Tornare alle basi: la riduzione dell’orario di lavoro

Copertina Fausto durante - Lavorare meno, vivere megliodi F. Barbetta

La casa editrice della CGIL Futura Editrice, erede della storica Ediesse, ha pubblicato nel mese di febbraio del 2022 un libro estremamente importante dal titolo “Lavorare meno, vivere meglio. Appunti sulla riduzione dell’orario di lavoro per una società migliore e una diversa economia” di Fausto Durante.

L’autore è coordinatore dal 2019 della Consulta Industriale della CGIL, responsabile del Segretariato Europa e coordinatore dell’Area politiche europee e internazionali della CGIL.

Il libro ruota intorno ad un tema centrale nella storia del movimento operaio, ovvero la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario ed ha la lucidità di gettare dei ponti con altre questioni fondamentali per il futuro post pandemico, ovvero la transizione ecologica e la lotta per la piena occupazione.

La constatazione da cui parte Durante è semplice: come mai se “ogni rivoluzione industriale ha portato con sé cambiamenti generalmente positivi per l’insieme delle forze coinvolte nei processi produttivi”1 oggi viviamo nella situazione paradossale in cui i benefici dell’innovazione vanno a vantaggio solamente delle imprese?

I miglioramenti che potenzialmente porta l’innovazione non cadono dal cielo ma sono figli delle lotte dei lavoratori che riescono ad imporre un legame tra sviluppo tecnologico e aumenti salariali, miglioramento delle condizioni in cui viene svolto il lavoro e la riduzione dell’orario di lavoro.

Per raggiungere questi obiettivi è necessario ridare forza al sindacato e alla contrattazione collettiva, sostenuti da una legislazione che favorisca anche la crescita della produttività del lavoro e la redistribuzione della ricchezza.

La centralità del sindacato ha anche la funzione di contrattare i processi di automazione e innovazione con i padroni. E per farlo è necessario studiarli e discuterli con chi li subisce in prima persona, come dimostra Matteo Gaddi nelle sue numerose inchieste su Industria 4.0. In caso contrario, rischiano di essere vissuti dai lavoratori come una minaccia per il mantenimento dei livelli occupazionali in un contesto contraddistinto da lavoro povero e precario.

Questo modello economico, fondato su orari di lavoro lunghi e salari poveri, è un segnale allarmante del percorso di sviluppo intrapreso dal nostro paese, la cui genesi, ripercorrendo la storia economica dell’Italia, andrebbe fatta risalire alla fine degli anni ‘70 quando, come afferma Matteo Gaddi, “senza ristrutturazione dell’apparato tecnologico e produttivo si determina un consolidamento della traiettoria di trasformazione del tessuto produttivo con l’estensione della piccola e micro-impresa, soprattutto in produzioni a basso valore aggiunto, con bassi livelli di ricerca e sviluppo ed una corrispondente, cioè bassa, specializzazione produttiva”2. Questa situazione è stata solamente aggravata dai processi innescati dalla globalizzazione e dall’adozione dell’euro.

La volontà del sindacato di lottare per ridurre a parità di salario l’orario di lavoro può in qualche modo invertire la tendenza? No, ma apre la porta alla definizione di una politica di sinistra che possa riuscire in questo intento. Ad esempio accettando la sfida della transizione ecologica. La riduzione dell’orario di lavoro potrebbe contribuire a ridurre l’impatto sull’ambiente. A tal proposito Durante cita il libro di Anna Coote “The Case for a Four Day Week” in cui viene dimostrato come un basso orario medio di lavoro comporti un impatto ecologico minore, “indipendentemente dai livelli complessivi di consumo”3.

La tesi è confermata da uno studio del 2013 di Knight, Rosa e Shor dal titolo “Could Working Less Reduce Pressure on the Enviroment? A cross-national panel analysis of Oecd countries 1970-2007” in cui vengono analizzati i dati relativi al rapporto tra orari di lavoro e sostenibilità ambientale nei paesi OCSE tra il 1970 e il 2007.

Usando come macro indicatori ambientali l’impatto ecologico, l’impatto del carbonio e le emissioni di anidride carbonica dimostrano come “i paesi con orari di lavoro più lunghi consumano più risorse ed emettono più carbonio e che, al netto del PIL, orari di lavoro più lunghi accrescono l’impatto ecologico complessivo”. In questo modo, ridurre l’orario di lavoro comporterebbe “una maggiore sostenibilità, riducendo l’impatto dei processi produttivi e l’intensità ambientale del consumo”4.

Un’altra domanda a cui il libro cerca di rispondere è: come mai la tendenza alla riduzione dell’orario di lavoro in tutto il mondo si è invertita?

Tentava di dare una risposta a questa questione oltre vent’anni fa già Pietro Basso in “Tempi moderni, orari antichi”, intravedendo il prolungamento della giornata lavorativa in tempi non sospetti. La risposta di Durante collega la possibilità di ridurre l’orario di lavoro con importanti aumenti di produttività del lavoro, tuttavia dagli anni ‘80 “la tendenza all’aumento della produttività continua a manifestarsi, mentre i salari cominciano a perdere terreno sia rispetto alla produttività sia rispetto al costo complessivo della vita. Parte così la separazione della curva della produttività da quella dei salari, che avevano avuto andamenti largamente convergenti sino ad allora. Con quella separazione prende avvio una gigantesca operazione di spostamento delle quote di ricchezza prodotta dal lavoro al capitale”5.

In questo modo “l’economia ha smesso di funzionare in maniera tale da favorire la distribuzione dei suoi risultati con equità e attenzione sociale. Così si è prodotta, di fatto, la rarefazione delle opportunità che prima avevano favorito la tendenza a diminuire gli orari di lavoro intesa come parte delle misure per il benessere e la felicità dei lavoratori, insieme a salari adeguati e qualità del lavoro.”6 Questo spiega la proliferazione di lavori poveri e precari contraddistinti da orari di lavoro lunghi. Come afferma Robert Skidelsky in “How Much Is Enough?”: “La contraddizione del capitalismo contemporaneo si può esprimere così: vuole che continuiamo a lavorare ma il suo stesso dinamismo tecnologico cancella continuamente posti di lavoro. Viviamo in una società che privilegia il lavoro rispetto al tempo libero, ma costringe sempre più persone a un tempo libero involontario chiamato disoccupazione o sottoccupazione.”

In seguito l’autore passa in rassegna degli esempi concreti di proposte politiche per la riduzione dell’orario di lavoro o di scelte aziendali che vanno in questa direzione.

Per quanto riguarda il primo caso abbiamo come archetipo la famosa Legge Aubry I del 1998 del governo del socialista Jospin in Francia, la quale prevedeva una settimana lavorativa di 35 ore a parità di salario per il settore privato.

Per le imprese private era prevista una riduzione degli oneri sociali nel caso in cui avessero mantenuto i livelli occupazionali o avessero assunto nuovo personale. Tuttavia la legge venne profondamente compromessa con la Aubry II che introdusse il calcolo del monte ore su base annua delle 35 ore medie settimanali e successivamente venne innalzata dai conservatori la quantità di lavoro straordinario possibile.

Le inchieste condotte dalla famosa sociologa Dominique Méda sugli impatti di questa legge sulla vita dei lavoratori portano a riscontri estremamente positivi per quanto riguarda il miglioramento della qualità della vita.

Mentre per il secondo caso conviene guardare in Italia, alla Ducati Motor Holding. Nell’accordo siglato con i sindacati nel 2014 per lo stabilimento di Bologna i turni sono passati da 15 a 21, con tre giorni lavorativi a settimana e due di riposo. L’orario di lavoro medio è passato a 30 ore, pagate come se fossero 40.

La scelta dell’azienda ha portato a nuove assunzioni e investimenti per nuove produzioni.

Vengono analizzati anche casi di riduzioni dell’orario di lavoro a parità di salario o di aumento dell’orario di lavoro in piena pandemia.

Nel primo caso abbiamo la settimana corta di 36 ore settimanali nel pubblico impiego in Islanda, la quale porta a conclusione una serie di sperimentazioni locali nella pubblica amministrazione iniziate nel 2014 grazie alla forza dei sindacati e una sponda politica di sinistra al governo.

L’altro caso è estremamente interessante perché riguarda un lavoro di inchiesta sulla produttività in smartworking dell’Institute of Labor Economics.

Dimostra come questa modalità di lavoro, in piena pandemia, abbia prodotto un aumento del 30% delle ore lavorate rispetto al lavoro in ufficio e una diminuzione del 20% della produttività.

Lo studio è stato condotto su un’azienda asiatica di Information technology che ha messo a disposizione dei ricercatori i dati del sistema aziendale di Workplace Analytics.

Durante, invece di demonizzare lo smartworking, conclude la riflessione affermando che questo risultato è prodotto dall’organizzazione del lavoro imposta dall’azienda.

Invece di allentare i controlli e rendere più liberi i lavoratori di gestire la propria attività, cerca di replicare a distanza il controllo dei lavoratori che avviene in ufficio, generando solamente più stress.

In conclusione abbiamo l’ultimo ponte gettato per ripensare una politica di sinistra per il mondo post pandemia ed è un forte ritorno del tema della piena occupazione declinata in termini di piani di Job Guarantee.

L’argomento è di estrema attualità e me ne sono occupato in altra sede. Questo genere di proposte hanno ripreso vigore specialmente negli USA grazie alla MMT che da quelle parti rimane dentro il recinto della sinistra senza esondare nel sovranismo più becero come avvenuto in Italia.

Se ne è occupato estremamente bene Martino Mazzonis nel libro “Lavorare tutti? Crisi, diseguaglianze e lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza” sempre pubblicato da Ediesse. In sostanza, l’idea è quella di una ““banca del lavoro”, in cui possono registrarsi tutte le persone che cercano lavoro e non lo trovano nel settore privato. Lo Stato assegnerebbe quindi ogni individuo a un’occupazione adeguata a seconda delle proprie qualifiche. Le persone impiegate in Employer of Last Resort (ELR) [datore di lavoro di ultima istanza] riceverebbero uno stipendio base (minimo), che sarebbe inferiore a uno stipendio pagato dal settore privato. Tuttavia, queste persone riceverebbero formazione e qualificazione per poter entrare nel mercato del lavoro privato. Questa politica servirebbe da “rete di sicurezza” per i disoccupati che fossero disposti a trovare un lavoro, avendo così una preoccupazione sociale.

Secondo la MMT, gli imprenditori non dovrebbero preoccuparsi di una perdita di potere contrattuale dovuta a un possibile rafforzamento sindacale (dovuto alla riduzione della disoccupazione). Con l’ELR, infatti, gli imprenditori avrebbero la possibilità di sostituire un dipendente inefficiente con uno in ELR, che creerebbe una sorta di “esercito industriale di riserva” altamente qualificato. Pertanto, questa misura collegherebbe un aumento della produttività (formazione della forza lavoro) con impatti sociali positivi (offrendo opportunità alle persone a basso reddito). Inoltre, l’ELR svolgerebbe una funzione di stabilizzazione automatica, poiché manterrebbe la piena occupazione (e di conseguenza, la domanda) in tempi di instabilità economica, mitigando la tendenza al ribasso degli investimenti privati. Mantenendo la domanda in tempi di crisi economica, lo Stato attenuerebbe gli impatti del ciclo, fornendo al settore privato migliori prospettive di profitto e minori incertezze.”7

Mi auguro che possa essere letto e discusso molto questo libro, specialmente a ridosso del prossimo congresso della CGIL, perché sono le basi per una proposta seria di fuoriuscita a sinistra dalla pandemia. Manca una sponda politica a queste idee ma nel frattempo il sindacato può lavorare per rilanciare con forza la contrattazione collettiva come strumento per incidere di più sulle scelte produttive delle imprese, regolamentare meglio nuove modalità di lavoro come lo smartworking e ragionare su come rendere socialmente sostenibile la transizione ecologica sempre più necessaria. Tutti temi che il libro mette sul tavolo per una futura discussione.

Note

1Lavorare meno, vivere meglio, pag.24

2Crisi industriale e classe operaia, pag.8

3Lavorare meno, vivere meglio, pag.34

4Lavorare meno, vivere meglio, pag.35

5Lavorare meno, vivere meglio, pag.43

6Lavorare meno, vivere meglio, pag.45

7Discussione sulla modern monetary theory: pregi e limiti