Affinità e divergenze fra i gig-workers e noi

Intervento all’incontro organizzato da Transform!Lavoro su piattaforma e lotte dei rider

di F. Sganga

Buongiorno a tutti e tutte. Io sono qui a nome di Tech Workers Coalition Italia e prima di tutto ringrazio Marco Marrone e Transform! per averci invitato a questo evento.

Cos’è TWC

TWC è un’organizzazione transnazionale di lavoratori e lavoratrici del settore tecnologico e nasce con l’obiettivo di unire figure diverse, accomunate dal fatto di lavorare per quella che a grandi linee definiamo industria tecnologica. Figure diverse significa che l’ambizione è di coinvolgere programmatori e rider, sistemisti e grafici, arrivando anche a chi si occupa dei servizi di pulizia o di ristorazione nelle aziende tech; questo negli Stati Uniti è già avvenuto, per esempio una delle prime battaglie di Tech Workers Coalition ha fatto leva sul potere contrattuale dei lavoratori più qualificati di Google per ottenere condizioni di lavoro migliori per gli operatori esternalizzati della mensa.

TWC e il lavoro di piattaforma

Per avvicinarci al tema di oggi, c’è stato anche un coinvolgimento nello sciopero dei lavoratori Instacart, la piattaforma che ingaggia persone per fare la spesa e portarla a casa dei clienti; poi l’appoggio alla campagna contro la Proposition 22, un referendum promosso da Uber e altre piattaforme di gig-work che in sostanza aveva lo scopo di classificare i lavoratori delle piattaforme come contractor indipendenti e non come lavoratori subordinati. Questo Proposition 22 sarebbe fra l’altro un caso di studio anche per noi dato che il referendum è stato formulato e finanziato da aziende come appunto Uber, Lyft, la già citata Instacart e altre proprio in risposta a un regolamento statale che, similmente alla proposta della Commissione Europea, classificava i gig-workers come dipendenti. Una vicenda che dimostra come una legge, anche buona, non possa essere un punto di arrivo.

In Italia la situazione è molto diversa: TWC è un’organizzazione giovane – esiste da poco più di un anno – siamo quasi tutti programmatori o sistemisti e operiamo in un contesto differente da quello statunitense o nordeuropeo sia per quanto riguarda il posto che il nostro paese occupa nella produzione di tecnologie informatiche (assolutamente di secondo piano) sia per il rapporto con altre categorie di lavoratori (non c’è il gap salariale che vediamo negli USA).

In che modo allora il lavoro di piattaforma ci interroga, oltre che per quanto possiamo imparare dalla capacità organizzativa che i rider hanno dimostrato? A me sembra che ci siano alcuni aspetti ben descritti nel lavoro di Marco e affrontati dalla proposta di direttiva che sono presenti in modo molto evidente nel mondo dei gig workers ma che tendenzialmente vanno ad impattare anche lavoratori impiegati in modo più tradizionale.

Strategie delle imprese – Le Piattaforme non sono un modello unico

Quello che si nota è che le strategie adottate dalle piattaforme per estrarre profitti e mantenere il controllo sulla forza lavoro non sono così diverse da quelle delle altre imprese e per questo non dovremmo pensare a quel settore come un ambito lontano e con regole tutte sue ma come un luogo di osservazione privilegiato. E non dovremmo nemmeno pensare che le piattaforme siano solo quelle più conosciute del food delivery o dei micro task come Amazon Mechanical Turk; negli ultimi anni sono nate piattaforme che offrono servizi di tutti i tipi sempre seguendo il meccanismo dell’intermediazione fra domanda e offerta: c’è Fiverr che è dedicata proprio a task informatici ma ci sono anche altri esempi meno conosciuti che impiegano professionisti come psicologi, architetti o guide turistiche.

Intermediazione di manodopera

Quali sono quindi questi aspetti del modello-piattaforma che possiamo ritrovare anche nel settore in cui noi tech worker in senso stretto operiamo?

In primo luogo vi è un tema che TWC Italia ha fin dall’inizio considerato centrale, il cosiddetto e famigerato body rental. Si tratta di una forma di intermediazione di manodopera illegale che tuttora è largamente usata e che è in tutto e per tutto simile al “caporalato” per cui è stata condannata Uber Eats. Nel mondo IT è abbastanza comune, infatti, che un’azienda assuma dei lavoratori esclusivamente per affittarli ad un’altra, che potrà “utilizzarli” senza doversi occupare degli aspetti contrattuali. In questo modo assistiamo a fenomeni di lavoratori sottopagati, inquadrati con contratti diversi per la stessa mansione, alla difficoltà nel far valere i propri diritti e così via. Le condizioni dei rider sono chiaramente molto diverse da quelle dei consulenti in body rental (anche se le retribuzioni sono a volte più vicine di quanto si potrebbe pensare) ma quello che emerge è una logica comune, che è quella di separare lo svolgimento effettivo del lavoro dall’azienda che giuridicamente ne sarebbe responsabile, così da avere la massima flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro: sono molto comuni i racconti nella nostra chat di TWC di lavoratori impiegati per qualche settimana presso un cliente e che poi, a seguito di nuove commesse, vengono dislocati da un altro e così via. In passato questa pratica era abbinata all’abbondante utilizzo dei contratti parasubordinati come il co.co.pro., ora fortunatamente accade di rado ma l’intermediazione rimane perché è evidentemente vantaggiosa.

Individualizzazione

La seconda strategia che vediamo operare molto chiaramente nel lavoro di piattaforma ma che esiste da fin dagli albori del capitalismo è la trasformazione del salario orario in salario a cottimo. Nel libro di Marco ne viene descritto il percorso nel food delivery: inizialmente i lavoratori vengono assunti con retribuzioni almeno parzialmente a tempo per poi essere incentivati verso il cottimo puro. Anche in questo caso la funzione è doppia: economica e disciplinare, la piattaforma risparmia e in più spinge il lavoratore ad operare alla massima intensità possibile.

Il cosiddetto “cottimo pieno” non è fortunatamente possibile nel caso del lavoro dipendente ma ci sono delle versioni più sfumate che ci mostrano come sia comunque interesse dell’azienda individualizzare il salario e legarlo per quanto possibile alla misurazione dei risultati. Nel nostro settore, per esempio, sentiamo spesso parlare di lavoro per obiettivi, di straordinari non pagati per rispettare tempistiche irragionevoli, di premi di risultato o, infine, dei difusissimi superminimi che sono il metodo più utilizzato per individualizzare la retribuzione. Si tratta chiaramente di meccanismi premiali: ti do qualcosa in più rispetto al minimo garantito dal CCNL; una cosa molto diversa dal cottimo puro che, al contrario, non garantisce nulla al lavoratore che pure ha messo a disposizione il proprio tempo. Tuttavia anche in questo caso emerge un interesse non contingente da parte delle aziende.

Lavoro a distanza – Controllo algoritmico

L’ultimo aspetto su cui vorrei dire qualcosa è anche uno dei principali target della direttiva, il cosiddetto controllo algoritmico. Come sappiamo il principale meccanismo che usano le piattaforme per organizzare la propria forza lavoro è la raccolta di dati tramite le app con cui i rider fanno il loro lavoro; questi dati permettono di classificare la forza lavoro, distribuire i carichi secondo i criteri più convenienti per l’azienda (premiare con turni più remunerativi i più disponibili etc) e di avere – in generale – una panoramica di ciò che accade che è invece preclusa ai lavoratori. Quello che è in gioco è quindi la visibilità: la piattaforma “vede” e decide sulla base di un algoritmo protetto dal segreto; non a caso la trasparenza è una delle storiche rivendicazioni dei gig-worker ed è stata accolta anche nella proposta della commissione.

Anche in questo caso possiamo individuare un parallelo con le esperienze di altri lavoratori e lavoratrici e in particolare con ciò che avviene nel caso del lavoro da remoto.

Apro una parentesi che mi sembra dovuta: si fa spesso confusione, in modo non del tutto innocente, fra smart-working, lavoro agile e telelavoro; io ora continuerò ad alimentare questa confusione e userò questi termini in modo più o meno intercambiabile per intendere in generale quello che è avvenuto in misura massiccia dal marzo 2020 in poi e cioè lo spostamento delle attività lavorative dall’ufficio a casa senza formali cambiamenti contrattuali o di mansioni. Una seconda parentesi per dire che, anche se farò dei rilievi critici, dentro TWC siamo tendenzialmente favorevoli al lavoro da remoto ma riteniamo che vada contrattato collettivamente per evitare che le condizioni siano dettate solo dagli interessi delle imprese. Chiudo la parentesi.

Quindi, in che modo le disposizioni sul controllo algoritmico potrebbero interessare anche chi non lavora per le piattaforme ed è presumibilmente tutelato dallo Statuto dei lavoratori? Una risposta si può trovare in un articolo uscito qualche settimana fa su Repubblica in cui si stima che quasi il 70% delle aziende abbia implementato dei sistemi per controllare l’operato dei propri dipendenti in telelavoro. Si va da forme di controllo banali come quelle del tempo di connessione o della cronologia di navigazione ad altre più specifiche che cercano di misurare la produttività. Microsoft ha anche pubblicizzato un prodotto – il Microsoft Productivity Score – che avrebbe dovuto consentire ai dirigenti di analizzare i dati individuali dei propri collaboratori tramite l’osservazione di 73 parametri. Il tool è stato poi ritirato a causa dei problemi per la privacy ma mi sembra chiaro che l’analisi dei dati per misurare la produttività individuale non è certamente ristretta alle piattaforme.

Inoltre quando la proposta di direttiva prevede, all’art. 15, che le piattaforme dispongano canali non monitorati per la comunicazione fra i lavoratori sembra affrontare proprio una delle maggiori preoccupazioni che sono state sollevate verso il lavoro da remoto, ovvero la difficoltà di organizzarsi senza un luogo fisico di incontro. Si tratta, in questo caso, di una questione ancora del tutto aperta e su cui bisognerà lavorare con intelligenza e lungimiranza.

Chiaramente non voglio sostenere che tutto il mondo del lavoro vada verso una sorta di “piattaformizzazione” ma vorrei mettere in evidenza il fatto che se certe strategie sono comuni è importante, per chi vuole organizzare i lavoratori anche di altri settori, guardare a ciò che hanno fatto i rider e agli strumenti legislativi che gli Stati hanno messo in atto per regolare l’operato delle piattaforme. L’intermediazione fra lavoratore e cliente, l’individualizzazione del rapporto di lavoro, il controllo e la misurazione meticolosa tramite l’analisi dei dati sono tendenze che rimarranno e contro le quali sarà necessario attrezzarsi.

Alcuni esempi virtuosi

Chiudo con due esperienze di auto-organizzazione che penso possano essere di ispirazione per il futuro. Una si chiama Turkopticon ed è un software (in realtà non solo quello, ormai) che permette a chi lavora per Amazon Mechanical Turk di recensire i committenti, così da evitare quelli che agiscono in maniera scorretta. Turkopticon è mantenuta da un team che è parte di TWC e quindi vediamo qui in azione una sinergia virtuosa fra le diverse figure dell’industria tecnologica.

Il secondo esempio è FairTube, un’organizzazione che nasce in Germania nel momento in cui Youtube decide di non trasmettere più pubblicità nei video destinati ai bambini. Si tratta di un’azione che in linea di principio è condivisibile ma che ha improvvisamente privato di un reddito chi aveva prodotto e caricato quei video. Fairtube nasce quindi per organizzare e offrire assistenza ai creatori di contenuti in modo che abbiano una leva contro le piattaforme e non siano alla mercè di decisioni prese molto lontano da loro: sul loro sito leggiamo fra le altre cose “Fairtube si impegna per la correttezza, la trasparenza, e la partecipazione democratica per tutti i creatori e i lavoratori delle piattaforme”. Un aspetto interessante di questa esperienza è che è stata appoggiata fin dall’inizio da IG Metall, il sindacato tedesco dei lavoratori metalmeccanici. Un altro esempio di sinergia virtuosa.