autogestione, infatti, rappresentano il terreno o della alienazione o della liberazione delle attività umane necessarie legate alla produzione dei valori d’uso di cui l’intera società ha bisogno per le sue libere espressioni e autorealizzazioni individuali e collettive.

Per comprendere la fase dobbiamo ricostruire l’impatto del digitale nella società partendo da due assi: il lavoro e la produzione del valore.

Come sostenni nel mio E-Work. Lavoro, rete, innovazione (Derive e Approdi, 2005) il primo impatto delle tecnologie digitali si manifestò nella modifica delle forme dell’organizzazione del lavoro tayloristico-fordista. La nuova potenzialità del digitale rendeva flessibile e liquida la forma del ciclo produttivo e l’organizzazione del lavoro diventava “smaterializzata” attraverso la potenza degli algoritmi. Chiamai quella fase quella del taylorismo digitale (2), la fase in cui i processi di parcellizzazione, cooperazione e controllo venivano reinterpretati ed “esplosi” sotto la potenza ubiqua delle tecnologie digitali ed estendevano la loro capacità pervasiva ai comparti delle attività umane ancora non raggiunte dalle logiche tayloristiche. Gli effetti attraversarono tutta la prima fase della Globalizzazione, con il loro portato di decentramento aziendale, smantellamento delle unitarietà aziendali e conseguente riduzione delle capacità di contrattazione, allocazione di pezzi dei cicli produttivi aziendali nei corpi sociali (vendite online, gestione diretta delle logiche di marketing, ecc…), inizio dei processi di alta automazione della produzione (aumento della capacità produttiva del capitale fisso che, arricchito dalla “potenza dell’intelligenza” connessa al calcolo digitale, iniziava una sua trasformazione forse definitiva), smaterializzazione delle forme “dei tempi e metodi” del controllo del ciclo tayloristico e il loro inglobamento all’interno del software. La velocità di “sussunzione” nel capitale fisso del “saper fare del lavoro vivo” ma soprattutto la sua nuova potenza legata alle capacità di introiettare nel software intere mansioni, avevano fatto entrare il lavoro (salariato) dentro una nuova fase della storia. La sua capacità rivendicativa crollò verticalmente e le sue ambizioni di rappresentare una “alternativa” storica nelle forme del potere svanirono all’istante.

La rivoluzione digitale, però, non si limitò alla trasformazione del lavoro salariato e alla sua definita sottomissione attraverso lo svuotamento interno della potenziale alterità che lo aveva caratterizzato fino a quel momento. Aver perseguito per decenni rivendicazioni e generato conflitto solo su quello che chiamavamo plusvalore assoluto e plusvalore relativo (salario e orario, più una manciata di regole per garantirci che fossero rispettati i patti…) e aver tralasciato, in maniera colpevole, il cuore del conflitto tra lavoro e capitale, condannò il mondo del lavoro alla reale marginalità strategica nella quale si trova oggi. Fu proprio l’incapacità di contrattare sul terreno della “sussunzione reale”, la capacità del capitale di estrazione del saper fare umano e del suo inglobamento nel sistema macchinico della produzione a produrre un progressivo indebolimento strategico delle capacità di difendere il lavoro salariato. Questo aspetto fu completamente ignorato per incapacità e miopia conducendo alla sconfitta strategica il movimento del lavoro salariato probabilmente per la natura “meccanica” dei sistemi macchinici sperimentata dall’umanità nel corso della sua storia. La capacità e la velocità di sussumere nel capitale fisso delle tecnologie meccaniche la conoscenza operaia e, più in generale, del lavoro salariato, era di diversi ordini di grandezza inferiori delle nuove macchine “a controllo numerico” (come venivano chiamate le prime macchine messe sotto il controllo digitale).

Le tecnologie investite dalla potenza digitale, infatti, viaggiavano a livelli esponenziali nella capacità di trattare informazioni e il trattamento delle informazioni significava aumentare la potenza del capitale fisso di inglobare il saper fare umano. La “legge di Moore”(3) marciava inesorabilmente a tracciare un percorso senza incontrare ostacoli proprio per la cecità dei gruppi dirigenti del mondo del lavoro (sia sul piano politico sia sul piano sociale) di affrontare le novità che la Transizione digitale stava imponendo alla stessa forma del capitale. Anche per questo tema il luogo di questo saggio non è adatto, avendo come centro della riflessione le trasformazioni del lavoro. Ciò che conta in questo contesto è che la componente “informazione” contenuta all’interno del ciclo, sia economico che produttivo, diventava sempre più importante e via via preponderante. Aumento della capacità di immagazzinamento delle informazioni, nuove forme di trattamento dei dati, dai quali estrapolare non solo capacità gestionale del sistema macchinico ma conoscenza del ciclo produttivo, distributivo e di consumo, trasformarono il lavoro vivo da elemento dinamico della produzione via via sempre più ad elemento a supporto della macchina produttrice, una sorta di ingranaggio biologico ancora non sussunto dal processo di inglobamento nel capitale fisso di mansioni e lavoro vivo. Quando alcuni di noi parlavano di “fabbrica buia” negli anni ’90 furono “derisi” perché la nostra “estrapolazione della tendenza in atto” fu vissuta come un abbandono della condizione “immediata” del lavoro, senza comprendere che, se non si fosse compresa la tendenza di fondo della trasformazione digitale, sarebbero state illusorie tutte le altre scelte e le possibilità non solo di difesa della vecchia ipotesi di società altra ma la stessa possibilità di difendere il livello delle conquiste sui terreni del plusvalore (assoluto e relativo).

Infatti, il salto nella potenza di calcolo disponibile a metà del primo decennio del secolo determinò l’emersione di una nuova forma di estrazione del valore dalle attività umane. Dalla nascita del web si stava affermando, progressivamente, quello che nel mio E-Work definii come il Lavoro Implicito (Bellucci, 2005, p. 70). Tutte le attività di intervento, di compilazione, di produzione di contenuti, che produciamo volontariamente o involontariamente su apparecchiature digitali (dai computer ai telefonini, dalle carte di credito, di debito, di sconto alle telecamere agli angoli delle strade, dagli “assistenti domestici digitali” alle apparecchiature di tracciamento della guida suggerite dalle assicurazioni e così via) si trasformano in informazioni che sono raccolte e divengono le “materie prime” e poi la “nuova merce” per i proprietari delle piattaforme. Il lavoro implicito è un “lavoro” non salariato, né retribuito ma, addirittura, un lavoro che compiamo senza consapevolezza e “pagando” in proprio per il mezzo di produzione, l’energia e il tempo necessario impiegato. Come se, ai tempi della produzione meccanica, l’operaio avesse dovuto comprarsi lui il tornio per produrre i “pezzi”. Sulle tappe di sviluppo del lavoro implicito, che ha avuto diverse fasi di sviluppo e forme di relazione con la produzione, ho ampiamente scritto nel mio AI-Work (Bellucci, 2021). Nel saggio descrivo le varie fasi che vanno dalla nascita della rete fino alla produzione automatica di dati caratteristica della domotica e delle smartcity.

Non è questo il luogo (e forse ormai il tempo) per affrontare ciò che sarebbe stato necessario fare un ventennio or sono sul terreno di una “classica” contrattazione. Le capitalizzazioni stratosferiche delle aziende digitali poggiano tutte su queste basi di “messa a lavoro” dell’intero corpo sociale. Spesso (anzi quasi sempre, invece) le sinistre “più accorte” si lasciano “trascinare” nel pietismo neoluddista delle sottolineature dei fenomeni “estremi” (e marginali) della trasformazione in atto. Se volete un esempio, la discussione sul lavoro indotto dalle cosiddette “piattaforme” si è concentrata (e si concentra) su figure marginali e totalmente secondarie (anche se tremendamente sfruttate) dei processi, figure che ci “spingono” ad osservare e a lavorare politicamente sui margini inessenziali per il vero conflitto tra capitale e lavoro invece di occuparci di come le stesse piattaforme producano il valore attraverso la messa al lavoro di 4,5 miliardi di persone che non sono consapevoli di stare lavorando per loro. Ovviamente, questo non significa ignorare la necessità di tutele e i bisogni di chi sta ai margini del processo ed è più sfruttato e alienato ma vuol dire che solo attraverso la ricostruzione di una dimensione di massa della condizione generalizzata delle nuove forme di sfruttamento si possono ricostruire i nessi politici e sociali che cambino la condizione generale del lavoro (anche di quello salariato più o meno tutelato che sia).

Abbiamo bisogno di questa lucida e nuova consapevolezza perché la velocità dei processi non ci consente di stare fermi sugli allori (che, tra l’altro, non esistono più e sono argini sempre più fragili e risultano socialmente e politicamente muti). Ciò che abbiamo davanti, infatti, è un salto ancora più alto nella trasformazione indotta dalle tecnologie digitali e non sto parlando delle implicazioni sistemiche che il loro sviluppo pone. L’avvento delle tecnologie robotiche, dell’intelligenza artificiale (ma anche dei correlati sviluppi negli ambiti come la genetica, le biotecnologie, le nanotecnologie) porranno problemi sia sul livello degli impatti occupazionali e professionali (con squilibri sociali ancora non calcolabili) ma, soprattutto, direttamente sulle strutture sociali e istituzionali ereditate dal ‘900 e riassumibili negli impianti delle politiche di Welfare. Ormai è chiaro che nessuna politica di “sviluppo” possa creare non solo un ipotetico “rientro” dal debito complessivo (296 trilioni di dollari di solo debito pubblico – in forte crescita – contro un Pil di 94 trilioni – anch’esso in crescita anche se gravato da una inflazione che, nella economia più forte al mondo, ha raggiunto il 7% -) ma anche solo una “sostenibilità” delle istituzioni e delle loro agenzie tutte fondate sulla famosa “piena occupazione”. Sono gli impianti dei Welfare costruiti nelle varie nazioni (al di là degli schemi e delle loro efficienze) che non reggono allo tsunami indotto dalla rivoluzione digitale. L’impatto parallelo e ubiquo del saper fare sussunto nel sistema macchinico dalla potenza del digitale si abbatterà su tutte le figure professionali, riducendone autonomie e margini o cancellandole in maniera decisa. Interi processi basati su routine saranno inglobati da algoritmi e robot “intelligenti” che si addestreranno con logiche cumulative di conoscenza, rendendo superfluo o addirittura inutile l’intervento umano. Il lavoro salariato sarà sottoposto ad una pressione mai sperimentata in precedenza e il potere di acquisto generale del monte salari vivrà una contrazione accelerata e condensata temporalmente. A tutto ciò, si sommerà la trasformazione indotta sul singolo individuo sul piano dei cambiamenti nella genetica, le nuove “cure” biotecnologiche e le potenzialità della produzione di nuovi materiali per la produzione delle merci basate sulle “miniere” nanotecnologiche.

Come se tutto ciò non bastasse (ad obbligarci a darci una mossa, aprire gli occhi, svecchiare il dibattito e il linguaggio…) le più avanzate aziende tecnologiche hanno aperto, da alcuni mesi e annunciandone l’arrivo, il nuovo terreno del “Metaverso”. Il principale social mondiale (Facebook) ha anche cambiato il suo nome per affermare con forza il suo nuovo terreno di lavoro in Meta e annunciato la fine del più potente calcolatore al mondo tutto dedicato alla creazione di ambienti immersivi ove lavorare, vivere, intrattenersi. Con estrema sintesi potremmo dire: mentre in Italia si discute con Brunetta che non vuole concedere lo Smart working ai pubblici dipendenti – perché la sua applicazione ha, perlomeno, evidenziato che la Pubblica Amministrazione potrebbe funzionare anche con molti meno dipendenti o che sarebbe possibile rivedere tutta la struttura amministrativa dei processi con il “doppio vantaggio” di un iter burocratico snello, veloce e “in sintonia con i tempi del resto della produzione” – Bill gates annuncia che “entro i prossimi due o tre anni, prevedo che la maggior parte delle riunioni virtuali si sposterà da griglie di immagini di telecamere 2D….al Metaverso, uno spazio 3D con avatar digitali”. Lo scrive Gates nel suo tradizionale post di fine anno sul suo blog che annuncia il suo orizzonte di lavoro e le tendenze in atto. Per il fondatore della Microsoft “L’idea è che alla fine utilizzerai il tuo avatar per incontrare persone in uno spazio virtuale che replica la sensazione di essere in una stanza reale con loro”(4).

Cosa potrà esser il Metaverso? Difficile dirlo ad oggi, ma la tendenza è già in atto. Un mondo digitale (anzi infiniti mondi digitali, dialoganti o meno, aperti o chiusi che siano) dentro il quale lavorare, intrattenersi e, tendenzialmente, vivere. Distopico, aberrante, illusorio? I giudizi sono solo rinviati, vista la velocità e la qualità del processo con il quale siamo stati “inglobati” nel sistema dei social e degli smartphone. Inoltre, a differenza della prima ondata del web – imposta al mondo a partire dagli e negli uffici in cui furono immessi i computer da tavolo, e della seconda ondata del digitale, caratterizzata dal terremoto “relazionale” imposto dai social e che si basò tutto sul nuovo scambio sociale e sull’intrattenimento – il Metaverso si candida ad offrire una “congiunzione istantanea” e generalizzata dei due tempi umani: quello di vita e quello di lavoro.

Ma, appunto, si torna alla questione centrale: la forma e il modello del “potere connesso” alla trasformazione. Le proposte che aziende come Microsoft o Meta stanno per immettere sul “mercato della vita” (e che tenderanno a sovrapporsi e a sussumere i primi tentativi di Metaverso che si stanno sperimentando oggi) hanno tutte la logica “centralizzata” come punto di organizzazione dei flussi. Per loro, offrire (anche a pagamento, tanto per mascherare il vero punto del loro guadagno…) dei servizi nel Metaverso sarà come entrare in possesso della stessa vita dell’individuo. Nulla potrà essere più come prima. Un salto veramente “quantico” nel senso di un ordine “diverso” rispetto all’ambiente ancora in qualche modo “ibrido a prevalenza analogica” che ancora stiamo sperimentando in questi anni.

Ma come anticipava il Marx del Frammento sulle macchine dei Grundrisse, nel passaggio del “general Intellect”, lo sviluppo delle macchine che ha portato all’oppressione dei lavoratori sotto il capitalismo , offre anche una prospettiva per la futura liberazione (5).

Il Marx del famoso frammento sulle macchine può essere meglio compreso oggi nel pieno della rivoluzione digitale.

Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non- lavoro dei pochi ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro” (Marx, 1970, p. 393).

Marx ci dice, praticamente, che se il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro in essa incorporato, nel momento in cui la quantità di lavoro salariato è tendente allo zero (o per come vale per molti prodotti digitali il lavoro in campo è solo il ”lavoro implicito”, quello fatto dal consumatore o meglio dal prosumer), il tempo di lavoro salariato non può più essere misura del valore anche se l’architettura sociale e istituzionale del processo legato alla forma del lavoro salariato , consente al capitale di continuare a “misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato” (Marx, 1970, p. 397).

Qui Marx pone un’ipotesi emancipativa diversa dalle altre più note espresse in altri testi.

In origine Il concetto di valore fu concepito come misura temporale della produttività. Se il tempo di lavoro immediato, però, diviene così ridotto da non poter più essere metro del valore oggi dobbiamo chiederci se e in che modalità il tempo può essere ancora la misura della produttività del lavoro sociale o se la sua misurazione debba essere fatta (anche) con altre metriche. Se tutto il tempo di vita diviene tempo di produzione, come misuriamo il valore? E nel Metaverso come si configurerà la produzione del valore?

Fino ad ora non abbiamo avuto cognizione di ciò che potesse essere il General Intellect perché le sinistre lo pensarono per e attraverso la griglia del lavoro manuale/salariato misurabile (e misurato) nel suo valore sotto la “gabbia temporale” (attraverso la quale misurare il plusvalore prodotto e/o producibile). È il salto, veramente genetico, nella produzione di valore (6) che apre a scenari sociali e politici di nuova generazione.

A questo processo, caratterizzato ed egemonizzato, fino ad ora, da logiche di centralizzazione prende corpo la “generazione” di una logica opposta. Proprio in “risonanza” con la logica originale dei processi di decentralizzazione delle tecnologie DLT (Distributed Ledger Technology, cioè tecnologie a registro distribuito) quelle della Blockchain alla base dello sviluppo sia delle criptovalute sia del mondo degli Smart Contract, si stanno aprendo interessanti esperienze che potrebbero affermarsi anche attraverso le logiche aperte dalla distribuzione e calcolo dei dati abilitabili dai modelli del 5G e delle sue potenzialità e del calcolo Edge Computing. Si tratta delle DAO (Decentralized autonomous organization). Le organizzazioni autonome decentralizzate sono definite come la capacità di una tecnologia blockchain di fornire un libro mastro digitale e sicuro che tenga traccia delle interazioni e degli scambi. La capacità di impedire le falsificazioni passa attraverso le timestamp (marca temporale) di fiducia e alla sua presenza in una base di dati distribuita ovvero non centralizzata. Le organizzazioni autonome decentralizzate che talvolta si definiscono anche come decentralized autonomous corporation (acronimo DAC) sono organizzazioni la cui attività ed il cui potere esecutivo sono ottenuti e gestiti attraverso regole codificate e affidate proprio agli Smart Contract. Una transazione finanziaria DAO e le regole del programma, ad esempio, sono conservate in una base dati di tipo blockchain. Lo status legale di questo tipo di organizzazione d’affari non è ancora chiaro. Attività finanziarie e gestioni imprenditoriali del futuro potranno essere gestite attraverso logiche aperte, condivise e autonomamente applicate proprio in virtù della applicazione gestionale informatiche delle decisioni assunte dalla comunità che liberamente aderisce alla organizzazione.

Le Organizzazioni Decentralizzate, quindi, sono organizzazioni costituite da persone e/o da beni e servizi (spesso automatizzati) che si autogovernano senza un organo centrale incaricato della loro gestione. L’operatività della struttura è garantita dal rispetto dei singoli partecipanti all’organizzazione delle regole predefinite (decise anche collettivamente) che riescono a coniugare l’interesse egoistico di diverse categorie di soggetti pur in assenza di un controllo centrale. Un esempio è il funzionamento di Bitcoin, la prima criptovaluta che ha introdotto nella vita di tutti i giorni il concetto di decentralizzazione. Una DAO, quindi, può essere definita come una Organizzazione Decentralizzata gestita da un Agente Autonomo, un programma software che applica le regole di funzionamento prestabilite in maniera “autonoma” rispetto all’operato dei suoi partecipanti.

Le forme del lavoro nel secolo dell’egemonia del digitale, quindi, si andranno ibridizzando sempre più attraverso lo sviluppo e l’avanzamento del taylorismo digitale che modificherà alla radice ciò che fu il lavoro salariato del ‘900, lo sviluppo crescente di lavoro implicito e l’apertura del capitolo di quello che chiamo il lavoro operoso, il lavoro che produce direttamente valore d’uso e non passa per la logica capitalistica della produzione di valore di scambio attraverso il processo di lavoro alienato e salariato. La rivoluzione digitale offre un doppio esito: o la creazione di una società del controllo totale o la possibilità di generare la prima società dell’autogestione sociale.

In altre parole, è giunto il momento di riprendere il cammino della conquista di una condizione di vita che superi lo sfruttamento alienato della produzione capitalistica e non si limiti al semplice “rimborso equo” del tempo regalato al ciclo produttivo attraverso un “salario” adeguato. Il ‘900 è chiuso e si riapre la storia.

  1. Cfr. Lo spettro del capitale scritto con Marcello Cini sul tema del ciclo economico immateriale e le sue differenze con il classico ciclo materiale.

  2. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Taylorismo_digitale

  3. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Legge_di_Moore

  4. Cfr. https://www.gatesnotes.com/About-Bill-Gates/Year-in-Review-2021

  5. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del General Intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale. (Karl Marx, 1970, p. 403).

  6. Sul tema del salto prodotto nello schema di valorizzazione del capitale e sulla dinamica aperta rimando al mio AI-Work (Jaca Book, 2021)

Bibliografia

Bellucci, S. E-work. Lavoro, rete, innovazione, Derive e Approdi, 2005.
Bellucci, S., Lo Spettro del Capitale. Per una critica dell’economia della conoscenza, Codice Edizioni, 2009.
Bellucci, S. AI-Work. La digitalizzazione del Lavoro, Jaca Book, 2021.
Fukuyama, F., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.
Marx, K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 2, La Nuova Italia, 1970.
Rossi-Landi, F., Significato, comunicazione e parlare comune, Marsilio, 1961.
Rossi-Landi, F., Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, 1968.