di R. Norvegicus
Ora, lontano da Babilonia e dai suoi costumi che amo, penso con qualche stupore alla lotteria, e alle congetture blasfeme che mormorano nel crepuscolo gli uomini velati.
Jorge Luis Borgesi
Dopo essere rimasto catturato, insieme a diversi milioni di connazionali e a ben centoundici milioni di persone nel mondo, dalla visione della serie Squid Game di Netflix, riporto di seguito qualche considerazione occasionale e del tutto libera.
La teoria dei giochi, da oltre mezzo secolo, è collocata al centro del pensiero economico dominante. Il rapporto tra gioco ed economia emerge in modo inconfondibile già nel titolo del celebre articolo di Von Neumann e Morgenstern TheTheory of Games and Economic Behavior (1944)ii. Un titolo che rende evidente la prossimità tra l’analisi dei giochi e la previsione scientifica del comportamento umano. Il premio Nobel per la chimica Manfred Eigen scriveva nel 1975 che la teoria dei giochi sarebbe divenuta il fondamento della futurologiaiii. Quantomeno, è sufficiente riflettere un istante sul ruolo centrale che Morgenstern e, soprattutto, Von Neumann, hanno avuto nella realizzazione del calcolatore, per rendersi conto che l’epoca digitale in cui viviamo costituisce il trionfo della teoria dei giochi e della sua rappresentazione della realtà, del suo “modello”. E tuttavia, sebbene fin dai primi episodi della serie Netflix si avverta un clima da vaticinio fantascientifico incastonato in etiche da illuminismo neroiv, si tratta di una sensazione destinata a rimanere tale: Squid Game mostra soltanto una crudele gara messa in piedi per soddisfare le frenesie di una manciata di VIP del capitalismo finanziario amanti delle scommesse. Non ci sono margini per teoria delle decisioni e interazioni strategiche, non c’è illuminismo nero. Le corse dei cavalli sono il paragone utilizzato con più frequenza nel film. Gli oltre quattrocento giocatori che accettano di partecipare alle prove, gente reclutata tra disoccupati, ludopati, migranti, pregiudicati e persone pesantemente indebitate, sono soltanto i “cavalli da corsa” di un crudele survival game, un gioco di sopravvivenza che prevede un lauto premio in denaro per i vincitori e che si svolge in gran segreto su un’isola disabitata. Quanti non abbiano visto la serie coreana, ma ricordino Giochi senza frontiere, possono immaginare uno scenario simile. Con la differenza, non di poco conto, che in Squid Game i “perdenti” vengono eliminati con una raffica di mitra in pieno volto.
Se dunque l’opera del regista sudcoreano Hwang Dong-hyuk non riflette direttamente la filosofia dei giochi economici che ispira il neoliberismo contemporaneo, ci si potrebbe domandare in che modo se ne distingua e come sia riuscita a interpretare il sentire diffuso così bene da spingere oltre centodieci milioni di spettatori a identificarsi con le sue storie e i suoi protagonisti. Basti pensare che le maschere più di moda tra i ragazzi durante la festa di Halloween sono state le tute dello staff di Squid Game e che in tutte le principali metropoli ci sono locali che hanno organizzato con successo serate a tema dedicate a Squid Game. Pare che lo sfortunato cittadino coreano casualmente titolare del numero telefonico che nel film appare sul biglietto da visita d’invito al gioco abbia ricevuto, per diverse settimane, oltre 5000 telefonate ogni giorno. Tra i numerosi tentativi di interpretare il successo della serie, molti hanno sostenuto di aver colto nella trama un elemento di forte critica sociale. Per esempio, Cecilia Ermini, in un articolo pubblicato sul sito della rivista Io donna, definisce Squid Game come una “allegoria sulla società capitalistica moderna”.v Giulia D’Agnolo Vallan scrive sulle pagine de Il Manifesto di “una texture sporca, realistica, ancorata alla lotta di classe” e di una “parabola anticapitalistica”.vi Ammesso che nel film tale critica sociale ci sia davvero, per coglierla sarà necessario districarsi all’interno di una fitta rete di paradossi.
Parco giochi con pena di morte
Se dici che questo bastone è reale, te lo rompo in testa. Se dici che non è reale, te lo rompo in testa. Se non dici niente, te lo rompo in testa.
Rompicapo Zen
Iniziamo con uno dei pochi momenti di Squid Game in cui s’intravede qualcosa di avvicinabile a un vero intendimento politico: quello in cui il Front-Man, il responsabile delle gare, punisce con la morte alcuni suoi uomini per aver tradito le regole del gioco. Gli uomini dello staff che lavorano alla realizzazione delle gare possono fare traffico d’organi con i corpi dei cadaveri senza che lui se ne preoccupi o li persegua, ma non possono, pena la morte, fornire informazioni riservate ai giocatori. Questo perché, a suo parere, i giocatori hanno il diritto di veder finalmente riconosciuti i propri meriti in un sistema di regole trasparenti e chiaramente definite. Si noti: il rispetto delle regole e dei “diritti” dei giocatori viene invocato dal Front-Man nel bel mezzo di un carnaio in cui lo staff è incaricato dell’ eliminazione fisica dei perdenti e dove ai giocatori è consentito uccidersi a vicenda. L’unico diritto riconosciuto ai giocatori sarebbe dunque quello di farsi valere e di partecipare al massacro in condizioni di parità con tutti gli altri. Tanto importante questo principio che i cadaveri dei responsabili della truffa sono lasciati a penzolare, come macabro ammonimento, davanti ai giocatori.
Non si può escludere che tale ostentazione del culto delle regole in una situazione in cui domina l’arbitrio più becero e crudele alluda a quella nuova commistione di giustizialismo e meritocrazia, diffusa anche in Italia, che rischia di risolversi in insidiose derive totalitarie: si violano sistematicamente i fondamentali dell’etica mentre si continua ad invocare il rispetto e la sacralizzazione di regole infondate, fittizie e occasionali. Arduo tuttavia affermare che Dong-hyuk abbia fatto un’allegoria di questa oscura pulsione. Ne offre, al più, un’immagine deformata che la evoca e, nella migliore delle ipotesi, aiuta a riconoscerla.
La filiera dell’assurdo, in Squid Game, lungi dal concludersi con questo elogio del rispetto scrupoloso dei diritti dei concorrenti enunciato dalla torre di controllo di un campo di sterminio, si snoda lungo l’intera narrazione. Disorienta molto, ad esempio, la constatazione di quanto difficile sia indovinare qualche preteso “merito” nel restare immobili per un minuto mentre si gioca a “un due tre, stella!” o nel vincere al tiro alla fune. Insieme alla componente di alea, di pura fortuna, presente nella serie di prove imposte ai giocatori, si coglie nitidamente l’ingiustizia che quest’alea si tira dietro: se per puro caso scegli una formella più complicata, o una posizione sconveniente nell’ordine del gioco, ciò non ha molto a che fare con la tua intelligenza o con altre facoltà/capacità cui si attribuisce (a torto o a ragione) il concetto di “merito”. Si tratta di pura fortuna. Analogamente, se sei nato grande e grosso e puoi alzare con facilità un peso di centocinquanta chili, o se sei nato piccolo e agile e puoi passare attraverso una botola di quaranta centimetri di diagonale, questo non dipende da alcun “merito”.
Trattare la fortuna come fosse un merito è uno degli aspetti di Squid Game su cui le menti raffinate che hanno concepito la teoria dei giochi non sarebbero state d’accordo. La maggior parte dei giochi studiati nell’ambito del filone di ricerca che ha fatto seguito all’articolo di Von Neumann e Morgestern, richiede attenti calcoli e/o raffinate inferenze probabilistiche da parte dell’attore, anche quando le scelte vengono operate in situazioni di grande incertezza. I protagonisti di Squid Game, invece, si affannano inutilmente dopo ogni prova nel tentativo di indovinare quali saranno le caratteristiche del gioco successivo. Le loro previsioni risultano puntualmente errate. Nessuno di loro può sapere se nel prossimo gioco si dovrà collaborare invece di combattersi, se sarà utile scegliere per il gioco un compagno possente o, al contrario, uno agile. Qualsiasi competenza raggiunta nell’ambito della cosiddetta “teoria della scelta” (decision theory) sarebbe inutile nel contesto di Squid Game. Le prove che si succedono sono costruite in modo talmente arbitrario che è impossibile trarne una qualsiasi logica. Come si rileva facilmente nella prova del ponte sull’abisso, che è costituito da diciotto lastre di vetro di due tipi, distribuite a caso: una metà è fatta con vetro temperato che regge il peso di un essere umano, l’altra metà è fatta di vetro semplice, che si frantuma al passaggio dei giocatori, facendoli precipitare nel vuoto. Visto che si procede uno per volta, i primi che attraversano il ponte lastricato hanno, in pratica, una probabilità nulla di uscirne vivi. Quelli che ce la fanno, come il protagonista di Squid Game, sono tra gli ultimi della serie e possono giovarsi dei passi falsi di chi li ha preceduti. Una regola selettiva dunque c’è, ed è anche rigida: la probabilità di riuscire ad attraversare il ponte di vetro aumenta quanto più si è collocati indietro nella fila dei giocatori. Ma la posizione che ciascuno assume nell’ordine di attraversamento è stabilita a caso, scegliendo un semplice numero per ciascun giocatore, prima di sapere in cosa consisterà la prova e quale sarà il ruolo di quel numero all’interno del gioco.
Ancora più arbitraria risulta la regola generale secondo cui, se la maggioranza dei giocatori non intende proseguire nelle prove, il gioco sarà interamente annullato. Anche qui, chi vada cercando nel plot elementi di critica sociale, può cogliervi un altro riferimento alle forme della politica contemporanea. Per esempio ai sistemi parlamentari maggioritari, che sacrificano la complessità sociale sull’altare di un’efficienza del tutto presunta. Ad emergere in rilievo è, ancora una volta, la componente paradossale che sovrintende le leggi che regolano Squid Game. La Costituzione italiana afferma (articolo XIII) che la libertà personale è inviolabile. Il sistema normativo di Squid Game ammette, invece, una sola possibilità di sottrarsi al gioco: la decisione, per voto, da parte della maggioranza dei giocatori. Ora, il fatto che da soli non si possa abbandonare l’isola o rinunciare al gioco è una violazione della libertà personale, perpetrata peraltro nella sua forma più odiosa, quella di una detenzione arbitraria e ingiustificata. Tuttavia, qualora la maggioranza dei giocatori concordi sulla necessità di sospendere le prove, se ne andranno tutti (anche quelli che continuerebbero volentieri a giocare). Come se l’osservanza delle norme di una democrazia da sciame, di un diritto da alveare, possa in qualche modo compensare la brutalità del sequestro di persona e, in certa misura, giustificarla in nome del consenso. Seguendo l’interpretazione che Gregory Bateson fornì della teoria dei tipi di Bertrand Russell, siamo di fronte ad una confusione di tipi logici, un rovesciamento di gerarchie tra insiemi: la libertà nella decisione collettiva viene collocata, in Squid Game, a un livello di ordine superiore rispetto alla libera scelta individuale, dalla quale sarebbe del tutto indipendente.
Anche in questa circostanza, come nel caso del discorso del Front-Man, si stenta a comprendere se nella serie coreana vi sia realmente un elemento di critica o, piuttosto, se il regista si limiti a dare voce a una diffusa forma del sentire: la crescente pulsione verso un conformismo politico autoritario, nascosta dietro una laccatura democratica di circostanza.
Il paradosso, in Squid Game, non si manifesta solo sul piano normativo e riafferma la sua presenza negli aspetti emotivi della comunicazione, a partire da quella “istituzionale”. Ilaria Chiavacci, sempre sulle pagine di Io Donna, conclude un articolo su Squid Game rilevando come anche la nostra società sia: “in fondo, una società che ti frega con il sorriso, proprio come la bambola/fucile di Squid Game”vii. La bambola/fucile, per chi non ha visto la serie, è una pupazza meccanica che osserva i giocatori durante la prova e, al primo errore, li elimina. Anni fa, lo scrittore di fantascienza William Gibson diede a un suo testo, scritto durante un viaggio a Singapore, il singolare titolo di “Disneyland con pena di morte”.viii Come a voler sottolineare quanto repellenti siano i regimi che mescolano gioco infantile e mitra spianati, iperattività delle polizie segrete e felicismo di facciata. Sfogliando quelle righe incontriamo anche questa nota: “La sensazione che il Grande Fratello ti si presenti dietro un sorriso non produce alcun sollievo”. A ben guardare, Gibson se la stava cavando a buon mercato. Stando alla teoria del doppio legame di Batesonix, quel sorriso può fare di molto peggio: scatena forme acute di sofferenza psichica. Quando un’autorità (familiare o politica) invia continuamente messaggi di due ordini, uno dei quali (per esempio il tenero sorriso) nega l’altro (la feroce minaccia), il destinatario rischia di precipitare in forme gravi di psicosi. Ed è facile rilevare come, in Squid Game, messaggi paradossali di questo genere sono prodotti in continuazione. Ricapitolando (in ordine inverso) quanto detto risulta evidente come: (i) tenere sul medesimo piano l’innocenza del gioco infantile e la violenza spietata del regime delle regole (la bambola/fucile), (ii) annullare il diritto alla libertà personale magnificando i valori democratici della scelta collettiva (volontà della maggioranza vs. tutela della libertà di scelta individuale), (iii) pretendere che il diritto venga rispettato e riconosciuto in un contesto dove della giustizia non si vede l’ombra (il diritto al “merito” secondo il Front-man), – siano appunto ingiunzioni paradossali, forme di doppio legame che lo spettatore lascia passare senza troppe resistenze. La sospensione dell’incredulità del pubblico avviene su due registri: il primo è quello tradizionale, che lo spettatore concede a ogni narrazione, viepiù se fantastica, mentre il secondo riguarda specificamente il gioco e il convincimento, consapevole o inconsapevole, che nel gioco siano concessi ampi scostamenti dal cosiddetto senso della realtà. La sequenza dei paradossi – incapsulata in questo doppio strato di fiducia nella narrazione – scorre senza creare dissonanze eccessive in chi segue la serie. E questa è probabilmente la prerogativa più interessante del plot di Squid Game. Rileggendo alcune righe della celebre opera che il filosofo James P. Carse ha dedicato al giocox, si riesce a individuare con precisione dove si nasconda la vera matrice di questa concatenazione di paradossi. Nel definire la libertà come la caratteristica essenziale di qualsiasi gioco, Carse precisa:
È un principo invariabile di ogni gioco, finito e infinito, che chiunque giochi, giochi liberamente. Chiunque deve giocare, non può giocare.
Si notino i corsivi di Carse nella riga finale: il gioco non può essere un obbligo. Quando lo diventa, non abbiamo più a che fare con un gioco. Si obietterà che i giocatori di Squid Game sono andati volontariamente sull’isola. Vero. Ma neanche ad un calciatore professionista di serie A si può impedire di uscire volontariamente dal campo durante una partita, se decide di farlo. Eventualmente la società di appartenenza potrà infliggergli una penale, ma la sua decisione di fronte alla legge rimane sovrana e insindacabile. Al contrario, i giocatori di Squid Game devono giocare. Torna utilissimo qui un altro riferimento al lavoro del solito Gregory Bateson. Una mattina del Gennaio nel 1952, mentre studiava il comportamento di gioco degli animali in uno zoo di San Francisco, Bateson si soffermò su una domanda cruciale per le sue future ricerche sul doppio legame: se i comportamenti giocosi nelle scimmie sono così simili a quelli di combattimento, come fanno questi animali a capire la differenza ? Si badi: Bateson non si riferisce soltanto agli animali che partecipano al gioco, ma anche a quelli del gruppo dei conspecifici che, in presenza di un gioco di lotta, non manifestano i comportamenti di agitazione e paura che esibiscono regolarmente dinanzi ad un vero combattimento.
La risposta cui giunse lo studioso inglese è decisiva: deve necessariamente esistere qualcosa, nella comunicazione, che veicoli il messaggio “questo è un gioco”xi. Si tratta del codice fondamentale, basico, che la trama di Squid Game punta a manomettere e a far saltare: il messaggio “questo è un gioco” diventa un messaggio paradossale, immediatamente smentito dalle feroci restrizioni imposte ai giocatori. Quel che ne segue, dal punto di vista dello spettatore, è un profondo straniamento (nel senso indicato da Brecht).
La contraddizione irreversibile che si determina tra la natura libera del gioco e la sua imposizione coatta costituisce, in Squid Game, l’ambiguità fondamentale che, in un processo a cascata, genera tutte le altre. È soltanto perché si pretende che ciascuno debba giocare che si sostiene ossessivamente che debba farlo in condizioni di assoluta parità con gli altri concorrenti. E quando si decide di lasciare alla maggioranza la libertà di annullare il gioco, è per sottolineare ancora una volta che, al contrario, sul piano individuale, ciascuno deve giocare. Il consenso della maggioranza vale come un segnale di divieto nei confronti di defezioni, sottrazioni e diserzioni da parte dei singoli.
In conclusione, poiché, come sostiene Carse, “chi deve giocare non può giocare” Squid Game funziona come un generatore automatico di paradossi. Il che, se da una parte spiega qualcosa del successo dell’opera, dall’altra suscita interrogativi di tipo nuovo. Anche perché la problematica dell’ingiunzione paradossale, che in Squid Game appare così evidente, non è stata particolarmente discussa e tematizzata nei vari commenti sulla serie. Men che meno si è pensato di indagarne il complesso significato politico. Significato su cui invece conviene soffermarsi. A cosa allude realmente Squid Game ? Quale forma di catarsi riesce a sollecitare nello spettatore questa rappresentazione della società capitalista come “parco giochi con pena di morte”? Davvero si può spingere il genere umano verso il bellum omnium contra omnes fingendo che si tratti soltanto di un gioco?
La situazione della classe operaia su questa terra
Per inverosimile che appaia, nessuno aveva ancora tentato una teoria generale dei giochi. Il babilonese è poco speculativo. Accetta i dettami del caso, gli affida la propria vita, la propria speranza, il proprio terrore, ma non gli accade di investigare le sue leggi labirintiche, le sfere giratorie che le rivelano.
Jorge Luis Borges
Occorre partire da una constatazione: se, come già accennato, le teorie scientifiche della scelta umana, a cominciare dalla teoria dei giochi, passando per la razionalità limitata di Herbert Simon, fino ad arrivare alle recenti teorie del “nudge”, costituiscono l’espressione più significativa dell’economia politica del nostro tempo, non si può certo dire che il pensiero critico le abbia tenute in gran conto. Chiunque sia sfiorato dal sospetto che una rinnovata “critica dell’economia politica” debba passare a contropelo quelle teorie, non troverà molti compagni di strada tra i cosiddetti intellettuali di sinistra. Ben pochi di loro sono stati capaci di riconoscere la pervasiva presenza dei “giochi” nel mondo del lavoro e dell’economia e di tenerla in qualche considerazione. Le uniche interessanti eccezioni si trovano negli itinerari del cosiddetto neo-operaismo italiano. Circa trent’anni fa, il filosofo Paolo Virno scriveva un importante saggio all’interno di un lavoro collettaneoxii che si era dato come obiettivo quello di studiare la “situazione emotiva” di quanti, in quel periodo, avevano iniziato a sperimentare sulla propria pelle le grandi trasformazioni in corso nel processo produttivo e nell’organizzazione del lavoro (flessibilità, precarizzazione, produzione just in time). Erich Fromm, probabilmente, avrebbe definito quel libro un’indagine sul carattere sociale:
Per esaminare lo stato della salute mentale dell’uomo occidentale contemporaneo e considerare quali fattori in questo sistema di vita portino allo squilibrio e quali altri favoriscano l’equilibrio mentale, dobbiamo studiare l’influenza esercitata dalle condizioni specifiche del nostro sistema di produzione e della nostra organizzazione sociale e politica sulla natura dell’uomo; dobbiamo riuscire a farci una tale immagine dell’uomo medio che vive e lavora in queste condizioni. Soltanto se potremo farci una tale immagine del “carattere sociale”, per quanto incompiuta e sperimentale essa possa essere, avremo una base per giudicare la salute mentale e l’equilibrio dell’uomo modernoxiii.
Sebbene Virno, a differenza di Fromm, non fosse particolarmente interessato alla salute mentale, il suo conciso programma, sia pure nelle distanze, presenta alcune analogie con quanto suggerito anni prima dallo psicanalista francofortese:
Si tratta di afferrare il campo di immediata coincidenza tra produzione ed eticità, struttura e sovrastruttura, rivoluzionamento del processo lavorativo e sentimenti, tecnologie e tonalità emotive, sviluppo materiale e cultura.
Gli studiosi che, con Virno, hanno contribuito alla stesura di quel libro collettaneo, avevano preventivamente deciso che attraverso le loro griglie analitiche sarebbero passati tre “modi di sentire” caratteristici dei nuovi scenari dell’economia postfordista: opportunismo, paura e cinismo. Ed è facile osservare come siano proprio queste le tonalità emotive che caratterizzano i giocatori di Squid Game.
Il saggio di Virno, intitolato Ambivalenza del disincanto, pur non menzionando la teoria dei giochi e i suoi dintorni, va letto come un sapiente contraltare ai modelli che, fin dalla metà del Novecento, hanno ispirato le teste d’uovo dell’economia planetaria. L’interpretazione che in quelle pagine Virno fornisce del cinismo chiama direttamente in causa il concetto di gioco. Un gioco colto nella sua dimensione storica, senza concessioni alla sua pretesa atemporalità logica o alla sua naturalità biologica. Un gioco indagato, dunque, nelle dimensioni contingenti del contemporaneo e nella sua inevitabile relatività. Un gioco in cui, tuttavia, tale relatività stava iniziando ad assumere caratteristiche senza precedenti:
Non si è più immersi in un “gioco” predefinito, partecipandovi con vera adesione, ma s’ intravede nei singoli “giochi”, destituiti di ogni ovvietà e serietà, ormai solo il luogo dell’immediata affermazione di sé. Affermazione di sé tanto più brutale e arrogante, o insomma cinica, quanto più si serve, senza illusioni ma con perfetta aderenza momentanea, di quelle stesse regole di cui è stata percepita la convenzionalità e la mutabilità.
Secondo Virno, “Le donne e gli uomini stanno facendo esperienza di regole, ben più che non di fatti”. E la conseguenza di questa confidenza con le regole è quella di “riconoscere la loro convenzionalità e infondatezza”. In una prospettiva marxiana come quella operaista, il rapido proliferare di regole fatue e instabili non costituisce l’esito insondabile di qualche accidente della storia, ma la conseguenza immediata e sensibile di una nuova forma di esercizio del potere e del controllo della produzione, che alla fine degli anni Ottanta aveva già raggiunto dimensioni globali. In breve: il rinnovamento organizzativo del lavoro attraverso l’applicazione di modelli ricavati dall’informatica. Virno e compagni ne coglievano gli effetti immediati sul carattere sociale: opportunismo, paura, cinismo. Che era quel che si dava a vedere alla fine degli anni Ottanta, quando la macchina informatica pareva ad altri giocare un ruolo del tutto benevolo, di carattere redistributivo: venivano contratte le garanzie sindacali, amputati i diritti dei lavoratori, ma si sosteneva che tutto ciò avrebbe finito per moltiplicare le opportunità e per aprire nuovi spazi. La mobilità delle regole, la loro precarietà e la loro infondatezza nutrivano l’ingenua speranza in un disordine felice, di una de-regulation in cui la dea bendata avrebbe baciato i cacciatori di occasioni, gli opportunisti. Nella definizione di Virno:
Opportunista è colui che fronteggia un flusso di possibilità interscambiabili, tenendosi disponibile per il maggior numero di esse, piegandosi alla più prossima e poi deviando repentinamente dall’una all’altra.
La serie coreana ci offre una chiave importante per capire cosa rimane di quelle illusioni: le regole di Squid Game, vale ripeterlo, sono traballanti, poco credibili, arbitrarie. Destituite, usando le parole di Virno, di ogni ovvietà e serietà, convenzionali e infondate. Basti ricordare il ponte di vetro sull’abisso. Ma è con la ricostruzione del labirinto tridimensionale tratto dal celebre disegno di Escher Relatività che il regista Dong-hyuk ci offre l’opportunità di comprendere finalmente come tale convenzionalità, tale mancanza di stabilità delle regole, sia l’esito di un programma generale, implementato, attraverso le reti, fin nei gangli più periferici dell’organizzazione del lavoro.
Il rituale girare a vuoto dei concorrenti di Squid Game nel labirinto di scalini ispirato al disegno di Escher, in attesa che si apra una nuova finestra, che parta un nuovo “game”, mette a nudo l’impotenza e la fragilità del lavoratore, costretto a giocare, in un contesto in cui l’informazione necessaria e sufficiente per compiere la scelta giusta o per ottenere qualcosa di lontanamente approssimabile a un merito, is not available, non è raggiungibile. Perché se Escher ha saputo dare alla dinamica del labirinto la vertigine della terza dimensione, il calcolatore digitale ha fatto molto di più: è riuscito a dare al labirinto, alle sue stanze, ai suoi corridoi, la capacità di mutare all’infinito. Come, del resto, si capisce facilmente osservando gli ambienti tridimensionali generati da videogame “sparatutto” tipo Doom. In labirinti di tal genere, neanche il più cinico degli opportunisti potrebbe indovinare quale sarà il prossimo gioco. E occorre puntualizzare che questo non è il mondo dell’indecidibilità matematica degli epigoni di Kurt Godel. Con i teoremi sulle proposizioni indecidibili il grande matematico austriaco ha mostrato come il paradossale sia ineluttabile. Nell’economia contemporanea – analogamente a quanto avviene in Squid Game – ci si organizza, invece, per produrlo in serie. L’indecidibilità del capitalismo digitale non è di tipo matematico ma di carattere empirico-sperimentale, non scaturisce dai limiti intrinseci dei processi di calcolo ma dalla loro capacità generativa, non si limita a verificare la propria esistenza, mira a moltiplicarla.
A un primo sguardo si potrebbe pensare che la costruzione dinamica di nuove stanze e nuovi corridoi, tali da rendere il percorso di un labirinto un unicum sempre nuovo, diverso e “personalizzato” per ciascun utente, sia il risultato dei portentosi progressi della potenza di trasmissione delle reti e della velocità di calcolo dei processori. E, sicuramente, tutto lascia prevedere, ad esempio, che il Metaverso prossimo venturo annunciato da Mark Zuckerberg sarà il luogo d’elezione per siparietti virtuali di tal genere. Il fatto è che, almeno da un punto di vista logico, una simile possibilità era ben nota fin dalla seconda metà del Novecento, basti pensare a videogiochi “d’epoca” basati su labirinti a due dimensioni come il leggendario Pac-man. Passando ai livelli successivi del gioco quei labirinti cambiavano struttura, si arricchivano di dettagli, presentavano nuove difficoltà. Una delle conseguenze di tale possibilità è che, una volta attraversato con successo un labirinto digitale, non c’è alcuna garanzia che, nel ripetere la prova una seconda volta, il percorso sarà lo stesso. C’è di peggio: nessuno può davvero garantire che, a parità di condizioni, il percorso che Maria si troverà ad attraversare nel labirinto sarà lo stesso che dovranno attraversare subito dopo Filippo, Lara o Giovanni. Questo mutamento “dinamico” della struttura del labirinto digitale è la principale ragione per cui opportunismo, paura e cinismo si sono trasformati, nel giro di trent’anni, nella depressione diffusa che alimenta il populismo contemporaneo. Applicare la logica del labirinto digitale ai percorsi di accesso e di uscita dal mondo del lavoro, per esempio attraverso i contratti, è stato per le teste d’uovo dell’economia neoliberale un gioco da ragazzi. Non per nulla, uno dei fondamenti dell’economia contemporanea è la liberalizzazione dei rapporti contrattuali, che ormai proliferano del tutto svincolati da qualsivoglia restrizione normativa. Per questa via, le avventurose scommesse dell’opportunista sono diventate ogni giorno più frustranti, improbabili e rischiose. Troppo spesso, ingenuamente convinto di avere imparato il percorso, l’opportunista è andato a sbattere contro una parete di pietra. Chiunque abbia visto il film di Ken Loach Sorry We Missed You, in cui un autotrasportatore britannico viene progressivamente distrutto dalla fitta trama di regole dell’impresa che gli dà lavoro, si sarà reso conto di quante insidie si possano nascondere dietro un semplice contratto. Ebbene, per quanto il paragone tra un contratto e un labirinto possa parere spericolato, ad un’osservazione ravvicinata le analogie sono piuttosto evidenti. Soprattutto se consideriamo labirinti e contratti come degli insiemi di regole di comportamento. L’indecidibilità esita facilmente nell’impotenza. Oggi solo la paura accompagna il disincanto. Di fronte al senso di disorientamento prodotto dagli invisibili dispositivi che immettono ciascuno su un diverso corridoio, l’arroganza del cinico e dell’opportunista s’è rapidamente trasformata nel brontolio risentito del depresso.
Ed è questo il tratto che la serie coreana riesce a fotografare – sia pure in modo, come vedremo, “rovesciato” – mettendo a nudo la situazione emotiva in cui versano moltissimi lavoratori, la gran parte dei precari e, in pratica, tutti i disoccupati. Dunque, i paradossi di Squid Game si riflettono in quelli di cui è costellata l’esperienza del precariato globale. Mette conto ricordare come, nella classica interpretazione della depressione fornita dallo psicologo americano Martin Seligman, il fondamento del male oscuro venga individuato nel convincimento della futilità delle proprie azioni. Se L’ambivalenza del disincanto di Virno ammetteva due principali uscite alternative, rassegnazione o rivolta, la great resignation dei nostri giorni sembra invocare una ricongiunzione degli opposti: rinuncia e depressione come alleati invisibili di una rivolta passiva, di un radicale sciopero delle anime, di una resa invincibile.
In ogni caso, potrebbe tornare assai utile iniziare a valutare l’ipotesi che, nascosto dall’altra parte del survival game, del gioco di sopravvivenza in cui milioni di persone si sono identificate, qualcuno stia scimmiottando la divinità, incollato alla consolle di un suo esclusivo god game. I VIP del capitalismo finanziario che, in Squid Game, osservano divertiti la fossa dei leoni dall’alto del loro belvedere elettronico, convinti che lì sotto regnino le sacre regole del talento e della fortuna, sono solo un’ingenua e goffa caricatura di quello che succede veramente nelle torri di controllo del capitalismo finanziario. Per farsene idea è bene tornare alla teoria dei giochi e, soprattutto, a una delle sue più importanti derivazioni: la teoria della razionalità limitata.
Dalla parte di Pris
Un modello semplificato di metodo decisionale è fornito dal comportamento di un topo bianco, quando, nel laboratorio di psicologia, si trova di fronte a un labirinto in cui solo un percorso porta al cibo.
(Dalla prima versione della tesi di dottorato in Scienze Politiche presentata all’università di Chicago nel Maggio 1942 dal premio Nobel per l’economia e padre della AI Herbert Simon).
Nel doppiofondo della narrazione di Squid Game è depositata, probabilmente senza che gli sceneggiatori ne siano davvero consapevoli, la celebre teoria della razionalità limitata di Herbert Simon, eredità principale del comportamentismo statunitense e, da oltre sessant’anni, principale mantra dell’economia neoliberale.
Vale ricordare che Simon si laureò in Scienze Politiche a Chicago e, originariamente, era interessato soprattutto allo studio scientifico dei processi di decisione in ambito amministrativo, al management. Era convinzione dell’establishment accademico statunitense – fortemente influenzato, già nei primi anni del Novecento, dal naturalismo di impronta darwinista – che studiare scientificamente i processi di decisione significasse analizzarli empiricamente, in una dimensione evoluzionistica e, per così dire, “comparata”. Di qui l’esigenza, per Simon, di avvicinarsi progressivamente alla ricerca sul comportamento animale di quel periodo, dominata dalla psicologia comportamentista e dai suoi labirinti per topi. xiv
Premio Nobel per l’economia nel 1978, con la sua teoria della “razionalità limitata” Simon scompaginava i fondamenti normativi dell’economia della scelta di tipo tradizionale, basata su categorie come deduzione, induzione, ragionamento, decisione, dimostrando come quella che è stata definita l’epistemologia naturale della nostra specie – la nostra capacità di conoscenza – sia pesantemente vincolata dai limiti del suo hardware. Il nostro cervello, ci dice la scienza, sarà pure una mirabile opera anatomica, ma non è perfetto. Tenendo conto del fatto che Simon è stato anche indiscusso fondatore dell’intelligenza artificiale, si può ben comprendere come, per lui, il termine di paragone nella teoria delle decisioni sia diventato, nel giro di pochi anni, il calcolatore digitale. L’interesse di Simon nei confronti della soluzione automatica dei problemi attraverso il calcolatore – che lo portò a vincere, insieme al suo amico e collega Alan Newell, il premio Turing nel 1974 con il General Problem Solver – era un’altra declinazione della sua passione per le tecniche gestionali e di amministrazione. La teoria economica della razionalità limitata prende forma nella prima fase dell’informatica, quando Simon e le altre teste d’uovo dispongono finalmente di macchine capaci di produrre forme automatiche d’intelligenza che, nella soluzione di problemi logici, risultano più potenti, più veloci e soprattutto meno fallibili di noi umani. Del resto, gli esperimenti empirici che via via rilevavano le limitazioni degli umani, la prossimità della loro intelligenza a quella degli animali, erano realizzati con la collaborazione del calcolatore: da un lato, il computer era diventato un prezioso strumento di laboratorio per misurare capacità cognitive, dall’altro, iniziava a essere visto come un modello di riferimento, una sorta di idealtipo dell’intelligenza umana. Limiti cognitivi di homo sapiens, come quelli di memoria o di attenzione, emergevano con crescente evidenza dal confronto con una macchina da calcolo evoluta come quella progettata da Von Neumann.
Da questo punto di vista, ci troviamo in una posizione simile a quella di Pris, lo splendido androide donna del film Blade Runner, quando dice al suo compagno Roy Batty: “Moriremo… noi siamo stupidi”. Esattamente come gli androidi Nexus nel film di Ridley Scott, noi umani disponiamo di risorse logiche limitate dalla nostra fallibile struttura hardware. Siamo dotati, insomma, di una razionalità limitata.
In genere, i testi introduttivi alla teoria delle decisioni distinguono teorie normative e teorie descrittive. La razionalità limitata farebbe parte delle teorie descrittive di natura empirica. Quelle che non spiegano come le cose dovrebbero andare, ma come effettivamente vanno. Quelle che tengono conto delle nostre origini biologiche animali, del nostro essere organismi dotati di un apparato cognitivo ben sviluppato per sopravvivere nei ghiacci o nei deserti, ma non sufficiente per battere un calcolatore odierno al gioco degli scacchi. Teorie che si fondano su oltre cento anni di ricerche sull’intelligenza biologica di ratti affamati costretti a indovinare i percorsi necessari per ottenere del cibo in labirinti di legno. Eppure, è facile lasciarsi incantare dalla retorica dell’economia comportamentale secondo la quale l’homo oeconomicus, il protagonista razionale e calcolatore dell’economia classica e neoclassica, è stato definitivamente detronizzato da queste nuove teorie descrittive che, rivelando i limiti dell’umano nelle operazioni razionali di decisione, sembrerebbero liberare il consumatore dell’onere di una scelta altamente razionale. I teorici della razionalità sostengono che a loro basta oramai anche una scelta sufficientemente buona. L’economia comportamentale, per questa via, ha imparato a presentarsi come democratica e teneramente consapevole della nostra finitudine e della nostra intelligenza ristretta (bounded), delicatamente sensibile ai nostri desideri, protettiva, perfino materna. Un po’ come l’economia della “Milano da bere” degli anni Ottanta italiani, habitat naturale dell’ opportunista tratteggiato nel saggio di Paolo Virno e sulla quale il circo Mediaset ha costruito la sua fortuna politica.
Di fatto, la razionalità calcolante non è stata eliminata, è stata semplicemente delegata al computer e a quanti sono in grado di farne degli usi politicamente ed economicamente strategici. La razionalità dell’homo oeconomicus, non solo continua ad esistere, ma è portata dal calcolatore all’ennesima potenza. È diventata una razionalità illimitata. Con il problema, non di scarso momento, che fin dall’inizio è stata schierata da una parte sola e ha agito esclusivamente nell’interesse di chi poteva comprenderla e renderla operativa. La versione limitata della razionalità l’hanno lasciata volentieri a me, a te, a Pris, ai giocatori di Squid Game, ai ratti da esperimento. Questa è la vera spiegazione della convenzionalità delle regole nel capitalismo finanziario. I giochi cambiano di continuo, le regole sono arbitrarie e convenzionali, ma pur sempre storicamente determinate e decise a tavolino all’interno di una strategia economica.
Quel ripetuto passaggio dei giocatori di Squid Game lungo il labirinto delle scale impossibili ricorda da vicino il sacrificio del ratto nel labirinto comportamentista informatizzato, rinvia al suo destino di consumatore segnato irrimediabilmente dai raffinati calcoli dell’intelligenza arbitraria e violenta che l’ha infilato lì dentro per osservarlo con sguardo olimpico mentre tenta disperatamente di sopravvivere. Il montepremi di Squid Game, che aumenta alla morte di ogni giocatore eliminato, penzola dall’alto della camerata come fosse un sole. Può essere interpretato come l’equivalente umano della razione di cibo che si trova in fondo ai labirinti comportamentisti. Per ogni perdente che muore, il montepremi di Squid Game s’illumina, suona, si muove. La sfera luminosa e trasparente contiene l’equivalente in Won di ben trentatré milioni di euro. Il culto del sole, manifestazione primordiale del sentimento religioso, lascia il posto alla venerazione incondizionata delle banconote sospese in aria, della sacra bolla trasparente. Le mazzette di grosso taglio, che si intravedono ad ogni brillamento del montepremi, scaldano il cuore dei giocatori, li ri-motivano, li trascinano ad andare avanti nelle prove. E che sia fatta la volontà del game!
Dentro la serialità paradossale
Psycho killer, qu’est-ce que c’est ?
Talking Heads
Tornando alla domanda da cui eravamo partiti, circa le ragioni di questa potente identificazione del pubblico con la trama di Squid Game, possiamo iniziare ad abbozzare una risposta. Se la serie Netflix fotografa le dinamiche del mondo reale, le fotografa, per così dire, al contrario e ne fornisce un’immagine rovesciata: nella realtà della selezione sociale operata dal capitalismo finanziario e burocratico dei nostri giorni, le regole del gioco non sono arbitrarie e ingiuste come in Squid Game, ma ispirate a valori di giustizia e costruite seguendo attenti criteri formali di carattere democratico. Tuttavia, tali valori e tali criteri vengono regolarmente disattesi “in itinere”. In un concorso pubblico, la possibilità di superare o meno una prova spesso dipende in modo cruciale dal controllo sleale esercitato sugli snodi principali del dispositivo selettivo. Snodi che spesso sono presidiati, direttamente o indirettamente, dalle stesse figure che hanno contribuito alla costruzione delle prove e alla loro messa in sequenza. Una prova di concorso pubblico che presenti una regola evidentemente ingiusta come quella del ponte di vetro in Squid Game, che favorisce platealmente gli ultimi della fila, non è concepibile negli odierni dispositivi concorsuali. Molto frequenti sono, invece, violazioni come quella perpetrata dagli uomini dello Staff e che il Front-man ha deciso di punire con la morte: la fuga di notizie ad opera del personale interno, che permette a un candidato di conoscere, a differenza di tutti gli altri, l’argomento su cui verterà la prova di esame. Dunque, se nella dittatura di Squid Game ad essere convenzionali e arbitrarie sono le regole dei giochi, mentre il comportamento di chi deve applicarle si pretende inflessibile, nel mondo del lavoro della burocrazia neoliberista avviene il contrario: le regole appaiono bilanciate, ispirate a saggezza e pensate per evitare ogni ingiustizia, ma i veri intendimenti dei loro ideatori ne pregiudicano sistematicamente il funzionamento. La mutabilità e la convenzionalità delle regole di cui scrive Paolo Virno non sono esibite platealmente, come avviene nella serie televisiva coreana, al contrario, sono celate abilmente nei processi, al punto che è in grado di riconoscerle solo chi le produce e, nella migliore delle ipotesi, chi le subisce. Pensiamo, ad esempio, al fenomeno delle cosiddette “porte girevoli” (revolving doors), così diffuso nei palazzi della politica europea di Bruxelles: con frequenza crescente di anno in anno le stesse persone, che lavorano nelle istituzioni europee (Parlamento, Consiglio, Commissione), finiscono con l’assumere ruoli chiave nei consigli d’amministrazione delle grandi holding farmacologiche, petrolifere, informatiche e così via. In questo senso, con l’espressione “porte girevoli” si allude al passaggio, all’attraversamento, di due sistemi amministrativi diversi destinati alla tutela d’interessi che, ingenuamente, ci si intestardisce ancora a considerare opposti. Va da sé che la concezione dominante secondo cui la definizione delle regole spetterebbe alle istituzioni pubbliche, mentre le imprese sarebbero obbligate a rispettarle, è oramai una romantica illusione, perché gli stati hanno da tempo esternalizzato gran parte della loro sovranità, del loro monopolio della scelta politica. Ma questo non toglie nulla alla paradossalità delle porte girevoli. Fin quando l’ordinamento europeo continuerà ad essere ispirato a principi normativi che non tengono in alcun conto l’ esternalizzazione della sovranità statale operata dal neoliberismo, le porte girevoli continueranno a frullare vorticosamente, fino alla perfetta coincidenza di classe politica e grande impresa capitalistica o, in altri termini, fino alla completa dittatura dell’economia.
È chiaro che le “porte girevoli” trovano nell’attività legislativa il loro habitat naturale e la loro ragion d’essere. Si devono comprendere profondamente e dall’interno gli interessi e i poteri in campo per andarsi a piazzare opportunisticamente nella posizione più favorevole. La prossimità ai centri in cui si producono le leggi e i regolamenti che controllano i mercati, diviene il biglietto da visita per avere accesso ai dividendi della produzione. Vale ripetersi: la legge, nel capitalismo contemporaneo non è, come in Squid Game, costituita da enunciati chiari e ruvidi da rispettare scrupolosamente, giusti o ingiusti che siano. Piuttosto, è il luogo in cui si organizzano ex ante i complessi dispositivi normativi che rendono possibile, dietro una cortina fumogena di retorica, l’accesso esclusivo ex post alle sale di comando da parte di un numero ristretto di vincitori, in genere predefiniti. In questo senso, la struttura di un concorso si presta forse meglio di altre ad essere immaginata, sia pure con qualche sforzo di interpretazione, come un labirinto disseminato di invisibili trappole. Scenario che, del resto, non è esclusivo dei concorsi pubblici o dei contratti. Basti pensare alle rivelazioni del consulente dell’intelligence americana Edward Snowden riguardo le norme sulla tutela della privacy dei cittadini negli USA, sistematicamente violate da quelle stesse istituzioni che le hanno promosse. Vale riportare quanto ha scritto lo stesso Snowden:
Ricorderò fino al giorno della mia morte il tentativo di spiegare ai miei colleghi come i frutti del nostro lavoro venissero applicati per violare i giuramenti che avevamo promesso di mantenere, e la loro risposta, simile a una scrollata di spalle: “E che cosa puoi farci?”.xv
La “bambola/fucile” di Squid Game è solo una caricatura dei meccanismi reali, dove il potere del Grande Fratello non viene celato dietro un sorriso rassicurante, ma occultato nelle pieghe di dispositivi burocratici fitti di garanzie formali. Quando Edward Snowden ha scoperto i documenti ufficiali che rendevano operativa la sorveglianza di massa, ne ha trovate due versioni. Nelle sue parole:
Mentre quella pubblica dichiarava che all’NSA era stato semplicemente ordinato di intensificare la sua attività di raccolta delle informazioni in seguito agli eventi dell’ 11 settembre, quella secretata esponeva in dettaglio in cosa consisteva tale intensificazione. Si era passati dalla tradizionale intercettazione mirata a obiettivi specifici, ad una vera e propria sorveglianza di massa. E mentre la versione pubblica occultava questo cambio di rotta, e sosteneva la necessità di una sorveglianza più estesa, facendo leva sullo spettro del terrorismo e sulle paure dei cittadini, la versione segreta dichiarava in modo esplicito il cambiamento giustificandolo come legittima conseguenza del progresso della tecnologia.
Si noti come l’instabilità delle regole, la loro dimensione aleatoria, prenda in questo caso la forma della duplicità: per lo stesso argomento, quello della sorveglianza digitale, vengono fornite due versioni, l’una ufficiale e rassicurante, l’altra secretata e rivelatrice.
E che dire, venendo a fatti di casa nostra, delle immagini del pestaggio dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ? La Costituzione non afferma forse che le pene mirano alla rieducazione del condannato ? C’è da chiedersi se si tratti di “errori di sistema”, come forse li definirebbe Snowden, o, piuttosto, di contraddizioni specifiche delle forme contemporanee del dominio. La comunicazione paradossale di Bateson, il doppio legame, sembra installato in modo permanente nello strato profondo delle società neoliberiste.
Anche prendendo spunto da situazioni del tutto ordinarie, come la stipulazione di un contratto telefonico o la scelta di un fondo di investimento, ci si ritrova con un quadro del tutto analogo: la facciata laccata delle pagine “promozionali”, che assicurano utili e sicurezza dietro il sorriso affabile del promotore finanziario, nascondono le insidie grandi e piccole nascoste nei dettagli del contratto. Prendiamo il caso dell’ormai famoso antidolorifico a base di oppioidi OxyContin della Purdue Pharma. Come ampiamente documentato nel libro della giornalista Beth Macyxvi, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva Dopesick, la prescrizione medica e la vendita nelle farmacie del pericoloso prodotto farmaceutico sono state concesse sulla base della garanzia – completamente priva di fondamento – secondo la quale nei test OxyContin aveva provocato fenomeni di dipendenza in meno dell’un per cento dei casi. La dicitura che il farmaco non avrebbe prodotto dipendenza era stampigliata sulla confezione. Ne è seguita l’esplosione di una tossicomania di massa, durata vent’anni e che, a quanto affermano giornali e associazioni delle vittime, ha prodotto qualcosa come quattrocentomila morti per overdose. Mc Kinsey, la più importante società di consulenza americana, ha già pagato 500 milioni di dollari di indennizzo per aver collaborato attivamente al business plan di questo prodotto farmaceutico e alla sua promozione. La genialità criminale dell’operazione consiste nella menzogna, inflitta ai medici come ai pazienti, secondo la quale questo potente analgesico non avrebbe prodotto dipendenza. Una menzogna, si noti, che ha avuto l’assenso della pletora di enti certificatori pubblici che, negli Stati Uniti, sono addetti al controllo della produzione di farmaci. In ossequio al principio delle porte girevoli il responsabile della FDA che ha autorizzato la vendita del farmaco, tale Curtis Wright, dopo un anno è passato al consiglio d’amministrazione della Purdue con un contratto da 400.000 dollari l’anno.
Così, mentre in molti stati si continua ad andare in prigione per la detenzione di qualche spinello di marijuana, Big Pharma ha avuto la libertà di dedicarsi al genocidio senza pagare alcuna conseguenza se non in via amministrativa. Anche in un caso come questo non è difficile individuare dove si nasconda la “bambola/fucile” di Squid Game. A quel che pare la famiglia di imprenditori farmaceutici che ha realizzato OxyContin voleva liberare l’umanità dal dolore. Nientedimeno. Paradossalmente tale nobile intendimento è costato sofferenze indicibili a mezzo milione di vittime e alle loro famiglie. Per converso, ha generato introiti per decine di miliardi di dollari a favore dei produttori. Non aveva torto William Gibson: che il Grande Fratello si presenti con un sorriso davvero non solleva. Sprofonda.
Un discorso analogo si può fare riguardo al gioco d’azzardo in Italia. Da venticinque anni il settore del gioco d’azzardo in questo paese non ha fatto che crescere. I giornali, periodicamente, ci aggiornano sulle dimensioni del fenomeno. Siamo passati dai 15,8 miliardi di spesa lorda per il gioco d’azzardo del 2000 ai 103 miliardi del 2019. In vent’anni si è registrata una crescita del fatturato che si aggira intorno al 750 per cento.
Ancora nel 2014, quando la spesa complessiva lorda per gioco ammontava a (solo) 84,7 miliardi, si stimava che ciascun italiano spendeva, mediamente, un euro in gioco d’azzardo (legale) ogni otto spesi per gli altri consumi.
Nessun argomento sensato può essere proposto nel merito della crescita del gioco d’azzardo in Italia, senza avere ben chiaro il ruolo che vi ha svolto lo stato. Il processo si snoda per un ventennio con una serie di leggi che, una dopo l’altra, hanno autorizzato nuove forme di gioco. Dal 1994 al 2014 sono stati 47 i nuovi giochi “con o per denaro” introdotti con legge. Si va dalle lotterie alle sale Bingo ai gratta a vinci, alle slot VTL fino ai giochi online. È indubitabile che lo stato abbia favorito una progressiva liberalizzazione dell’azzardo. Ma assecondando quale logica?
La posizione dello stato italiano riguardo l’azzardo è stata, per oltre un secolo, relativamente coerente: il gioco con e per denaro era considerato una consuetudine umana le cui origini si perdono nell’antichità ed era connotato da una funzione essenzialmente ricreativa. Come tale andava gestito e contenuto con attenzione dalle autorità pubbliche, onde evitare il diffondersi del mercato clandestino e delle sue degenerazioni. Per fare un solo esempio, coerentemente con tale idea di sicurezza pubblica, nelle città italiane in cui erano stata stabilita la presenza di casinò, era fatto divieto ai cittadini residenti di frequentarli. Tale normativa, oggi decaduta, si basava sul convincimento che, altrimenti, il gioco nei casinò avrebbe avuto effetti negativi sul tessuto urbano delle città ospitanti. L’esperienza suggeriva ai legislatori che anche l’azzardo legale crea una sorta di “indotto” fatto di usura, prostituzione, microcriminalità. Le recenti iniziative di alcuni sindaci e governatori italiani, che hanno istituito una serie di zone di rispetto all’interno delle quali è vietato aprire attività di gioco, per esempio in prossimità di scuole, chiese, ospedali, suonano come una conferma dei problemi causati dalla distribuzione selvaggia di dispositivi del gioco d’azzardo nei centri urbani. Di fatto, intorno ai primi anni Novanta, in perfetta sincronia con l’affermazione generalizzata delle dottrine economiche neoliberiste, questa posizione prudente dello stato italiano rispetto all’azzardo è venuta rapidamente meno. In modo analogo a quanto avvenne qualche anno prima negli Stati Uniti, lo stato, preso tra l’incudine di una retorica che rivendica significative riduzioni delle tasse a carico dei cittadini e il martello dell’aumento incontrollato della spesa pubblica, sceglieva deliberatamente di promuovere un forte investimento sull’azzardo per ragioni di esclusiva tutela del proprio bilancio. La gestione di monopolio attraverso lo strumento delle “concessioni” permette allo stato un controllo assoluto dell’intera filiera legale con un incasso diretto delle tasse su ciascuna giocata.xvii
Non è il caso di dilungarsi sulle dolorose conseguenze dell’azzardo, sulle dilaganti ludopatie, sulle risse, le crisi familiari, i suicidi e così via. Risulta tuttavia evidente che, tanto nel caso OxyContin quanto nel caso della diffusione dell’azzardo, siamo di fronte a processi in cui la nostra razionalità limitata diviene una sorta di vulnerabilità di massa. Il prosumer, il produttore/consumatore celebrato dalle fanfare neoliberiste s’è trasformato nel target di una razionalità illimitata e automatica che vuole raggiungere, attraverso di lui, il massimo del profitto al minimo dei costi. Qui non abbiamo a che fare con problemi che si risolvono con pannicelli caldi come le associazioni dei consumatori. Nell’epoca in cui il tempo libero diviene una risorsa fondamentale, una materia prima per nuovi profitti, il capitalismo sta trasformando il pianeta in un parco giochi con pena di morte. Dietro la promessa di qualche forma di felicità plug and play da raggiungere con una pillola o con una vincita al Bingo si nascondono squallidi calcoli in cui il vivente è considerato come una risorsa da spremere e gettare in una discarica. Questa è la realtà che Squid Game ha saputo evocare e in cui il pubblico ha trovato una sorta di rispecchiamento.
Occorre, dunque, tirare qualche conclusione. Le domande intorno all’enorme successo della serie coreana rinviano, a mio giudizio, all’idea di catarsi artistica così come la discusse originariamente Aristotele. In che modo, ci siamo chiesti, una simile descrizione distopica della realtà in cui viviamo agisce sulla nostra capacità di rappresentarci il mondo ? Copio direttamente dal dizionario di filosofia della Treccani:
Ma il concetto di catarsi è di grande importanza soprattutto per la connessione in cui Aristotele lo pose con il problema dell’arte. Aristotele osserva come la partecipazione passionale che si realizza nello spettatore rispetto alle vicende del dramma non è semplicemente passiva e negativa (come l’aveva considerata, e perciò respinta, Platone), ma rappresenta anzi quasi uno sfogo, una liberazione da ciò che nell’anima corrisponde a tale pathos, e dunque porta a una forma di rasserenamento e calma interiore.
A me pare che l’industria culturale spesso si faccia carico del compito di dissolvere la percezione delle dimensioni tragiche del nostro vivere attraverso queste operazioni di catarsi, di purificazione dello spirito che, in conclusione, hanno un retrogusto dal sapore pericolosamente autoassolutorio, sia per chi si identifica con le vittime del film che per chi si identifica con i carnefici.
Note
i Jorge Luis Borges, Finzioni, Giulio Einaudi editore, 1971.
ii Neumann von, J. Morgenstern, O., The theory of games and economic behavior, University Press NJ, 1944.
iii Manfred Eigen, Ruthild Winkler, Il gioco, Adelphi, 1986.
iv Nick Land, Illuminismo oscuro, GOG, 2021.
v Cecilia Ermini, Io Donna, 4 Ottobre 2021.
vi Giulia D’Agnolo Vallan, Il Manifesto, 26 Ottobre 2021.
vii Ilaria Chiavacci, Io Donna, 4 Ottobre 2021.
viii William Gibson, Bruce Sterling, Parco giochi con pena di morte, Mondadori, 2001.
ix Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1976.
x James P. Carse, Giochi finiti e infiniti: la vita come gioco e possibilità, Mondadori, 1987.
xi Scriveva Gregory Bateson: «Ora questo fenomeno, il gioco, può presentarsi solo se gli organismi partecipanti sono capaci in qualche misura di metacomunicare, cioè di scambiarsi segnali che portino il messaggio: “Questo è un gioco”».
xii AA.VV., Sentimenti dell’aldiqua, Theoria, 1990.
xiii Erich Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, Edizioni di Comunità, 1976.
xiv Herbert Simon, Modelli per la mia vita, Rizzoli, 1992.
xv Edward Snowden, Errore di sistema, TEA, 2020.
xvi Beth Macy, Dopesick: Dealers, Doctors and the Drug Company that Addicted America, Head of Zeus, 2018.
xvii Maurizio Fiasco, laureato in filosofia e sociologo, è uno dei maggiori esperti di gioco d’azzardo in Italia. I suoi numerosi lavori di ricerca, facilmente raggiungibili in rete, sono la fonte principale di quanto ho esposto sopra.