di M. Minetti
“Se le meta-narrazioni otto-novecentesche erano il cristianesimo, l’illuminismo e il socialismo; quelle che emergono nel terzo millennio sono il neopositivismo scientista, il darwinismo economico neoliberale e il senso di colpa ambientale-terzomondista per aver aderito alle prime due.” (Luther Blissett 2023)
Mappe del dominio.
Siamo oramai disabituati a osservare i planisferi appesi alle pareti delle aule scolastiche, rappresentati in quella proiezione di Mercatore che riduce le dimensioni delle regioni equatoriali, facendo apparire enormi le regioni artiche. Il fatto che l’Europa e il Nord America si trovino nell’emisfero boreale ha privilegiato questa visione eurocentrica e oggi diremmo “occidentale” del pianeta.
Sempre più spesso, invece, interroghiamo le mappe sullo schermo di uno smartphone. A volte anche per compiere un breve spostamento a piedi ci affidiamo alla guida satellitare del GPS, per calcolare distanze, per valutare cosa ci offre un territorio che non conosciamo. E’ evidente lo spostamento dell’attenzione dal macro al micro, dalla rappresentazione delle terre emerse e degli oceani, con i diversi continenti suddivisi in estensioni nazionali definite, a una rappresentazione dello spazio antropizzato e prossimale che ci interessa soltanto in quanto ambiente vissuto da noi come singoli individui, principalmente consumatori.
Lo sguardo globale non è certo scomparso ma, come ogni ambito del sapere, è diventato appannaggio di una ristretta cerchia di esperti che operano sui contesti planetari, siano essi quelli degli scambi commerciali, della ricerca scientifica e tecnologica o delle relazioni politiche e militari. Questi tre campi sono strettamente interrelati e andremo ad osservarli nello specifico riconoscendo nella rappresentazione del mondo che ci viene riportata, e questa è la tesi di fondo del presente articolo, una tendenza comune che ci indica la possibile evoluzione che ci aspetta.
La globalizzazione dei mercati.
Dai primi anni ’90, appena dopo la caduta del blocco sovietico, la globalizzazione dei mercati è stato il mantra che ci ha accompagnato per circa trenta anni. Anche chi contestava le forme di quella estensione del capitalismo tramite l’adesione ai trattati di libero scambio del WTO (NAFTA-CEFTA, etc..) rinnegava spesso l’etichetta di No-global per una versione umanitaria di Alter-global, per una globalizzazione dei diritti umani, della cooperazione allo sviluppo e la tutela degli ecosistemi e delle identità delle popolazioni non industrializzate. Il conflitto sociale da scontro per la soddisfazione dei bisogni diventava il teatro mediatico delle “anime belle” terzomondiste, dalla rivolta di Seattle ai Social Forum. L’internazionalismo di matrice socialista era ormai tramontato e la critica al capitalismo di stampo moralista e anarchico si affiancava a istanze localiste identitarie e religiose, rivendicando l’autodeterminazione delle comunità locali senza più la velleità di rovesciare i rapporti di produzione esistenti. In Europa era già iniziata, con un processo molto poco democratico e partecipato, la costruzione finanziaria dell’UE e dell’Euro pronta a inglobare i paesi dell’Est Europa, ansiosi di sottrarsi alla gravità russa, ormai non più sovietica, dominata dalla cleptocrazia degli oligarchi e dalla corruzione.
La rapidissima espansione dei trasporti aerei a basso costo, del commercio marittimo su container e la contemporanea diffusione di internet hanno difatto imposto una uniformità produttiva, culturale e valoriale in tutto il mondo trainata indiscutibilmente dagli USA e seguita convintamente dal resto del mondo. In questi anni di rapida globalizzazione gli USA e l’Europa hanno conosciuto una rapida e traumatica de-industrializzazione a favore del settore dei servizi, mentre gran parte della produzione industriale è stata delocalizzata nel Sud-est asiatico, nei paesi dell’ex blocco sovietico e in Cina. Questi paesi orientali raccolsero entusiasti l’opportunità di sviluppo che la globalizzazione dei mercati gli offriva. Grazie alla rapida industrializzazione associata all’aumento della produttività, innescato dalla innovazione tecnologica, la maggior parte della popolazione mondiale è uscita dalla condizione di grave bisogno in cui versava fino a quaranta anni fa, potendo accedere alla sicurezza alimentare, alla istruzione di base, a cure mediche e a discreti livelli di consumo.
La trasformazione a cui abbiamo assistito più recentemente è l’emersione di colossi globali statunitensi della distribuzione e dei servizi (GAFAM) supportati dalla rete internet che, assieme ai principali fondi di investimento della finanza (Varoufakis 2012), riescono a drenare valore dalle transazioni sul mercati globali in una forma di colonialismo dematerializzato, deterritorializzato e depoliticizzato.
La ricerca scientifica e tecnologica.
Il trentennio che si è appena concluso è stato da più parti definito come avvento della “società dell’informazione” o post-industriale, sottolineando l’aspetto preponderante della appropriazione e vendita della conoscenza rispetto alla produzione di beni materiali. Nei paesi più ricchi, il settore della ricerca e sviluppo industriale investe miliardi di dollari all’anno trainato anche dalla spesa militare, che insegue costantemente un vantaggio temporale. La quantità di brevetti registrati segna il livello di competitività internazionale, portando una rendita dagli effettivi produttori, costretti a comprare le licenze. La Cina è un esempio emblematico perchè ha negoziato con le multinazionali occidentali la disponibilità a produrre nelle sue zone franche industriali, ad altissimo sfruttamento della forza lavoro e bassissima tassazione, in cambio della condivisione tecnologica dei processi produttivi (Formenti 2023, p. 12).
In subordine alla scienza applicata, che attrae la maggior parte degli investimenti in quanto immediatamente convertibile in potenza commerciale e militare, dobbiamo tenere conto degli aspetti politici della conoscenza, quel soft-power che si attua attraverso il controllo della ideologia delle masse e il consenso verso il potere (D’Eramo 2020). Questo è l’ambito delle scienze che convergono verso forme standardizzate di ricerca basata sulle evidenze, in articoli accademici ben digeribili dall’editoria scientifica internazionale che aggrega in pochi gruppi editoriali privati la maggior parte delle riviste scientifiche, rigorosamente in lingua inglese. Nel momento in cui la verità scientifica si misura con un criterio quantitativo di consenso nella comunità dei ricercatori, che pubblicano i risultati dei loro gruppi di ricerca, la concentrazione editoriale pone non pochi dubbi sulla effettiva validità di questo criterio. La presunta “oggettività” e indipendenza della scienza riportano ad una età in cui lo scienziato operava da solo, con pochi mezzi, spesso propri o forniti da qualche mecenate, con grandi intuizioni e tanto sacrificio. Da parecchi decenni invece il mondo della ricerca è più simile ad un settore industriale dove gli investimenti in strumentazioni in alcuni casi raggiungono costi di decine di miliardi di Euro, pensiamo al CERN di Ginevra o alla Stazione spaziale orbitante ISS. I principali istituti di ricerca, finanziati con fondi pubblici e privati, si trovano in Europa e negli USA e si contendono le migliaia fra i migliori ricercatori con la prospettiva del prestigio dei progetti e di contratti economicamente ambiti. La conseguenza è che dove più si investe, più si ottengono risultati, attraendo la maggior parte dei ricercatori, e quindi del consenso della comunità scientifica, verso certe tematiche che attraggono i finanziatori, il cosiddetto mainstream. Nei circuiti formativi le conoscenze più affermate vengono trasmesse, attraverso i programmi delle scuole e nella formazione superiore delle università, che tendono ad uniformarsi in tutto il mondo. A cascata vengono prodotte dalla industria editoriale e culturale in genere forme vendibili di infotainment come saggi divulgativi, documentari, film e serie TV, romanzi, TED talk, podcast, grafic novel, articoli, che diffondono ovunque nel mondo la conoscenza. Il dato certamente rivoluzionario è stato negli ultimi trenta anni l’incredibile espansione dell’accesso alle conoscenze da parte di tutta la popolazione mondiale mediante la rete internet. Questa diffusione capillare ha coinciso con una minore variabilità delle culture nazionali favorendo una cultura universale cosmopolita, propagata anche dai mediattivisti (Pasquinelli 2002), ovviamente affine alle società egemoni.
Relazioni politiche e militari.
Al linguista Max Weinreich viene attribuita la frase divenuta celebre: “una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”. Quindi probabilmente dobbiamo all’impero coloniale inglese e alla sua formidabile marina militare la diffusione di questa lingua nel mondo. Se oggi l’inglese è la lingua dell’informatica, dell’economia e della scienza in generale, nonché lingua veicolare tra moltissime persone non madrelingua (circa 1,5 mld) è probabilmente a causa delle vittorie degli USA e del Regno Unito nella prima e seconda guerra mondiale, che hanno portato ad un ruolo tuttora egemone i due principali paesi anglofoni. Ne sono la prova le centinaia di basi militari statunitensi (642) dislocate in quasi tutto il mondo (170 paesi) mappate nello studio di David Vine (Vine 2015). Fondamentalmente sono considerati nemici, anche dal nostro paese e quindi dalla nostra pubblica opinione, tutti quegli Stati che non ospitano basi statunitensi.
Avere sul proprio territorio nazionale un contingente armato (con le armi più moderne e talvolta nucleari) potrebbe risultare un limite alla autonomia del governo scelto da quel paese ospitante, se mai le sue posizioni dovessero discostarsi dagli interessi di chi esprime quella forza militare. Fortunatamente ciò è accaduto molto raramente. In occidente la crisi dei valori europei del ‘900, siano essi quelli di destra del tradizionalismo e del liberalismo classico o quelli di sinistra del cattolicesimo sociale o del socialismo marxista, ha lasciato il passo ad una netta affermazione della competizione individuale neoliberale. Un libertarianesimo che si declina a sinistra nella Ideologia californiana e a destra nello sciovinismo militarista dei Neocon. Sul piano internazionale chi difende la democrazia, i diritti umani e l’ambiente sono gli amici, le dittature, i persecutori delle minoranze e gli inquinatori sono i nemici, nel classico schema schmittiano della identificazione politica. Specularmente in questi ultimi 30 anni abbiamo assistito ad un aumento vertiginoso dell’identitarismo, del razzismo, del fondamentalismo religioso (cristiano cattolico e ortodosso, islamico sciita e sunnita, ebraico, Indù e persino buddhista) come reazione rabbiosa alla omologazione globalista delle società tradizionali, che ha supportato la base dei partiti di destra nazionalisti in ogni parte del mondo.
Già dagli anni ’90 negli USA comincia a diffondersi la pratica della Guerra Preventiva, basata su interventi militari mirati ad eliminare presunte o possibili minacce di paesi più deboli (Stati canaglia) o gruppi considerati terroristi. In questo contesto l’uso della forza è difficilmente distinguibile da una pura politica di potenza imperiale e strategia paranoica (De Landa 1996), in spregio di qualsiasi diritto internazionale. La questione è antica, sembra che gli abitanti della neutrale Melo, assediati e sterminati dagli ateniesi, a quelli dissero: “i forti fanno quello che più gli aggrada e i deboli sono destinati a soffrire” (Tucidide, La Guerra del Peloponneso, libro 5-89), a riprova della tesi che il diritto internazionale non sia altro che legittimazione della forza.
Piuttosto recentemente le classi dirigenti occidentali si sono rese conto che, grazie a quel rapido sviluppo industriale che ha coinvolto zone densamente popolate da più di tre miliardi di persone, i cosiddetti paesi emergenti sono diventati dei competitor. I BRICS ad esempio, poco inclini a continuare produrre la ricchezza da distribuire nel più agiato “Occidente”, tendono a sviluppare i propri mercati interni. Gli stessi BRICS attraggono i territori molto meno popolati ma estremamente ricchi di materie prime come metalli, petrolio e gas naturale, uranio e terre rare, che si avvantaggiano di nuovi acquirenti.
La crescita economica del primo mondo ha resistito fino ad ora, con degli interventi politici (rivoluzioni colorate) o militari che hanno ampliato l’area di influenza occidentale (UE-NATO) nell’Europa dell’est, in zone del Nord Africa e del Medio Oriente. Mi riferisco alle guerre mai dichiarate contro la Serbia nel 1995 e nel 1999, a quelle del 1991 e poi del 2003 contro l’Iraq, a quella del 2001 contro l’Afghanistan, nel 2011 contro la Libia, nell’appoggio ai ribelli contro la Siria sempre nel 2011, nel sostegno all’Ucraina contro la Russia fino alla guerra del 2022. La novità è costituita dalla resistenza a questa espansione che ha visto recentemente l’intervento diretto o indiretto di Russia, Iran e Cina a formare un fronte di sbarramento alla influenza occidentale verso est e la riattivazione inaspettata della guerra per l’iniziativa palestinese a Gaza, con il chiaro intento di riunire il mondo arabo in un unico fronte contro Israele, gli USA e l’Europa.
Se su una mappa disegniamo una linea che unisce i paesi che hanno aderito recentemente alla NATO e che ospitano basi militari statunitensi, con quelli dove sono state combattute guerre e che ancora ospitano contingenti, con i paesi da sempre alleati in cui sono presenti basi USA, possiamo riconoscere una linea che dal mar Baltico scende attraverso l’Europa e tramite la Turchia e il nord della Siria, arriva all’Iraq, al Quwait e ai paesi del Golfo Persico, separando fisicamente l’Europa e il continente africano dall’Asia.
Fonte Vine 2015 sito basenation.
Il ritiro dei contingenti NATO dall’Afghanistan e la perdita di controllo sulla Siria e sulla Libia con continue tensioni al confine con l’Iran e nei territori occupati da Israele ci mostrano una situazione per nulla stabile che probabilmente porterà delle evoluzioni se non ad una aperta guerra regionale. Anche lo stallo delle operazioni militari in Ucraina nasconde la possibilità di nuovi equilibri, in cui la riconquista dell’integrità territoriale Ucraina diventa sempre più remota. In gioco c’è la nuova cortina di ferro che spacca l’Europa e l’Africa dall’Asia.
Questa linea, costruita nei passati trenta anni di indiscusso dominio militare statunitense viene messa in tensione e aggirata da attori come la Turchia, l’Iran e la Russia per l’accesso alle enormi risorse naturali del continente africano. Finora c’è stata soltanto una difesa attiva delle posizioni controllate ma tutto lascia presagire una serie di scontri aperti o di cambi di alleanze che potrebbero spostare questa linea verso occidente o nella regione subsahriana.
La mobilitazione totale.
Siamo in una fase preparatoria ad una o molte guerre. L’unità del governo deve essere garantita ad ogni costo, quindi nelle democrazie occidentali questa visione definita degli amici e dei nemici è condivisa fra governi e opposizioni. Chi si oppone alla guerra o simpatizza per i nemici è anti-sistema e viene espulso dalla rappresentanza democratica. Le masse vengono martellate da messaggi univoci che non mettono in discussione i valori attorno a cui convergere: fondamentalmente l’esportazione con ogni mezzo del modello di relazioni sociali in cui viviamo. Il libero mercato, che poi scopriamo non essere neppure così libero, visto il gigantismo dei monopoli di fatto e il supporto statale al complesso militare-insdustriale, rappresenta quella libertà di scelta in cui i servizi, che nello stato sociale erano diritti acquisiti, diventano merci da comprare a caro prezzo: abitazioni, cure sanitarie, istruzione, energia, trasporti. Ai cittadini viene richiesta una adesione completa all’ideologia neoliberista che si presenta come una legge di natura: la competizione per le risorse, il darwinismo sociale, la razionalità strumentale. Solo i migliori, gli adattati e i meritevoli avranno vite degne, gli altri possono arruolarsi per difendere i confini della patria e morire da eroi. Questo è toccato ai popoli disgraziati dell’Ucraina e della Russia, della Siria, della Libia, della Palestina, dell’Iraq e dell’Afghanistan e toccherà ai poveri di tutte le nazioni coinvolte. Visto che il conflitto è globale anche la mobilitazione lo è, su base etnica, religiosa, culturale ed economica. A tutti i non possidenti viene chiesto di identificare il nemico e contribuire a combatterlo, con le armi o con il duro lavoro e lo sfruttamento necessari a sostenere lo sforzo bellico, pagandone i costi con l’arretramento nelle condizioni materiali di benessere. Da entrambe le sponde di questa nuova cortina di ferro i possidenti compreranno la loro immunità stabilendosi in territori neutrali, sicuri e protetti, ricchi di comfort e divertimenti aspettando la fine delle ostilità. Nulla di così diverso dalle passate guerre mondiali durante le quali i ricchi soggiornarono in Svizzera o negli Stati Uniti, mentre i poveri andavano a morire al fronte o rimanevano sotto i bombardamenti a tappeto delle città europee o giapponesi.
Possibili scenari.
Gli attuali conflitti avvengono in regioni ricche di idrocarburi o strategiche per il loro trasporto. Non è difficile intuire che si prevede una crisi nell’offerta energetica e che le principali potenze militari intendono accaparrarsi delle fonti sicure. I costi dell’energia stanno già aumentando e potrebbero moltiplicarsi visto che le attuali riserve stimate dovrebbero garantire altri settanta anni agli attuali consumi, che sono in aumento. Ci si affiderà maggiormente alle fonti rinnovabili e all’energia nucleare, già definita green, ma ci vorranno anni per costruire nuove centrali. Le automobili elettriche saranno le uniche accessibili e i trasporti privati e pubblici si trasformeranno completamente. I prezzi aumenteranno e l’inflazione eroderà i patrimoni accumulati. Parallelamente il mercato immobiliare subirà sconvolgimenti repentini in cui alcune tipologie di immobili saranno fortemente deprezzate mentre altre aumenteranno il loro valore.
I flussi migratori verranno ostacolati verso l’Europa o gli USA arrestandosi nei paesi satelliti dove si concentra la maggiore produzione agricola e industriale. Il mar Mediterraneo è già considerata una frontiera da difendere con un ruolo strategico importante per l’Italia, come dimostra l’agenzia europea Frontex.
E’ presumibile che la deregolamentazione del mercato andrà a infrangersi contro una recessione incontrollabile e una indisponibilità dei mercati, imponendo una maggiore pianificazione centralizzata produttiva e distributiva sul piano europeo. L’intervento statale nell’economia sarà vitale e richiesto a gran voce dagli industriali in grave crisi, portando alla rinascita di un socialismo nazionalista, quindi di estrema destra, votato allo scontro militare. Il PNRR europeo ne è solo un assaggio. La democrazia residuale è già sospesa, limitandosi alla sopravvivenza formale, così come l’esercizio del libero pensiero. Il pensiero non può essere libero, ovvero pubblicamente espresso, mentre le armi decidono quale verità resterà scritta sui libri di storia e quali valori sociali invece tramonteranno, come aberrazioni nel cammino verso il progresso.
Possiamo sperare che solo poche testate termonucleari vengano impiegate come atti dimostrativi e non si cerchi la completa distruzione del nemico e dell’umanità, ormai certamente possibile visto lo sviluppo delle armi nucleari e biologiche disponibili. Al termine di queste prossime guerre, in cui sarà difficile distinguere i vinti dai vincitori, l’Unione Europea potrebbe emergere come entità politica unitaria per trattare l’uscita dal conflitto con ciò che ne resta. Come tutte le guerre, anche quella che inevitabilmente ci aspetta sarà decisa dalle èlite, fortemente sostenuta dall’opinione pubblica della classe media e avrà come vittime principalmente i poveri di tutte le nazioni belligeranti o meno. Come è stato nel passato, le guerre vinte rafforzano le èlite, quelle perdute impongono rivoluzioni. In tutti i casi le strutture produttive vengono stravolte dall’economia di guerra ed emergono nuove classi dirigenti mentre le vecchie tramontano.
Cosa possiamo fare.
Francamente penso che non possiamo fare nulla per impedire che una guerra mondiale definisca dei nuovi equilibri fra le potenze imperialiste. Anche se il movimento pacifista dovesse riunire milioni di persone, cosa che non sembra affatto probabile, il dissenso interno verrebbe soffocato da campagne denigratorie, già in atto con la retorica dei pacifisti putiniani, del diritto all’autodifesa, del nemico interno al soldo di servizi segreti stranieri o delle vittime, funzionalmente analfabete, della “disinformazione” nemica.
Ciò che possiamo fare è non combattere questa guerra e cercare di uscirne vivi, salvando quanto più possibile le nuove generazioni dalla propaganda bellicista e dall’arruolamento. Possiamo fuggire in paesi remoti, nasconderci fra le folle, isolarci nelle zone rurali preparando rifugi per quanti riusciranno a sottrarsi alla mobilitazione. Queste e altre forme di diserzione, come il rifiuto del lavoro salariato, della genitorialità e addirittura il suicidio vengono osservate come tendenze emergenti dal filosofo Franco “Bifo” Berardi nel suo ultimo libro (Disertate, Berardi 2023) a fronte della impotenza, della rabbia e della disperazione dilaganti. Evitare di schierarsi nella competizione fra opposti imperialismi permette di coltivare l’amicizia fra i popoli, la solidarietà internazionale fra gli oppressi, la diserzione dalle armi, cercando sopravvivenza nelle catacombe della metropoli, come i primi cristiani perseguitati. Io stesso ho iniziato a studiare l’Esperanto, la lingua inventata dall’ebreo polacco Zhamenhof nel 1887 per far comunicare pacificamente persone di culture e lingue differenti senza doversi adattare ad usare la lingua del colonizzatore più forte, fosse questo russo, tedesco, francese o inglese. Oggi che l’unico argine al colonialismo imperiale sembra essere il sovranismo nazionalista e identitario o il fondamentalismo religioso, coltivare la speranza in una comunità umana universale, la “futura umanità” internazionale, è quantomeno urgente, a mio avviso.
L’impero romano antico cadde a fronte delle invasioni barbariche per diverse ragioni, una di queste è stata la diffusione del cristianesimo fra il popolo romano: l’abbandono dei valori dell’onore militare e dell’identità romana in favore di un amore universale e pacifico verso tutti gli esseri umani. I primi cristiani crebbero tra gli ebrei della diaspora che erano arrivati a Roma dopo il 70 d.c. e dopo il 135 d.c. Può essere interessante ricordare che quella diaspora ebbe origine dalla repressione sanguinosa di due rivolte contro gli occupanti romani in cui furono uccisi, secondo fonti antiche, 600.000 ebrei e decine di migliaia furono venduti come schiavi, mentre il Tempio di Salomone venne raso al suolo e i Giudei cacciati dalle loro terre. Circa duemila anni dopo e con la memoria recente della Shoah, sono i Palestinesi (al-Filasṭīniyyūn) a subire una simile sconfitta e a essere costretti alla diaspora.
L’odio sta ridisegnando le mappe del mondo, dividendo fra amici e nemici i paesi che sostengono le stesse forme di imperialismo predatorio, ma su opposti fronti. Quelli che dieci anni fa Parag Khanna definiva i tre imperi, gli USA, la Cina e l’UE (Khanna 2009), si sono ridotti a due poli allargati e non strettamente geografici, Oriente e Occidente in vista dello scontro decisivo, che non è solo militare ma soprattutto economico e culturale.
La storia ci insegna che tutti gli imperi hanno un identico destino e più la loro forza è basata esclusivamente sul dominio militare, più è fragile il loro equilibrio e breve la loro vita. Purtroppo ci è toccato di vivere in “tempi interessanti”, come recita l’antica e famosa maledizione cinese (Zizek 2012).
Bibliografia
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