Teoria della classe disagiata – Recensione

Ripubblichiamo la recensione di “Teoria della classe disagiata” scritta da Veronica Siracusano Raffa per il suo blog qualche mese fa. Veronica, DocSweepsy per i molti che la leggevano su internet, è venuta a mancare qualche giorno fa a causa di un’improvvisa malattia. Non l’avevamo mai incontrata di persona ma ci mancheranno la sua intelligenza, ironia e capacità di connettere mondi diversi: come aveva detto nella nostra ultima videochiamata “sono un pò dappertutto come il prezzemolo”, e infatti oltre a collaborare con Rizomatica militava in Sinistra Classe Rivoluzione, partecipava a Tech Workers Coalition Italia e scriveva appunto un proprio blog.
Un grande abbraccio a tuttə coloro che le hanno voluto bene.

di V. Siracusano Raffa

 

Se mi chiedono quali speranze ci restano, io risponderò con Kafka: c’è molta speranza, ma nessuna per noi.

Se questo è il migliore dei mondi possibili, figuriamoci gli altri.

Da aspirante disagiata, tenevo da un po’ in coda di lettura l’esordio saggistico di Raffaele Alberto Ventura, sul quale avevo visto molti rimandi e citazioni. Tocca leggerlo, mi dissi e finalmente l’ho fatto. Come mi ha detto Pietro ha molti spunti interessanti. Da sociologa mancata (a proposito di disagio) apprezzo molto i continui richiami teorici, sin dal titolo che evidentemente cita il classico di Veblen, così come gli innumerevoli rimandi letterari. L’autore ci parla invece del rischio concreto, nel senso che è già realtà in non pochi casi, del declassamento del ceto medio occidentale.

Siamo praticamente coetanei e la percezione del disagio è una condizione comune della nostra generazione, educata ad avere grandi aspirazioni in un contesto in cui il boom economico è un ricordo irripetibile e il capitalismo è in una fase di declino “vistoso”. Sembra passato un secolo dagli anni Novanta:

 

Una generazione che si è impegnata ad accumulare titoli, “capitale posizionale” per poi scoprire che non c’è posto per tutti: “I più pragmatici tra di noi sceglieranno un compromesso con la realtà, ovvero la condanna a una vita quotidiana fatta di fatica, noia, umiliazione e risentimento, insomma il cosiddetto successo.”

La critica del sistema economico è necessaria, Ventura coglie il punto col riferimento alla caduta tendenziale del saggio di profitto, riconoscendo la crisi strutturale del capitalismo. Però ammette che questa non è universalmente riconosciuta e ne dà una spiegazione forse un po’ prosaica: “c’è innanzitutto una ragione culturale: una grande maggioranza della popolazione oggi vivente è nata dopo gli anni Trenta e non conosce nient’altro che la società del benessere”.

È interessante tra l’altro tutto il discorso intorno ai livelli di istruzione in rapporto alla crescita economica, una correlazione che non è affatto dimostrata:

Se un’ipotetica società ripartisce la ricchezza in funzione dei risultati a una corsa, il più veloce avrà un guadagno superiore a quello del più lento. Ma questo non implica che correndo si sia creata della ricchezza, né che correndo tutti più veloce si possa influire sulla ricchezza complessiva. Al contrario, saremo soltanto tutti più stanchi.

Sarebbe plausibile al contrario una relazione inversa, per cui all’aumentare della ricchezza aumentano anche le possibilità educative e quindi i livelli di istruzione.

Del resto il sistema educativo, fondato sulla carta sul diritto all’istruzione di tutti, è concepito e modellato per garantire forza lavoro “utile” e adattabile al sistema produttivo, e questo mi pare sfugga all’autore. Guardandoci intorno non sembrano tanto campate in aria, anzi piuttosto profetiche, le parole di Ivan Illich così parafrasate: “il sistema educativo rappresenta innanzitutto un costo privato per coloro che inseguono la promessa di un’improbabile ascesa sociale” e “un costo pubblico poiché si chiede allo Stato di finanziare una crescente domanda di educazione drogata dalla competizione per l’accesso al mondo del lavoro.”

Le osservazioni e i ragionamenti lungo il testo sono stimolanti, come quando riflette sul fatto che gli economisti ortodossi non avrebbero mai potuto prevedere la crisi del 2008 essendo immersi nei loro modelli, fallati alla base, o quando denuncia il carattere distruttivo del modello competitivo, cardine del sistema. La perla finale è la riproduzione del tema scritto da Marx per la licenza liceale, il suo primo scritto conosciuto, del 1835. Resta comunque la contraddizione insanabile di essere uno che è “riuscito”, che è emerso dalla massa della classe disagiata, e parlando personalmente, a me è rimasto un po’ di amaro in bocca una volta finito di leggerlo. Diversi spunti validi ma il quadro mi sembra alla fine confuso. Sarà pure un libro da leggere però continuo ad avere le mie perplessità… potrebbe anche darsi che non riesca a perdonargli di sentirsi superiore a Walter White, e forse a tutti noi. Cercando di capire cosa non mi convince di questo testo sono andata a caccia di recensioni, fino a trovare quella su commonware relativa in realtà alla “trilogia” risultante dai tre libri ormai pubblicati da Raffaele Alberto Ventura. Leggendola mi sono resa conto che l’uso strumentale del termine ‘classe‘ è probabilmente il principale elemento che mi disturba. Dice infatti Roggero nell’articolo:

La classe per noi resta al contrario una definizione politica, la posta in palio di un processo di lotta. Non è una banale questione terminologica bensì di sostanza, di postura e prospettiva politica. L’autore legge il declassamento degli ex agiati come una «tragedia della borghesia». Cosa succede, però, quando cambia la collocazione materiale di queste stesse figure, quando le promesse si infrangono, quando il ceto medio non può più continuare a vivere come prima? Questi soggetti non sono oppressi ma mancati oppressori, ci dice: la seconda parte è probabilmente vera ma ciò non significa che sia vera la prima. Anche gli operai possono essere mancati capitalisti, ma ciò non significa che non siano operai. Ci sembra che l’autore resti fermo su una fotografia dell’esistente, una fotografia molto nitida e ottimamente scattata, che tuttavia non riesce a cogliere le possibili tendenze, i punti di tensione, le faglie potenziali. La sua analisi corre cioè il rischio di essere statica, di non presupporre il movimento, di guardare indietro e non avanti. Pur criticando l’ideologia, Ventura ne resta parzialmente impigliato, perdendo di vista la materialità dei rapporti sociali, dunque la talora rapida tumultuosità dei processi e la possibilità della loro rottura e sovversione.

La classe disagiata nei fatti è la classe lavoratrice, che non coincide con gli operai di fabbrica – che non definivano la totalità della classe neanche nell’Ottocento, è bene ricordarlo – ma con tutti coloro che vivono del loro lavoro. E siamo la stragrande maggioranza: l’illusione di essere ceto medio era appunto solo un’illusione, e il boom economico del dopoguerra è stato l’eccezione che ha forse confuso e spiazzato la percezione del nostro collocamento di classe. Il mio timore è che un lavoro come quello di Raffaele Alberto Ventura allontani questa consapevolezza, il risveglio della coscienza di classe che è oggi più necessario che mai, per non soccombere allo stato di cose presente.

Edit: un doveroso aggiornamento dopo la segnalazione ricevuta di due articoli importanti sul libro:

Il disagio della classe disagiata

33780 battute contro la teoria della classe disagiata