Le tre anime del lavoro

di M. Minetti

Si ha a volte l’impressione che alcuni problemi nascano da questioni mal poste, in cui vengono inclusi termini ambigui, contraddittori e carichi di sedimentazioni storiche di significati differenti. In questo titolo ho usato di proposito due parole ambigue: anime e lavoro. Se è difficile stabilire cosa sia in termini univoci un’anima, parimenti difficile è stabilire cosa sia il lavoro. Bisognerà sempre chiarire in che riferimento di credenze ci si trova ad operare. L’anima è una struttura interna che sostiene un corpo esterno meno duro. Il lavoro è il prodotto scalare della forza per lo spostamento. Sono definizioni corrette ma non spiegano nulla del titolo. Fuori dall’uso corrente dei termini di anima e di lavoro, vorrei provare a distinguere dei significati situati di queste parole. Degli usi che hanno anime differenti, in quanto sono caratterizzati da opposte motivazioni ad agire nella forma comunemente chiamata lavoro.

Usiamo la parola lavoro per definire attività del tutto estranee, che ci forniscono diversissimi esiti e talvolta inconciliabili soddisfazioni nella nostra economia libidinale.

Devo fare dei lavori. Guidare per sei ore. Caricare e gettare in discarica un vecchio divano. Riparare un tagliaerba guasto. Scrivere un articolo. Verrò pagato per questo? Non è il tipo di attività che determina se riceverò un compenso in denaro per averla svolta ma la forma della relazione che ho con il beneficiario di quella attività. Da qui le tre anime del lavoro.

Una è il piacere e il desiderio, l’altra la convenienza o la necessità economica e la terza è il dovere nei confronti della comunità di appartenenza, del gruppo sociale.

Ha ancora senso chiamare queste attività semplicemente lavoro?

Ci sarà chi, per praticità, definirà quelle attività per cui non viene corrisposto un pagamento, gioco, svago, dovere, faccende, hobby o volontariato. Ma questa distinzione è limitante e psicologicamente scorretta in quanto il lavoro “non è che un’attività che include coscientemente il rispetto per le conseguenze come parte di sé stesso; diventa lavoro forzato, se le conseguenze sono al di fuori dell’attività come un fine per il quale l’attività non è che un mezzo”(Dewey 1965, p.265).

La società tradizionale

Inizierò a ad affrontare la forma di relazione più antica in cui il lavoro si è manifestato, quella comunitaria. Dal momento in cui gli esseri umani hanno iniziato a cooperare lo hanno fatto senza altra contropartita che l’utilità per il gruppo di appartenenza, che fosse la prole, il clan, la tribù o il popolo. Nessun pagamento era previsto. Le attività svolte erano rigidamente indicate dal ruolo sociale, stabilito dal sesso, dall’età e dal rango (Marx 1974, vol.1, p. 480 / Mazzetti 1992, p. 86) e il frutto di quelle attività manteneva un legame indissolubile con chi lo aveva prodotto. Non era concepibile che una donna svolgesse un “lavoro” da uomo, né che un uomo facesse il “lavoro” da donna, che un ragazzo sedesse con gli anziani in consiglio o che un guerriero diventasse sacerdote. Ognuno svolgeva per dovere nei confronti della struttura sociale a cui apparteneva, per nascita o per rito, le mansioni che quel ruolo comportava. Il dovere era sentito come riconoscimento delle altre componenti sociali, gravate a loro volta dai loro doveri finalizzati alla cooperazione e alla sopravvivenza del gruppo. Possiamo anche oggi riconoscere degli elementi di società tradizionale in tutti quegli aspetti di obbligo sociale che portano le persone a svolgere innumerevoli sforzi per aderire alle aspettative del proprio gruppo di riferimento che tende a perpetuarsi attraverso legami di sangue o riti di affiliazione. Il padre di famiglia responsabile, la madre dedita i figli e alla casa, il decoro nei comportamenti, il mutuo aiuto nel clan, la morale religiosa o tradizionale che investe la sfera privata della sessualità e degli affetti.

La società mercantile

La società che ha cominciato ad accettare il denaro come mezzo di scambio è quella che per prima ha permesso la collaborazione tra popoli diversi, fra loro estranei, diffidenti e spesso nemici (Mazzetti 1992, p. 87). L’estraneità fra le persone e l’indifferenza per i destini dei propri simili è l’effetto delle prime società multietniche dell’antichità basate sullo scambio di denaro, o di altre merci pregiate come i metalli preziosi, i cui membri non si sentivano appartenere alla medesima comunità. Gli schiavi divennero una merce come le altre e gli artigiani vendevano le proprie produzioni per denaro. Gli aristocratici contendevano ai ricchi il potere e i poveri dovevano vendere il frutto del proprio lavoro ai ricchi, per poter vivere. E’ lo stadio dello sviluppo del lavoro che Hannah Arendt chiama dell’homo faber, dell’opera (Arendt 1988, p. 191), in cui il prodotto del lavoro umano non è estraneo a chi lo ha compiuto ma non ha con quello un legame di soggezione come nella società tradizionale matriarcale o patriarcale, in cui é ancora la natura il soggetto della produzione. Solo molto più tardi nella storia, circa duemila anni dopo si è affermata diffusamente in Europa la manifattura, precursore del sistema di produzione industriale. Lì è iniziato il lavoro salariato vero e proprio, quello in cui il lavoratore animal laborans (Arendt 1988 p.193) viene sottomesso agli strumenti della produzione offrendo soltanto la sua manodopera poco qualificata, la forza-lavoro, ad un prezzo giornaliero. Il lavoro salariato ha sostituito il lavoro servile degli schiavi, in quanto la schiavitù era stata nel frattempo abolita. Gli schiavi che erano capitale fisso, un costo da sostenere che si producesse o meno, vengono liberati e divengono salariati, un costo variabile che dipende dal volume della produzione e che può essere lasciato a casa a soffrire la fame, all’occorrenza. Questa è la condizione dei lavoratori del primo capitalismo, quello che conosce Engels con la sua indagine La situazione della classe operaia in Inghilterra in base a osservazioni dirette e fonti autentiche e che Marx descrive come proletariato.

Le condizioni della classe lavoratrice nel mondo sono mutate, in questi ultimi centocinquanta anni, tanto che nei paesi più avanzati sembra che non ci si trovi nemmeno più in quella forma di relazione sociale che è stata definita capitalismo. In molti, infatti, oggi si riferiscono alla attuale società come post-capitalismo (P. Mason 2016), in quanto la tecnologia informatica ha permesso la riproduzione di contenuti di informazione con costo marginale tendente allo zero, ma finché il lavoro salariato rimane la forma principale di relazione che garantisce la sopravvivenza delle persone, non si potrà affermare di essere usciti dal capitalismo. Gran parte delle persone adulte vengono in varia misura escluse dall’attività lavorativa, lasciando sperimentare alle persone escluse che ben peggiore della condizione di chi è sfruttato risulta quella di chi non è neppure utile per essere sfruttato. Di certo la “sussunzione reale”, ovvero la “smaterializzazione di lavoro vivo e produzione di capitale fisso”(Bellucci 2021, p. 28) costituisce un elemento contraddittorio dell’accumulazione capitalista e lascia intravedere il suo superamento. Per questo André Gorz nel suo L’immateriale afferma che “il <capitalismo cognitivo> contiene la possibilità di evoluzioni rapide in direzioni opposte. Non è un capitalismo in crisi, è la crisi del capitalismo che scuote profondamente la società” (Gorz 2003, p.59).

La società liberata dalla necessità

Il giovane e ancora molto idealista Marx, nel 1844 immaginava cosa avrebbe potuto significare

produrre come esseri umani: ciascuno di noi si affermerebbe doppiamente nella sua produzione, per sé stesso e per l’altro! 1) Nella mia produzione realizzerei la mia identità, la mia particolarità; lavorando proverei il godimento di una manifestazione individuale della mia vita, e, nella contemplazione dell’oggetto, avrei la gioia individuale di riconoscere la mia personalità come potere reale, concretamente percepibile e al di fuori di ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento o nel tuo impiego del mio prodotto, avrei la gioia spirituale immediata di soddisfare attraverso il mio lavoro un bisogno umano, di realizzare la natura umana e di fornire al bisogno di un altro l’oggetto della sua necessità. 3) Avrei consapevolezza di servire da mediatore tra te ed il genere umano, di essere riconosciuto e sentito da te come un complemento al tuo proprio essere e come una parte necessaria di te stesso; di essere accettato nel tuo spirito come nel tuo amore. 4) Avrei, nelle mie manifestazioni individuali, la gioia di creare la manifestazione della tua vita, cioè di realizzare e di affermare nella mia attività individuale la mia vera natura, il mio essere socievole umano. Le nostre produzioni sarebbero altrettanti specchi dove i nostri esseri risplenderebbero uno di fronte all’altro. (…) Il mio lavoro sarebbe una manifestazione libera della vita, un godimento della vita”. (Marx 2018, p. 33)

Ormai maturo, lo stesso filosofo di Treviri si rende conto che non tutte le occupazioni umane procurano la stessa gioia e il lavoro socialmente necessario, pur se gravoso e spiacevole, non può essere eliminato. Può però essere redistribuito in modo più equo, suddividendone il peso in modo egualitario. Quindi ne Il Capitale individua un modo praticabile per dare a tutti i lavoratori una maggiore e reale libertà dallo sfruttamento e dal lavoro alienato.

Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria… La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa”(Marx 1974, vol.3, p. 1012).

Questa citazione dal Il Capitale ci chiarisce che il suo autore concepiva l’agire libero come “sviluppo fine a se stesso delle capacità umane”, assimilato talvolta dal giovane Marx alla produzione culturale (Marx – F. Engels, 1967, p. 383), ovviamente esonerata dalla necessità di vendere le opere di quell’arte per sostenersi. Potremmo paragonare quel libero agire all’attività artistica, politica, di studio o di volontariato svolte dalle persone benestanti nel tempo libero, anche se a volte, in quei casi, la necessità riemerge come bisogno di riconoscimento narcisistico di chi si sente in un certo qual modo superiore alla massa delle persone comuni.

Quindi, per essere veramente fine a se stessa questa attività non deve neppure procurare riconoscimento e ammirazione verso il suo autore ma solo il piacere della creazione e della condivisione. Una esperienza che sarebbe facilmente raggiungibile da chiunque nella quotidianità, se non fosse per le “innaturali condizioni economiche che tendono a fare del giuoco un vano eccitamento per gli agiati e del lavoro una fatica ingrata per i poveri” (Dewey 1965, p.265). Anche Bernard Stiegler afferma che “il giorno in cui il “lavoro liberato” diverrà “ il primo bisogno vitale” è ormai molto prossimo” (Stiegler 2019, p.313).

Una particolare attenzione, che è specifica della nostra condizione attuale, va portata a quell’ultima frase in cui Marx afferma che sia fondamentale la riduzione della giornata lavorativa. L’attualità è nel problema della identificazione di chi può oggi beneficiarsi della liberazione dalla necessità, se i molti o solo alcuni. Se grazie allo sviluppo tecnico-scientifico è possibile al giorno d’oggi produrre tutto ciò di cui abbiamo bisogno e anche il superfluo con una quantità di manodopera molto bassa, il tempo liberato dal lavoro come viene redistribuito? A beneficio di tutti i lavoratori o solo delle categorie più fortunate? O addirittura a favore di una nuova casta di aristocratici che non hanno più bisogno di lavorare perché c’è chi lo fa al posto loro?

La sovrapposizione delle forme sociali e delle motivazioni

Malgrado io stesso abbia in un certo qual modo periodizzato l’apparire delle sopraccitate forme sociali in cui il lavoro si è manifestato, dovremo riconoscere che in una certa misura queste forme si sono sempre sovrapposte. In misura incommensurabile, ogni forma della relazione produttiva ha mantenuto aspetti di quelle precedenti tanto che anche oggi possiamo parlare di sopravvivenza del patriarcato all’interno delle forme del capitalismo o di aristocrazia per quanto riguarda la rendita finanziaria o immobiliare delle antiche famiglie. Possiamo immaginare che anche uno schiavo abbia potuto ricevere una forma di compenso, fosse anche un pasto più abbondante o delle mansioni più gradite, che un salariato sia stato orgoglioso del prodotto del suo lavoro o che un imprenditore abbia sentito il dovere di continuare l’attività di famiglia malgrado fosse in perdita.

D’altro canto in tutte le epoche le persone hanno svolto delle attività per il solo piacere che gli veniva offerto in quel momento. Ma quelle attività che occupano il nostro tempo libero sono davvero libere dalla necessità, dal dovere, dall’interesse?

Il sociologo Max Weber ne suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, del 1905, dimostrò quanto della precedente società tradizionale, costruita sulla lettura calvinista della Bibbia, abbia fondato l’etica del lavoro del primo capitalismo, finanziario prima e industriale dopo. Il borghese protestante considerato da Weber dedicava la sua vita al lavoro, svolto con estrema onestà e dedizione, non per godere i frutti della ricchezza ottenuta ma per osservare su se stesso i segni della grazia divina, come predestinazione alla vita eterna. Anche nel mondo cattolico l’etica del lavoro è intrisa dello spirito cristiano che da Adamo, a cui viene ordinato: “con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra”, (Genesi 3:19)(1) arriva fino al sacrificio di Cristo “ il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto (Cf Eb 2, 17; Fil 2, 5-8. ), dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere”(2).

All’interno delle aziende, soprattutto se di piccole dimensioni, si attua anche una dinamica di transfert familiare in cui il padrone, solitamente maschio, viene assimilato alla figura paterna, autoritaria ma anche responsabile nei confronti dei propri dipendenti. Quel capitalismo paternalistico che in questo caso a ragione possiamo definire patriarcale, tanto presente nelle PMI italiane e di tutto il mondo. In queste forme del lavoro il movente dell’azione umana, sia della dirigenza sia della manodopera, non è esclusivamente il profitto o il salario in denaro.

Nei paesi in cui la cultura tradizionale è più presente, la critica al capitalismo é stata ed é tuttora condotta sempre da una prospettiva religiosa (catto-marxista). La compiuta società mercantile viene percepita come ingiusta perché infrange i valori comunitari della solidarietà sociale e della famiglia. Quella critica ai rapporti mercantili è una critica moralistica e premoderna che rifiuta, in base ad un etica tradizionale del gruppo, i rapporti mediati solo dall’interesse, che disgregano il gruppo sociale in individui egoisti, ma non riesce a immaginare una nuova comunità universale internazionale.

La complessità non é solo post-moderna

Fernand Braudel, ha composto una storia complessa delle forme della vita economica, definendone i confini sfumati che tra loro si compenetrano nelle economie-mondo. Questa sovrapposizione di piani temporali, come intreccio di linee di tensione, descrive una situazione per cui già “nel 1650 l’economiamondo europea appare come la risultante della giustapposizione e della coesistenza di diverse forme di società, che vanno da quelle già capitalistiche dell’Olanda a quelle basate sul servaggio e sulla schiavitù, situate ai livelli più bassi della scala gerarchica” (Braudel 1981, p. 73).

Innestando la descrizione braudeliana del mondo economico con i concatenamenti rizomatici degli innumerevoli aspetti del molteplice, mutuati dalla operazionalità congiuntiva di Deleuze e Guattari, il filosofo contemporaneo Manuel De Landa delinea nella sua teoria degli assemblaggi (De Landa 2016) una descrizione della complessità urbanistica e sociale in cui coesistono tempi, forme della socialità, culture, valori, forze di cambiamento per nulla coerenti.

Il fattore determinante, che pone una discontinuità con il passato, è che nella società postmoderna diventano maggioritarie le forme di attività dell’essere umano (lavoro?) considerate come capitale fisso, come dispositivo macchinico che svolge una funzione improduttiva ma necessaria alla riproduzione del rapporto capitalistico (Hardt – Negri 2010, p. 138 / Marx 1974, vol. 2 p. 165). Si parla principalmente dell’economia terziarizzata dei servizi e dell’industria della conoscenza, del consumo, della creazione di bisogni indotti, del valore di rete fornito alle relazioni, della trasformazione delle merci in rifiuti.

Cosa costringe allora oggi le persone, oltre che a vendere la propria forza-lavoro fisica e intellettuale, a funzionare come elaboratori di informazioni e veicolatori di conoscenza strategica per la riproduzione del dominio delle elites? Probabilmente, oltre alla paura di essere esclusi dai gruppi che possono permettersi le migliori abitazioni, i mezzi di trasporto più comodi e molteplici esperienze significative e appaganti, esiste una ideologia conformista del “realismo capitalista” che spinge le persone ad occupare un ruolo funzionale alla riproduzione sociale, in vista di una supposta realizzazione personale, anche a costo di enormi sacrifici di sofferenza materiale e psichica. L’equivalente di quello che un tempo era il “senso del dovere” e del sacrificio nell’etica del lavoro. Oggi l’imperativo non è il dovere ma l’appagamento delle infinite possibilità di successo. La ricerca frenetica e inesauribile del piacere effimero che dà il consumo, il riconoscimento sociale, il potere conferito dal denaro. La scelta dell’attività da svolgere, superato lo stadio della necessità e del bisogno, viene indirizzata verso quei campi che nella propria cerchia sociale vengono percepiti come desiderabili in base ad una idea di esclusività e successo propria del gruppo sociale. Tutte le professioni considerate creative vengono preferite a quelle tecniche anche se portano spesso a precarietà e insicurezza economica, perchè sono considerate le professioni della borghesia intellettuale. Installare impianti termoidraulici non è considerato adeguato, mentre può risultarlo sviluppare siti web, curare la comunicazione social di aziende, ideare campagne pubblicitarie, scrivere su blog tematici, promuovere prodotti audiovisuali, produrre spettacoli teatrali, radiofonici o musicali. In altri ambienti, più conservatori, è auspicabile presentarsi come professionisti: avvocati, commercialisti, ingegneri, medici, architetti… Il successo viene valutato maggiormente in base alla clientela e al giro di affari conquistato piuttosto che rispetto all’attività in sé.

Chi sceglie una professione per essere riconosciuto nel gruppo sociale di riferimento risponde a una aspettativa e quindi a un dovere sociale, anche di status economico, verso il gruppo a cui sente di appartenere, la famiglia in primis. Solo successivamente viene considerato l’aspetto dell’effettivo vantaggio materiale rispetto al sacrificio che quella scelta comporta e poi l’aspetto del piacere e dell’interesse personale. I tre aspetti della motivazione, le tre anime, sono tutti presenti ma dalla misura e modalità in cui si compongono si profilano i differenti modi di relazionarsi all’attività lavorativa. Le attività svolte esclusivamente per trarne guadagno economico, di solito piuttosto elevato, sono le meno stimate in quanto gli aspetti morali, di realizzazione e di utilità sociale vengono posti in secondo piano. Possiamo pensare alla contabilità commerciale, alla prostituzione, alla speculazione finanziaria, alla consulenza legale per le aziende.. difficile pensare che vengano svolte per puro piacere o per rispondere ad un dovere sociale. Al contrario, maggiore è il piacere e l’utilità sociale nelle attività intraprese, più la gratificazione dell’impegno può presentarsi sotto forme immateriali e non monetarie. Il volontariato che è l’esempio di un lavoro svolto per la pura soddisfazione personale o comunque per ottenere l’ammirazione altrui, un tempo era esclusivo della nobiltà con idealità religiose o utopistiche. Tutte quelle professioni di cura, creative, accademiche, relazionali che spesso comportano retribuzioni scarse e incerte, compensano lo scarso riconoscimento economico con la percezione di realizzazione personale, utilità sociale, autoefficacia e miglioramento dell’autostima (Graeber 2018, p.259) Le professioni creative più ambite sono quelle della musica, dell’arte figurativa, dello sport, della recitazione, della scrittura, spesso avvicinate da giovani che sentono di “poterselo permettere”(Ventura 2017, p.16), esprimendo quindi uno status sociale elevato. Solitamente, a parte alcuni casi fortunati, dopo essere partito alla conquista del meritato successo di un sé grandioso, l’aspirante intellettuale si attesta nella maturità sulle competenze raggiunte, adattandosi alle molte professioni correlate all’ambito di interesse, coniugando passione e sicurezza economica, cooperando nella produzione dell’industria culturale e dell’intrattenimento o della formazione nel “mercato dei sogni”. Gli altri, invece, precipitano nella delusione delle aspettative frustrate, come testimonia il divertente Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, recensito dalla nostra amica recentemente scomparsa Veronica Siracusano Raffa e da Valerio Mattioli su che Fare (3).

Pierre Bourdieu sviluppa il concetto di «distinzione» e trasferisce nel linguaggio della sociologia la metafora economica del capitale per parlare di «capitale sociale» o «capitale simbolico» che viene accumulato e scambiato attraverso l’ostentazione di certi consumi culturali. Eppure Veblen definisce improduttivi questi consumi: secondo lui, sono attività che servono a testimoniare pubblicamente il fatto che chi le pratica se le può permettere. Sembra una banalità ma bisogna ricordarlo: studiare, apprendere un mestiere o un’arte, frequentare i giri giusti sono attività costose perché consumano tempo e incorporano il lavoro di altre persone. Si tratta spesso di costi indiretti, nascosti, rimandati, ridistribuiti, scaricati altrove; eppure da qualche parte, prima o poi, qualcuno ha pagato o pagherà. È questo il paradosso che si ostinano a non vedere tutti quei fantasiosi post-operaisti che sostengono che queste operazioni di consumo – si tratti anche della creazione di meme su Facebook – sono in grado di generare un plusvalore e debbano perciò essere remunerate. Al contrario, bisogna ricordare che dietro ognuna di queste attività c’è una distruzione di risorse spesso ben più importante del valore aggiunto generato. (Ventura 2017, p.16)

Lavoro merce e lavoro soggettivato, operai, artigiani e intellettuali

A mio parere è molto utile oggi tenere presente una distinzione fra le forme in cui si presenta la vendita di forza lavoro, tra quella che può essere quantificata in ore, visto che il suo prezzo è sostanzialmente stabile, e il lavoro soggettivato (Gorz 2003, p. 14), quello in cui la forza lavoro non è quantificabile in ore perché origina da un lungo periodo di formazione o da qualità non ordinarie di chi la fornisce. Le due forme si fondono in una zona intermedia che è quella propria del lavoro cognitivo e immateriale di livello ordinario, in cui competenze soggettive vengono retribuite con salari orari.

Si può riconoscere il lavoro-merce, non qualificato, dal fatto che viene venduta una forza-lavoro generica che, con poche ore di apprendistato, é subito in grado di svolgere le mansioni richieste e pertanto è facilmente sostituibile.

Raccogliere frutta e verdura, pulire ambienti e strade, accudire persone non autosufficienti, movimentare pacchi, guidare autoveicoli, condurre macchinari automatizzati, ma anche lavori d’ufficio molto semplici, ripetitivi, possono essere considerati come lavori non qualificati. Sono tutte attività che si imparano in poche ore o che richiedono competenze molto comuni, previste nella scuola dell’obbligo.

Il lavoro soggettivato, un tempo chiamato intellettuale, è invece quello per cui il frutto dell’attività del lavoratore è molto variabile rispetto alle sue qualità (competenze e soft skills in gergo neoliberista) e in certo qual modo è un prodotto unico e irripetibile. Insegnanti, ingegneri, giornalisti, tecnici di fabbrica, notai, preti , maestri, (Gramsci 1971, p.23), grafici, psicologi, dirigenti, medici, avvocati ma anche artisti, scrittori, musicisti, sportivi.

Facciamo intanto una precisazione. Il lavoro intellettuale è sempre anche manuale o comunque materiale, “per sua natura il pensiero non si materializza mai in oggetti” (Arendt 1988, p. 138). L’intellettuale, l’artista, il creativo esprime il frutto della propria immaginazione attraverso le mani, la voce e il corpo intero in atti e prodotti che solitamente vende. Un manoscritto, una conferenza, una lezione, un copione, una pittura, una musica hanno sempre un supporto materiale, anche se ormai digitalizzato. La pretesa di distinguere il lavoro manuale da quello intellettuale origina dalla volontà di distinguere ciò che l’intellettuale vende come prodotto del suo lavoro dalla sua soggettività irripetibile, politicamente determinata.

Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere scrive a proposito degli intellettuali, identificati quindi come tutti i lavoratori della conoscenza.

Nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, così intesa, si è ampliata in modo inaudito. Sono state elaborate dal sistema sociale democratico-burocratico masse imponenti, non tutte giustificate dalle necessità politiche del gruppo fondamentale dominante. Quindi la concezione loriana del <lavoratore> improduttivo (ma improduttivo per riferimento a chi e a quale modo di produzione?), che potrebbe in parte giustificarsi se si tiene conto che queste masse sfruttano la loro posizione per farsi assegnare taglie ingenti sul reddito nazionale.” (Gramsci 1971, p.22)

Questi professionisti, assunti come dipendenti trovano la ragione della propria esistenza proprio nella necessità di riprodurre e allargare la loro base sociale di classe media emergente.

E’ in questa dinamica sociale di trasformazione del lavoro operaio in terziario che troviamo le trasformazioni più rapide, perché il lavoro soggettivato è quello oggi più diffuso e che offre salari più alti ma anche una enorme precarizzazione e concorrenza nell’accesso.

Lavoro improduttivo e culturale

Dedico una particolare attenzione alla categoria del lavoro cognitivo proprio perché in un recente passato è stato assimilato da alcuni autori contemporanei al lavoro operaio, superando di fatto le distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo rispetto al capitale e tra lavoro socialmente necessario o utile e lavoro retribuito tout court. Questo passaggio è stato a mio parere azzardato e ha offerto il fianco alla penetrazione di categorie dell’economia marginalista neoliberista all’interno del dibattito anticapitalista sul lavoro.

Nella sua cecità — afferma Marx — il borghese attribuisce un carattere assoluto al modo di produzione capitalistico, considerandolo come la forma eterna della produzione. Egli confonde il problema del lavoro produttivo, quale viene posto dal punto di vista del capitale, con il problema generale riguardante l’essenza e la qualità del lavoro produttivo.
A tale proposito egli si limita a fare lo spiritoso rispondendo che ogni lavoro che produce qualche cosa e che mette capo a un risultato qualsiasi è per ciò stesso un lavoro produttivo. ( [3] Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di Molitor, poiché mancava nella prima versione dell’opera; se ne troverà una traduzione in Karl Marx, Oeuvres, Economie, ed. Rubel, Il, Parigi 1968, p. 388. (N.d.T.)] )
Secondo Marx è produttivo solo il lavoro che produce capitale, mentre è improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con un profitto o un salario.
Il risultato del processo di produzione capitalistico — egli sostiene — non è quindi né un semplice prodotto (valore d’uso) né una merce, cioè un valore d’uso avente un valore di scambio determinato. Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il capitale e quindi l’effettiva conversione di denaro o di merci in capitale, cosa elle
anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a livello di intenzione di destinazione. “ [P. Mattick 1971] (4)

Ogni attività può essere considerata indifferentemente produttiva solo se si accetta il paradigma neoclassico per cui tutto ciò che ha un prezzo ha un valore e tutto ciò che incrementa il prezzo, nelle cosiddette “catene del valore”, è di per sé produttivo. La speculazione finanziaria in questo modo diviene produttiva, la scarsità indotta diviene una forma di produttività così come l’incremento della desiderabilità delle merci, attraverso la pubblicità. Anche lo spreco di risorse e la creazione di rifiuti, l’obsolescenza programmata e il consumismo, aumentando la domanda, contribuiscono ad aumentare i prezzi e quindi il valore delle merci.

Abbiamo invece chiarito che nel lessico marxiano produttivo e improduttivo si riferiscono esclusivamente al plusvalore e quindi all’accumulazione di capitale.

Quindi col carattere cooperativo del processo lavorativo si amplia necessariamente il concetto del lavoro produttivo e del veicolo di esso, cioè del lavoratore produttivo. Ormai per lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate. La sopra citata definizione originaria del lavoro produttivo che è dedotta dalla natura della produzione materiale stessa, rimane sempre vera per il lavoratore complessivo, considerato nel suo complesso. Ma non vale più per ogni suo membro, singolarmente preso.

Ma dall’altra parte il concetto del lavoro produttivo si restringe. La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sè, ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione“(Marx 1974, 1 vol., p.658).

Il lavoro cognitivo è produttivo di plusvalore, e quindi di capitale, solo quando genera un servizio che viene direttamente venduto da un imprenditore che detiene i mezzi di produzione (la redazione, le rotative o il sito web per il giornalista, la scuola per l’insegnante, l’ufficio con hardware e software per il consulente..). Faccio l’esempio del programmatore che contribuisce allo sviluppo dei servizi online di una banca. Il servizio bancario, di per sé improduttivo ma necessario a riprodurre la circolazione del denaro e a estrarre la rendita finanziaria, verrà erogato dagli ormai rari sportellisti e operatori di borsa e dai loro robot sostitutivi ATM, app di web-banking e software di trading automatico. Il lavoro del programmatore è improduttivo se lavora per la banca, per questa è un costo fisso e serve a riprodurre la possibilità di offrire il servizio, non ad erogare direttamente le unità di servizio. Di solito però, il programmatore lavora con contratto da dipendente per una società di sevizi che vende il software e la manutenzione alla banca, quindi il suo lavoro è produttivo di plusvalore sul prodotto/servizio venduto. Anche l’operatore di call-center svolge un lavoro produttivo, sia che si occupi di marketing sia di assistenza al cliente, solo se viene assunto da una società che fornisce in outsourcing il sevizio a una azienda. Quel servizio esterno è un costo da ridurre al minimo, con le conseguenze che tutti conosciamo: precarizzazione, delocalizzazione, sostituzione con applicativi di IA.

Quando il lavoro intellettuale o cognitivo è parte di processi industriali e riguarda la progettazione, la contabilità, gli acquisti, le vendita, può essere assimilato a dei costi fissi di produzione e quindi al capitale fisso, ovvero all’apparato produttivo, perché non aumenta proporzionalmente all’aumentare delle unità di prodotto o servizio vendute. Nella società dei servizi, terziarizzata, post-fordista, o come la vogliamo chiamare, il lavoro produttivo (capitale variabile) si è molto ridotto rispetto al lavoro improduttivo (capitale fisso) e riproduttivo (non capitalistico).

Il senso di porre queste distinzioni è: “chi partecipa alla produzione capitalistica? E chi riceve il surplus che viene prodotto?” (Mazzucato 2018, p. 66).

Il lavoro inteso come l’insieme delle attività teorico-pratiche, è quello che genera beni o sevizi che soddisfano direttamente bisogni umani. Il cibo che si mangia, le case che si abitano, le strade che si percorrono, le merci che si comprano, così come i servizi di trasporto, cura, istruzione, pulizia, distribuzione, possono esistere perché ogni giorno qualcuno si impegna a produrli e rigenerarli. Il lavoro improduttivo è parimenti utile a creare il mercato e a regolare la redistribuzione della ricchezza ma utilizza il plus-valore estratto dal lavoro produttivo. Possiamo osservare una amplissima casistica di attività che necessitano di risorse, umane, economiche, di tempo, dell’intero corpo sociale.

L’economia di piattaforma, la cosiddetta sharing economy, ha creato nuove forme di estrazione dei profitti dalle intermediazioni ma non produce nulla. Le piattaforme di intrattenimento nella loro struttura economica funzionano come i mass-media tradizionali, per questo vengono a volte equiparati a editori, con la notevole differenza che i contenuti che propongono vengono forniti gratuitamente da alcuni utenti. I più popolari di questi utenti ricevono una parte dei profitti della piattaforma permettendo l’inserimento di pubblicità nei contenuti. I contenuti sono a loro volta spesso delle pubblicità di qualche prodotto, servizio o copie, autorizzate o meno, di prodotti di intrattenimento, informazione, formazione, culturali.

Ciò che la piattaforma vende non sono i contenuti ma la pubblicità, esattamente come fa la televisione e la radio commerciale. La pubblicità è un costo fisso della vendita, quindi improduttivo. Le piattaforme di vendita, invece, offrono un servizio a chi vende prodotti o servizi in cambio di una tariffa sulla transazione. In alcuni casi offrono solo il servizio di vendita (es. Ebay) in altri sono operatori commerciali essi stessi e si occupano anche della logistica e del trasporto che impiega invece lavoro produttivo (es. Amazon). Quì è ancora più evidente il carattere improduttivo del costo delle transazioni.

Le procedura di vendita e di fruizione pubblicitaria online cambiano la quantità e la forma dei rapporti che intercorrono fra proprietà dell’azienda, lavoratori dell’azienda, clienti dell’azienda (chi compra la pubblicità o il servizio di vendita e trasporto) e utenti finali, gli youtuber/spettatori o gli acquirenti. “E’ una cultura dove l’organizzazione degli scambi sociali si fonda sui principi delle economie neoliberali: la connettività deriva da una pressione continua, degli utenti e delle tecnologie, a espandersi attraverso la concorrenza e a guadagnare potere attraverso alleanze strategiche. Le tattiche delle piattaforme, per esempio il meccanismo del ranking, sono radicate in una cultura che esalta la gerarchia e la competizione”(Debenedetti 2021, p.156)  Quindi l’economia di piattaforma non cambia i rapporti di proprietà e i rapporti di lavoro ma li disloca diversamente(5), fluidificandoli, abbattendo i costi e riducendo vari livelli di lavoro improduttivo, sussunti nel dispositivo. “Ogni concorrenza produce dislocazioni, ogni progresso mette fuori mercato i prodotti vecchi”(Debenedetti 2021, p.61).

Le catene di comando, controllate dalla proprietà, non sono meno gerarchiche, sono semplicemente più corte e abbracciano dimensioni aziendali globali in un rinnovato taylorismo digitale (Bellucci 2021) che distribuisce, frammentandoli, i processi del lavoro salariato (6).

La ricchezza meritata

Farò un breve accenno anche alle forme più appariscenti e contraddittorie del lavoro improduttivo, quelle dirigenziali che sono andate ovunque a moltiplicarsi nonostante le sbandierate politiche di austerity. Anche se spesso inquadrati nella forma del lavoro dipendente e salariato, i dirigenti di altissimo livello sia nel settore pubblico che privato percepiscono in realtà una forma di rendita di posizione, simile a quelle cariche che, alla nascita della burocrazia degli stati nazione, veniva riservata alla nobiltà di toga. Ricoprire la carica di dirigente una azienda significa spesso soltanto partecipare degli interessi della proprietà o della politica, con un legame di fiducia che in nessun modo si può riassumente in una professionalità da dipendente. Le remunerazioni di queste posizioni sono difatti del tutto slegate dai risultati ottenuti e da una qualsivoglia misurazione della produttività.

Perchè non sia percepita come una ingiusta appropriazione, la ricchezza di alcuni rispetto alla povertà di altri deve essere considerata razionale e motivata. Qual’è la giustificazione della ricchezza? Il merito. Ma quanto è fragile questa narrazione?

In gran parte del mondo, la giustificazione é la nascita. Appartenere ad una famiglia aristocratica o comunque con un patrimonio considerevole era ragione sufficiente a spiegare le enormi diseguaglianze di possibilità e di vita.

Oggi malgrado una profonda ipocrisia, perpetuata attraverso una visione eroica del capitalismo, che origina da quei valori religiosi di operosità e frugalità, etica del lavoro e del sacrificio considerati da Max Weber, risulta evidente dagli studi storici sui patrimoni che la mobilità sociale è ridottissima (Piketty 2014). Gli esempi sovraesposti di imprenditori di successo risultano i testimonial di una narrazione finalizzata a coinvolgere i giovani ricchi nella creazione di imprese che scarseggiano, in rapporto alla sovrabbondanza di capitali.

Attualmente la nuova aristocrazia, quel 9,9 % tra i più ricchi (Stewart 2018), risulta essere la corte attorno ai signori della finanza, del silicio, del petrolio, delle armi.. di quello 0,1 % della popolazione che detiene maggiormente la proprietà privata del capitale (7), e che si appropria della maggior parte dei profitti, visto il suo numero non esiguo.  Dumas padre, nelle sue opere in cui descrive la monarchia francese del XVII Sec., spesso evoca rendite di migliaia di Lire concesse a vita a qualche galantuomo per i servigi resi alla corona (8).

I nuovi aristocratici non producono valore ma pretendono una ampia fetta dei profitti ottenuti dal capitale, in cambio di una fedele applicazione agli interessi della conservazione degli attuali rapporti di potere, mediante le barriere che costruiscono attorno alla proprietà privata della conoscenza. Queste rendite prendono la forma di contratti di consulenza, di nomine in consigli di amministrazione, di appalti della Pubblica Amministrazione, di concessioni di beni pubblici, di altissime cariche dirigenziali, di cattedre universitarie, ruoli assegnati spesso in regime privatistico, quindi insindacabile nelle relazioni del sacro libero mercato, in cui l’interesse del singolo scompare nell’interesse della proprietà. Dove la nomina è politica è evidente il legame di fedeltà al politico o alla corrente governativa che la esprime.  Anche quando la retribuzione di queste persone prende la forma di uno stipendio mensile, magari superiore ai 10.000 euro, possiamo dire che quella retribuzione corrisponde ad un lavoro? Cosa si intende in questo caso per lavoro? A mio avviso possiamo più correttamente parlare di una rendita di posizione, ottenuta con abilità o per diritto di nascita o appartenenza. Ma questa espressione di privilegio viene nascosta ai suoi stessi detentori con la retorica del merito a cui danno l’impressione di credere davvero (9). Si sa che noblesse oblige, la “nobiltà comporta obblighi”, e quindi ai rampolli aristocratici viene richiesto un gravoso impegno per rispondere alle aspettative del gruppo sociale. Imparare due o tre lingue, ottenere prestigiosi titoli di studio, arricchire i CV con esperienze professionali in organismi internazionali riconosciuti o in aziende multinazionali, pubblicare su riviste accreditate, sacrificare il tempo libero, gli affetti, la curiosità intellettuale, sono alcuni dei doveri che permettono ai privilegiati di conservare l’egemonia del loro gruppo sociale. L’ideologia mercatista del neoliberismo ci ha abituati a considerarci come proprietari privati innanzitutto della nostra risorsa corporea come di tutti gli attributi materiali e immateriali di cui riusciamo ad appropriarci in quanto individui “imprenditori di sé stessi”. Altrettanto liberamente possiamo mettere a disposizione le nostre risorse per chi ci dia una motivazione conveniente, che sia materiale o immateriale. La cura del corpo è un investimento in capitale immateriale, i costosi percorsi di formazione lo sono parimenti. Il vestiario, i mezzi di trasporto, l’abitazione o le abitazioni, i linguaggi appresi sono tutti segni di status indispensabili al marketing di sé stessi.

Chi si pone sul mercato in regime di concorrenza ipotizza per sé un prezzo e cerca acquirenti per le condizioni a cui ritiene di poter aspirare. Se non trova acquirenti dovrà accettare remunerazioni inferiori o “riqualificarsi” formandosi su competenze più richieste dal mercato del momento. La ricerca del lavoro diventa sempre più simile alla ricerca di un partner che sia un “buon partito”. A mio parere andiamo tutti verso l’affitto dei nostri corpi. A fine anni ’90 il mercato dei consulenti informatici in somministrazione si definiva nel “body rental”, affitto di corpi, ore-uomo vendute dalle società di servizi, spesso in subappalto. Questa cruda terminologia cyberpunk è andata in disuso ma la sua sostanza permane. Chi si propone come lavoratore dipendente chiede un affitto mensile commisurato al suo livello di competitività sul mercato. Questo affitto da diritto ad un accesso illimitato alla risorsa umana (se con indennità di reperibilità 24/7) o limitato da alcune consuetudini e sempre più raramente dai contratti nazionali di categoria.

La bellezza, la giovinezza, l’eleganza nel vestire, la cura dei profili social, oltre ovviamente ad un linguaggio adeguato e a titoli accademici esclusivi, sono tutte qualità apprezzate per accedere a delle categorie di remunerazione superiori. Quello che risulta evidente è che questa maggiore remunerazione è il dovuto riconoscimento di un impegno economico e di “mobilitazione totale”(Gorz 2003, p. 17) dell’intera personalità che aderisce ai valori dell’istituzione di cui va a fare parte, non delle mansioni che si svolgono. In passato solo alcune professioni richiedevano di far propria la “missione” a cui si andava a partecipare, incorporando nel lavoro una deontologia (10) del gruppo, difatti erano professioni che rimanevano in gran parte estranee al mercato del lavoro di tipo capitalista, quindi salariato, trovando le loro origini ben prima dell’età moderna. Medici, militari, insegnanti, sacerdoti, intellettuali, rispondono ad una missione che va ben oltre l’orario di lavoro. Nel medioevo e nel rinascimento queste categorie si mettevano alle dipendenze di ricchi signori o della chiesa, formando circoli, accademie o corti che esprimevano l’egemonia culturale del gruppo che le sosteneva economicamente. Oggi anche un commesso deve sorridere con convinzione e decantare con sincerità le virtù del prodotto, credere nel brand e desiderare il riconoscimento del suo manager, considerandosi fortunato per il ruolo sociale che ricopre con professionalità.

Rendita di capitale immateriale

Se esiste un capitale immateriale questo può certamente generare una rendita. Il percettore di questa rendita può essere assimilato ad un nobile che non deve lavorare e neppure investire, ovvero procacciarsi dei profitti. Per questo è in uso il temine neofeudalesimo digitale (11).

Accanto al capitale come fonte autonoma di plusvalore figura la proprietà fondiaria in quanto barriera del profitto medio e causa del trasferimento di una parte del plusvalore ad una classe che non lavora essa stessa, né sfrutta direttamente gli operai, né può appellarsi a ragioni consolatorie e moralmente edificanti come, per es., il rischio e il sacrificio impliciti alla cessione in prestito del capitale”. (Marx 1974, vol.3, p. 1023)

Le ricchezze naturali e i beni comuni possono essere confiscati mediante barriere artificiali che ne riservino il godimento a chi pagherà un diritto di accesso”(Gorz 2003, p. 26) lo stesso avviene con la conoscenza, i dati e qualsiasi forma di informazione che può essere archiviata ponendola come proprietà privata e avvalendosi di leggi che ne assicurano l’accesso esclusivo.

Le forme più semplici di rendita di capitale immateriale sono i diritti di proprietà intellettuale.

Il diritto d’autore che assegna una rendita sulle vendite successive alla prima dell’oggetto dell’ingegno è una sorta di brevetto, garantito ad alcune condizioni, che obbliga a pagare una quota di profitto all’autore (e a chi lo rappresenta nei suoi interessi) per la riproduzione dell’opera. Questo perché l’autore mantiene dei diritti sull’opera anche dopo che l’ha venduta a chi solitamente ne trae profitto, copiandola industrialmente e distribuendola sul mercato. La differenza è quella che passa tra un artigiano e un designer, un progettista. L’artigiano vende l’opera unica, irriproducibile, il designer il progetto. Lo scrittore produce un manoscritto (opera e progetto) che viene riprodotto industrialmente in libri.

Altra forma di rendita sul capitale immateriale sono infatti i brevetti e le licenze. Queste solitamente spettano ad organizzazioni che investono in ricerca e sviluppo di prodotti tecnologici. Sono i diritti sull’uso del progetto e sull’uso del prodotto. Anche il progetto è un’opera unica che viene venduta come brevetto a chi la sviluppa nei prodotti industriali.

L’invenzione tecnologica è oggi macchina, dispositivo, processo, software, molecole, codice genetico, ricetta alimentare, pianta, animale, farmaco, materiale… che può essere brevettata impedendo, a chi volesse in seguito avvalersene, di farlo. Il detentore del brevetto può concederlo dietro pagamento di un corrispettivo, ovvero i brevetti si possono comprare. Queste garanzie legali evitano che l’enorme spesa in capitale fisso venga vanificata brevemente dall’imitazione della concorrenza. Sono precisamente degli strumenti necessari a limitare la concorrenza e l’accesso alle informazioni utili alla produzione.

Un’altra e più controversa forma di rendita è quella che deriva da quelli che Raffaele Alberto Ventura chiama “beni posizionali”(Ventura 2017, p. 28). Fondamentalmente sono i consumi che permettono il riconoscimento sociale di appartenenza ad una élite. Ma non è l’appartenenza che dà diritto alla rendita, bensì l’organicità. Più l’intellettuale è “organico”, con vocabolario gramsciano, al gruppo egemone maggiori riconoscimenti accademici, economici, di pubblico ottiene. Se la produzione intellettuale non concorda con il sistema sociale (quindi produttivo e riproduttivo) in cui viene proposta, l’intellettuale o artista non viene neppure riconosciuto come tale. La sua opera non viene comprata, diffusa e remunerata dalle royalties e l’autore non può fregiarsi del titolo di artista o filosofo o scrittore… resta un dilettante, uno “spostato”.

La maggior parte delle persone che si affacciano sul mercato del lavoro cognitivo si apprestano a svolgere più un ruolo politico, nella macchina della propaganda della industria culturale, per la creazione di paure e bisogni. Mi azzarderei a dire che la maggior parte dei lavoratori cognitivi aspirano a vendere la loro adesione ad un sistema di valori egemone e si impegnano a riprodurlo nelle filiere diffuse delle “industrie del senso”(Bellucci 2019).  L’intellettuale, il ricercatore, vende il suo tempo indefinito, la sua fedeltà, la sua forza lavoro non misurabile, per produrre opere che saranno di proprietà dell’istituzione che lo finanzia o lo assume e ne devono quindi rispecchiare il sistema di valori. E’ il caso di bandi, concorsi, assegni di ricerca, residenze artistiche o assunzioni per università, istituti di ricerca, accademie, case di produzione, riviste, etc…

Il tramonto della lotta di classe e l’ascesa dei nazionalismi

Grazie ad un sempre maggiore efficientamento dei processi produttivi e di erogazione dei servizi, il lavoro socialmente necessario richiede un numero ridotto di addetti, offre paghe orarie basse e, soprattutto nei paesi con economie più avanzate, impiega la maggior parte della popolazione immigrata quindi si è razializzato. Con il fenomeno delle delocalizzazioni, gran parte dei processi produttivi, industriali soprattutto, sono stati spostati in macroregioni con più bassa tassazione e minore costo del lavoro, riducendo fortemente la componente operaia nei paesi più ricchi.

D’altro canto il lavoro improduttivo, e spesso inutile o dannoso per la società, risulta indispensabile a conservare e adattare il sistema di relazioni sociali attuale. Eppure chi ne partecipa con la sua attività quotidiana non è necessariamente un privilegiato: anche collaborando a perpetrare lo sfruttamento dei lavoratori e la redistribuzione diseguale delle risorse, può subire la precarietà e il senso di inutilità di condizioni lavorative umilianti, trovandosi schiacciato dalle catene che contribuisce ogni giorno a rinsaldare (Graeber 2018, p.64).

Ad essere cancellata come agente di mutamento storico non è la classe operaia soltanto, ma anche il suo avversario borghese. È come se in seno ad una società classista si stesse formando una società “senza classi”, giacché gli antagonisti d’un tempo sono ora uniti da un “interesse prepotente per la conservazione ed il miglioramento dello status quo istituzionale”(Marcuse 1967, p.12). E questo perché, secondo Marcuse, lo sviluppo tecnologico — trascendendo il modo di produzione capitalistico — tende a creare un apparato produttivo totalitario che determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. Tale sviluppo “dissolve l’opposizione tra esistenza privata e esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali” e serve a “istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale più efficaci e più piacevoli”(Marcuse 1967, p.14). Nella tecnologia totalitaria “la cultura, la politica, e l’economia si fondano in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La produttività e il potenziale dì sviluppo di questo sistema stabilizzano la società e limitano il progresso tecnico mantenendolo entro il quadro del dominio”. (P. Mattick, The limits of integration, in: AA.VV. 1967)

Il conflitto può essere così spostato verso l’esterno in una competizione internazionale per le risorse considerate scarse, in un rinnovato nazionalismo (12). All’interno delle società il conflitto viene convogliato in risentimento e aggressività verso quegli individui che vengono percepiti come difficilmente assimilabili dal sistema, come un peso per la società, fondamentalmente i poveri, meglio se visibilmente diversi. L’esito autoritario e militarista di questa evoluzione della crisi di riproduzione del capitalismo è piuttosto probabile. Nella pace sociale, conquistata con l’adesione dei lavoratori all’idea di solidarietà nazionale di fronte alle emergenze terrorizzanti, pandemiche, ambientali, sociali, rimane la negazione dell’evoluzione e l’immobilità.

Piuttosto che ridurre drasticamente il tempo di lavoro della maggioranza delle persone, per paura di perdere il vantaggio strategico accumulato nel disequilibrio geopolitico, si continueranno a perseguire politiche imperialistiche riguardanti ormai il blocco europeo in antagonismo con quello asiatico e angloamericano.

Servi, cortigiani e aristocratici

All’interno di questa rinnovata unità d’intenti, le classi sociali si stratificano in nuovi gruppi definiti dalla cultura e dalla posizione economica. I servi diventano coloro che dedicano l’intera vita alla sopravvivenza, spesso esclusi dai cicli produttivi a costituire quell’esercito industriale di riserva che mantiene basso il costo della residua forza-lavoro. I cortigiani costituiscono l’ampia classe media che si divide il lavoro cognitivo, spesso inutile o addirittura dannoso, ma che gli assicura una parte dei profitti e delle rendite in cambio della riproduzione della società così com’é. Gli aristocratici, neppure costretti al ruolo di imprenditori, per la maggior parte sostituiti da manager, sono quella parte crescente della popolazione che non deve lavorare per vivere perché gode di rendite da patrimoni e può dedicarsi solo al consumo. A ben guardare non sembra una condizione inedita e infatti non lo è. La distribuzione ineguale e gerarchica della ricchezza disponibile, prodotta attualmente o accumulata nel passato, è una costante dei tempi storici ben prima del capitalismo, lievemente attenuata in alcuni particolari momenti recenti, quando l’esplodere della potenza produttiva del capitalismo ha riversato una inedita abbondanza in mercati tutto sommato ristretti e avvicinato le classi lavoratrici al potere nel cosiddetto compromesso socialdemocratico. Una congiuntura piuttosto limitata nel tempo e nella distribuzione geografica, in quanto la maggioranza della popolazione mondiale all’epoca si trovava in condizioni di grave deprivazione economica (13).

Il consumo non è produttivo

Malgrado molti pensatori della post-modernità lo abbiano in varie forme affermato (Echeverrìa 1995, p. 45-55), il consumo di merci e di servizi, anche se è la condizione necessaria alla loro produzione, non è esso stesso produttivo, neanche nella società dell’informazione. Sembra una banalità dover affermare questo ma siamo arrivati ad un tale stato di confusione che forse non è superfluo. Il fatto che dei telespettatori guardino programmi televisivi e vengano bombardati di pubblicità è sicuramente la condizione che permette la vendita degli spazi pubblicitari, ma questa attività non produce i programmi, la pubblicità, i prodotti pubblicizzati e la loro distribuzione commerciale, almeno quanto mangiare un piatto di pasta non lo cucina e non produce i suoi ingredienti malgrado sia lo scopo di quelle attività. Parimenti essere utenti di piattaforme digitali equivale a essere spettatori-clienti, studiati e segmentati come possibili acquirenti da chi vende pubblicità sul mercato globale (14) utilizzando i meta-dati, talvolta creando gratuitamente dei contenuti dell’intrattenimento (15).

Ovviamente la fruizione e il consumo di beni e servizi sono il presupposto per la produzione di quegli stessi beni e servizi, sotto forma della domanda, della spesa, se si trovano sul mercato. In una società interconnessa siamo tutti consumatori, tutti noi consumiamo valori d’uso ma non tutti fra noi li producono. La metà della popolazione mondiale spende meno di 10 dollari al giorno (16). Probabilmente a fronte di tanti produttori che non consumano ci sono molti consumatori che non producono. Anzi possiamo affermare senza paura di sbagliare che chi produce di meno, spesso consuma di più, perché ha il tempo e il denaro per farlo. L’ideologia del consumatore ricco, separato fisicamente e logicamente dai processi produttivi, dislocati in un altrove poco visibile, arriva a giustificare e sostituire la produzione con la sua spesa, equiparandola a un “diritto di esistenza” in quella forma della relazione. Il consumatore iperconnesso viene monitorato continuamente nei comportamenti dai device proprietari che usa. Per aver fornito metadati alle centrali di archiviazione e calcolo delle aziende del capitalismo della sorveglianza (Zuboff 2019), il consumatore ritiene a volte di aver espresso delle scelte e di aver prodotto una forma di ricchezza, i dati su se stesso. Ha senso? Quando ci presentano i big-data come il nuovo petrolio (17) stanno semplicemente dicendo che i dati fanno parte degli strumenti che permettono di ottenere profitti vendendo servizi pubblicitari, i quali promettono di catturare nuovi settori di consumatori. L’uso dei big-data non produce il consumo, al massimo permette di indirizzarlo, ma ci sono ragionevoli dubbi anche su questo. Solo il denaro può produrre il consumo, se non diventa capitale o riserva.

Il comunismo presente e futuro

Tutte e tre le anime del lavoro, ovvero delle forze psichiche che ci spingono ad agire per trasformare il mondo circostante, sono compatibili con qualsiasi sistema economico e qualsiasi assetto di proprietà e potere nei rapporti di lavoro. Ciò che inevitabilmente varia nelle differenze è il bilanciamento fra le tre motivazioni che fanno da motore alla riproduzione sociale: il dovere, il bisogno o la convenienza, il piacere o desiderio. Nessuna di queste è sopprimibile completamente perché sono elementi della economia libidinale di tutti gli animali più evoluti. Anche gli animali hanno regole sociali, comportamenti utili e momenti di gioco e di piacere.

Il comunismo, passato, presente e futuro si distingue anch’esso per l’importanza delle tre motivazioni principali e segue le stesse evoluzioni nel loro rapporto. Il comunismo primitivo si basava principalmente sul dovere verso la comunità di appartenenza che sfruttava le risorse naturali, quello moderno, plasmato dalla carenza di risorse private, nel senso di sottratte alla comunità, sul bisogno oltre che sul dovere coercitivo delle norme, quello futuro, affacciandosi in un epoca che ha superato di fatto la necessità materiale, potrebbe ricevere il suo principale impulso dal piacere e dal desiderio, mantenendo comunque degli aspetti di utilità e di dovere ineliminabili.  In tutte le occasioni, passate presenti e future, in cui delle persone si trovano a disporre di beni comuni, trovando dei sistemi di relazione che gli permettono di trarne delle utilità, il comunismo è già in atto. Imperfetto, certo, compromesso con altri sistemi della produzione e della riproduzione, tradizionali, capitalistici, tribali, statuali… ma comunque è una organizzazione politica ed economica del bene comune che sopravvive da sempre. Altrettanto semplice è sperimentare delle forme di attività liberata dalla necessità e dal bisogno, quel lavoro non alienato che è l’esito della società comunista, in cui il lavoro salariato viene definitivamente abolito (Stiegler 2019, p.310).

E’ sufficiente disporre di tempo libero e di una certa misura di attenzione, che si conquista sottraendosi agli innumerevoli dispositivi preposti alla sua cattura da parte del mercato, per porsi nella condizione di trasformare il mondo, con le sue relazioni sociali, senza comprare o vendere alcunché. La vita attiva, densa di significato, é lì alla portata di tutte le esistenze. Solo dall’esperienza fatta di persona della libertà può derivare l’impulso ad estenderla a chi ora é impossibilitato a goderne, riducendo al minimo il tempo dello sfruttamento nel lavoro, l’alienazione nel consumo, la proprietà privata dei mezzi di produzione.

Note

1) https://www.vatican.va/archive/bible/genesis/documents/bible_genesis_it.html

2) https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091981_laborem-exercens.html

3) https://rizomatica.noblogs.org/2021/11/teoria-della-classe-disagiata/https://www.che-fare.com/valerio-mattioli-33780-battute-contro-la-teoria-della-classe-disagiata/

4) Paul Mattick https://www.leftcom.org/it/articles/1971-01-01/paul-mattick-divisione-del-lavoro-e-coscienza-di-classe

5) https://www.sinistrainrete.info/teoria/12102-dino-raiteri-lavoro-produttivo-e-lavoro-improduttivo.html

6) https://www.sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/22039-massimo-de-minicis-silvia-dona-lavoro-materiale-o-virtuale-luoghi-e-tempi-nel-lavoro-nelle-platform-work.html

7) https://www.internazionale.it/bloc-notes/alessio-marchionna/2018/05/23/nuova-aristocrazia-americana

8) “ Nicola Le Camus, segretario del re nel 1617, il quale era venuto a Parigi con venti lire in tasca e aveva finito col dividere tra i figli un’eredità di nove milioni, riservandosi quarantamila lire di rendita.”(Dumas 2020 , p.18) – “ho assegnato a lui la terra di Bragelonne, che mi viene da un’eredità, e che gli dà il titolo di visconte e diecimila lire di rendita.»”(Dumas 2020, p.337)

9) https://www.ilgiornale.it/news/me-parla-curriculum-fornero-jr-si-difende-e-si-incarta.htmlhttps://www.corriere.it/politica/12_febbraio_07/La-titolare-del-welfare_1369e9e4-5167-11e1-bb26-b734ef1e73a5.shtml

10) https://www.treccani.it/vocabolario/deontologia

11) J. Dean, L’era del neofeudalesimo, Internazionale, 12-6-2020.

12) “Bisogna rinchiodare nel cervello dei lavoratori che hanno un maggiore interesse a mantenersi solidali con i loro padroni e soprattutto con la loro nazione e a mandare al diavolo la solidarietà con i loro compagni del Paraguay e della Concincina.” (E. Corradini « Classi proletarie: socialismo; nazioni proletarie: nazionalismo » 1910) https://www.polyarchy.org/basta/documenti/corradini.1910.html

13) https://bit.ly/3FbfAk3https://www.gapminder.org/tools/#$chart-type=mountain&url=v1

14) AGCOM Osserva torio sulle piattaforme Online https://www.agcom.it/documents/10179/17328538/Documento+generico+20-12-2019/0cfa28b1-1567-46c5-8ad7-70fa96174ff4?version=1.1http://www.ictbusiness.it/cont/news/ricavi-pubblicitari-google-guadagna-37-euro-da-ogni-utente/43917/1.html

15) John Michael Roberts, Co-creative prosumer labor, financial knowledge capitalism, and Marxist value theory,

The Information Society An International Journal ,Volume 32, 2016

https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/01972243.2015.1107163

16) https://www.gapminder.org/answers/how-many-are-rich-and-how-many-are-poor/ https://ideas.repec.org/p/ucg/wpaper/0001.html

17) https://www.culturedigitali.org/big-data-ed-estrazione-del-valore-il-nuovo-petrolio-moderno/

Bibliografia

A.A., The Critical Spirit: essays in honor of Herbert Marcuse, a cura di: K. H. Wolff e B. Moore Jr.,Beacon Press, 1967.

H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, 1988.

S. Bellucci, L’industria dei sensi, Harpo, 2019.

S. Bellucci, AI-Work, Jacabook, 2021.

F. Berardi, Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione, Castelvecchi, 1985.

F. Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, 1981.

F. Debenedetti, Fare profitti. Etica dell’impresa, Marsilio, 2021.

M. De Landa, Assemblage theory, Edinburgh University Press, 2016.

G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, 2003.

J. Dewey, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, 1965.

A. Dumas, Vent’anni dopo, Newton Compton, 2020

J. Echeverrìa, Telepolis, Laterza, 1995.

F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra [Lipsia, 1845], Editori Riuniti, 1973.

A. Gorz, L’immateriale, Boringhieri, 2003.

D. Graeber, Bullshit jobs, Garzanti, 2018.

M. Hardt – A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, 2010.

K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1967.

K. Marx, Manosctitti economico-filosofici del 1844, Feltrinelli, 2018.

K. Marx, Il Capitale, UTET, 1974.

T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014.

G. Mazzetti, Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario, Editori Riuniti, 1992.

G. Mazzetti, L’uomo sottosopra. Oltre il capitalismo per scelta o per necessità?, Manifestolibri, 1994.

M. Mazzucato, Il valore di tutto, Laterza, 2018.

B. Stiegler, La società automatica, Meltemi, 2019.

B. Vecchi, Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri, 2017.

R. A. Ventura, Teoria della classe disagiata, Minimumfax, 2017.

M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo [1905], BUR, 1991.

S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss, 2019.