Api o lupi?

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di M. Minetti

Nel presente articolo si vuole recuperare la storia delle rappresentazioni dell’umanità originaria come fondamento ideologico delle dottrine politiche della modernità. L’apparente crisi attuale delle ideologie sarebbe invece la dissimulazione delle radici etiche degli attuali valori dietro una presunta oggettività scientifica e un rinnovato realismo filosofico (Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, 2022), che metterebbe in grado di misurare la coerenza di scelte etiche mediante algoritmi complessi. Attraverso una panoramica delle opposte concezioni di proprietà privata e beni comuni si vuole mostrare come questi poli della relazione sociale abbiano prodotto corrispondenti scale di valutazione etica, e quindi politica, delle scelte in materia economica. Questi schemi interpretativi sono attualmente in crisi perché hanno impattato la capacità di prevedere ed evitare crisi sistemiche. Si prospettano quindi strumenti teorici e sociotecnici innovativi, capaci di rispondere ai diffusi bisogni sociali insoddisfatti.

La filosofia si considera convenzionalmente iniziata con il razionalismo socratico, quando Giorgio Colli provocatoriamente ritiene sia entrata in crisi. Nel momento in cui la dialettica socratica ha scisso la realtà in opposizioni di concetti astratti, la ragione ha condannato il pensiero ad una gabbia strabiliante per produttività ma dai frutti avvelenati. Il pensiero orientale antico, giuntoci attraverso le opere dei filosofi della Magna Grecia, aveva fino ad allora considerato gli opposti come diverse e compresenti tappe dell’esistenza di una stessa realtà che andava compresa, appunto (Colli 1975) non separata nel discernimento (dis-cèrnere, dis = due volte + cèrnere = separare). In epoca moderna il dibattito filosofico sulla natura dell’essere umano, se propenso al male perché segnato dal peccato originale, come voleva la tradizione biblica, o naturalmente socievole e giusto come proponeva la nuova visione illuminista del “buon selvaggio”, pose le basi della giustificazione dell’assolutismo da una parte e della democrazia liberale dall’altra. Thomas Hobbes nel 1651, riprendendo la celebre formula del “Homo homini lupus”, attualizza la tradizione del peccato originale con una ricostruzione laica e antropologicamente credibile: l’essere umano, allo stato di natura, viveva nella violenza della lotta di tutti contro tutti per procacciarsi le risorse necessarie. Solo la totale sottomissione a un capo garantì la pace e la possibilità di una società organizzata. Vi troviamo, in nuce, la formulazione dello Stato etico hegeliano e la giustificazione di tutti i fascismi. Dal lato opposto del corno troviamo il liberalismo che arriva a limitare l’intervento collettivo per non ledere i diritti naturali e universali dell’uomo e del cittadino, tra questi la proprietà privata. Quando parliamo di diritti umani non parliamo di altro che dei diritti che l’essere umano si ritiene possieda per sua natura e riesca a percepire come giusti. Non è difficile osservare che la Natura ha preso il posto del Dio biblico come fondamento della legge e della libertà, ma per porre l’individuo egoistico (Mazzetti 1992, p. 13) a fondamento della democrazia borghese. Oggi nessun giurista si sognerebbe di fondare il diritto su Dio o sulla Natura, ma il senso comune fatica a pensare che diritti e doveri sono forme storiche che una certa comunità politica si dà e che pertanto sono forme sempre in divenire, in balia di interessi particolari ed evoluzioni del contesto materiale e culturale. La libertà, non è quindi un presupposto della vita civile bensì il suo sempre incompiuto obiettivo.

Ancora oggi, in politica, destra e sinistra sono divise tra opposte visioni dell’essere umano naturale, in eterna lotta come lupi per gli uomini o spontaneamente cooperanti come le api, malgrado i loro egoismi (Mandeville 2002). Per chi ritiene che gli uomini abbiano essenzialmente atteggiamenti predatori e antisociali è fondamentale il ruolo repressivo dello Stato nello scoraggiare i comportamenti scorretti. Per chi pensa, invece, che per natura gli uomini siano portati a cooperare, bisogna eliminare la costrizione e la repressione dello Stato, liberando le opportunità.

E’ evidente che gli esseri umani non sono affatto uguali tra loro, perché una identica umanità non esiste. Non sono né api, né lupi, e sono anche lupi e anche api perché hanno osservato questi animali per millenni. Così come sono l’unione di sé stessi con gli strumenti tecnici che hanno costruito e usato dall’alba dei tempi. L’umanità non può essere distinta dalla sua storia e dalla tecnologia che gli ha permesso di sopravvivere ed evolversi (Benasayag 2016).

Ogni struttura sociale in cui gli esseri umani si sono aggregati ha avuto le sue regole di comportamento da tramandare e a cui adattarsi, quindi la sua etica. Teniamo sempre conto che l’etica è l’ambito del dovere, quindi si costruisce nei primi anni di vita nella sfera privata della famiglia.

Quello che qui mi interessa indagare è se abbia senso pensare che una trasformazione valoriale porti ad una conseguente trasformazione nelle strutture sociali o meno. Ovvero, sono i rivoluzionari che fanno la rivoluzione o invece è la rivoluzione (i mutati equilibri di potere in seno al sistema produttivo) che produce i rivoluzionari, che al loro volta adeguano il sistema politico (le leggi) ai mutati equilibri?

Per consonanza con una componente interpretativa strutturalista e post-strutturalista sono più portato a condividere la seconda opzione, ma come argomentavo all’inizio dell’articolo, la seconda opzione non esclude necessariamente la prima. Una cultura emergente da un rinnovato assemblaggio tecnologico e sociale diventerà l’altrove degli altri gruppi che aspirano ad una rivoluzione.

Ad esempio la diffusione della Ideologia californiana, fortemente individualista, ecologista e libertaria, associata ad una morale inclusiva no-gender o LGBTQ+, è stata favorita dalla vicinanza di San Francisco alla Silicon Valley e alle sedi delle grandi multinazionali tecnologiche, per cui i ruoli sociali e sessuali tradizionali non sono affatto fondamentali alla riproduzione sociale e anzi, sostanzialmente in contrasto con la dematerializzazione delle relazioni e delle merci. Le ideologie reazionarie e tradizionaliste invece proliferano in zone economicamente arretrate, basate sull’estrazione di materie prime, agricoltura, allevamento e industria, dove l’economia è rimasta ad uno stadio rurale o fordista e senza una prospettiva di futuro. I tentativi di adeguare i valori e quindi l’etica a forme della relazione sociale che non li hanno generati, trovano esiti infelici e inconsistenti se non si materializzano in strutture produttive coerenti. Insomma è impossibile aspettarsi la piena diffusione della Ideologia Californiana se non si diffonde e disloca in tutti i continenti il capitalismo immateriale, ovvero l’estrazione monopolistica di profitti dalle transazioni che avvengono in rete sul mercato globale. I più attenti noteranno che quest’ultimo è un passaggio contraddittorio. Nel momento in cui i profitti monopolistici dovuti a rendita di posizione, sostanzialmente ad un vantaggio tecnologico, venissero erosi dalla diffusione e dalla concorrenza, verrebbe anche meno l’egemonia economica e culturale dei Signori del silicio (Morozov, Silicon Valley, I signori del silicio, 2016), quindi i valori etici di cui sono portatori. Potremmo stupirci nello scoprire che i maggiori filantropi e le fondazioni che costituiscono il welfare privato, che sostituisce la mancanza di servizi pubblici, attuano una forma di neo-colonialismo con i proventi della speculazione monopolistica e finanziaria.

Segui i soldi e troverai il buono e il giusto.

La storia delle invenzioni ha plasmato l’umanità, i suoi luoghi di vita e le forme della relazione prevalenti. Nel momento in cui è stato inventato il denaro e la sua evoluzione immateriale (il valore nominale) sono stati eliminati i limiti pratici alla accumulazione di valore. I flussi di denaro pubblico e privato ci indicano nella via del consumo, ecologicamente responsabile, il che è un assurdo, l’opportunità di esprimere eticamente la nostra personalità. E’ attraverso le scelte individuali, dei piaceri e delle esperienze che decidiamo di acquistare che assumiamo valore a nostra volta, in quanto capitale umano soggettivato, ovvero che produce se stesso vivendo. Recentemente è stato definita con il concetto tipicamente liberista di “voto con il portafoglio”(Bechetti 2008) la possibilità del consumatore di orientare le scelte etiche e ecologiche delle aziende. La capacità di spesa, distribuita in modo molto diseguale, oltre a essere considerata l’ultima possibilità di scelta etica e politica praticabile, è anche lo strumento di individuazione e selezione delle èlite.

Più i consumi risultano elevati e dematerializzati e più si accresce il capitale immateriale accumulato come individui, in grado di farci accedere, grazie a quei beni posizionali, alle più esclusive cerchie di relazioni significanti. Il proletariato della sensibilità descritto da Bernard Stiegler (Stiegler, La società automatica, 2019), potrà godere solo della limitata soddisfazione dei desideri massificati ma vivrà nella perenne insoddisfazione dell’essere totalmente inadeguato ai nuovi valori e alla realizzazione di una esistenza piena e significante.

Si può godere senza il corpo?

Più di duemila anni fa un filosofo materialista espose una sua teoria di economia libidinale. Non è un caso che il giovane Karl Marx discutesse nel 1841 la sua tesi di laurea (Marx, Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, 2022) proprio sulla filosofia di Epicuro.

Il filosofo di Samo divideva i bisogni in tre categorie e di conseguenza il piacere che derivava dalla loro soddisfazione sarebbe stato da ricercare, eticamente, in maniera decrescente.

Bisogni naturali e necessari, come ad esempio bere acqua per dissetarsi.

Bisogni naturali ma non necessari: come ad esempio per dissetarsi bere vino.

Bisogni né naturali né necessari, come ad esempio il desiderio di fama e di ricchezze.

I primi, a suo avviso, vanno soddisfatti sempre, i secondi con moderazione e purche non portino più danni che benefici, i terzi mai, perché portano solo danni e infelicità. Attualmente consideriamo che bisogni e desideri sono potenzialmente infiniti e vengono costantemente moltiplicati dal sistema produttivo ma non sono affatto equivalenti fra loro, come le teorie economiche classica e neoclassica ci suggeriscono.

Agnes Heller, studiando l’opera di Marx, ha fatto notare che gli economisti, normalmente, considerano i bisogni come esclusivamente economici perché ritengono che solo nel mercato possano essere soddisfatti. Una teoria antropologica dei bisogni pone invece come più elevati quelli che si soddisfano al di fuori del mercato, diretti alle altre persone “non come mezzo ma come fine”(Heller 1974, p. 27): gli affetti, le relazioni, il piacere condiviso delle attività sociali e della produzione creativa. Dopo che risultano soddisfatti i bisogni naturali necessari, risultano finalmente accessibili e rivoluzionari i bisogni umani ricchi, che la Heller definisce “bisogni radicali”. Oggi, nelle nostre società opulente, ci rendiamo conto che i nostri bisogni insoddisfatti sono principalmente questi ultimi, non quelli che permettono la vita ma quelli che gli danno senso. Vengono spesso definiti desideri per distinguerli dai bisogni di necessità o di status considerati dagli economisti.

In un sistema economico fortemente diseguale, la soddisfazione dei bisogni è minima per tutti, sia che la analizziamo in una prospettiva utilitaristica umanistica come quella di Bertrand Russell, che misura il bene generale prodotto dalle azioni come soddisfazione complessiva di desideri, materiali e immateriali, sia che la analizziamo, come proponeva Bentham, riducendo la soddisfazione dei bisogni ad un calcolo meramente economico di spesa (Atkinson 2015). I molti soffrono perché non riescono a soddisfare neppure i bisogni necessari e i pochi soffrono perché il piacere dato dall’accumulazione di denaro per comprare oggetti ed esperienze non li può rendere felici oltre una certa misura. Il corpo umano è il limite in entrambi i casi. Avere meno di un riparo rende sicuramente insoddisfatto il nostro bisogno di abitazione, mentre possedere cinque, cinquanta o cinquecento case non aggiunge molto alla soddisfazione dello stesso bisogno, anche se può essere una notevole fonte di rendita. Inoltre, come abbiamo visto, non tutti i bisogni possono essere soddisfatti nel mercato, ma finché quei bisogni radicali non hanno modo di manifestarsi, neppure si manifesta la necessità di superare la società alienata del mercato, con i suoi lunghi orari di lavoro, ad esempio (Heller 1974, p. 27).

Dovremo però ammettere che la scelta fra la sofferenza di molte persone e il piacere effimero di poche non può essere calcolata algebricamente. Quella scelta comporta un giudizio di valore sulla quantità e qualità dei bisogni propri e altrui. Sentimenti e desideri personali, in quanto scolpiti nel corpo dalle prime fasi dell’educazione, non possono essere esclusi da questo tipo di valutazione. Pertanto osserviamo che non il calcolo ma le passioni sono alla base dell’etica e questa a sua volta è molto legata alla politica, perché quest’ultima non può prescindere dall’attuazione comune di decisioni etiche (Russell 1986).

Dalla moltitudine alla comunità.

Ci sono state organizzazioni rivoluzionarie che hanno messo in discussione molti principi dell’etica individualista. Tra le più note le comunità cristiane, ma in generale tutte le comunità tradizionali e religiose. Oggi abbiamo una percezione della condivisione di beni e mezzi di produzione viziata dalla propaganda liberomercatista, per cui solo ciò che è privato può essere davvero goduto a fondo (senza limiti) e solo ciò che è fonte di profitto può essere produttivo. L’essere in comune ci rimanda a situazioni di estremo disagio, privazione, convivenza forzata, isolamento: ospedali, caserme, scuole, carceri, comunità di riabilitazione, soluzioni precarie all’emergenza abitativa. La comunità è una forma di vita considerata superata, compatibile con la carenza perché distribuisce le risorse e massimizza la cooperazione. Parallelamente richiede una forte sottomissione a regole di comportamento e a valori comuni. Obbliga al contatto con le persone più sgradite: gli altri. “L’inferno sono gli altri” scriveva Sartre in una sua celebre opera teatrale. La solitudine neoliberista del consumatore al contrario può costituire una efficace comfort zone, un’isola di autosufficienza percepita come lusso. Nella sua tesi di dottorato sull’occupazione di Spintime a Roma, Chiara Cacciotti, raccogliendo testimonianze fra gli abitanti si è sentita dire: “l’occupazione c’ha due effetti, il primo è che te insegna a condivide le cose, il secondo è che te fa diventà capitalista!” Questa testimonianza di un occupante è emblematica del dualismo di chi vive la dimensione comunitaria percependo la limitazione della libertà che invece è garantita dal godimento individuale della proprietà. Non bisogna però confondere l’uso o la proprietà personale con la proprietà privata (Mazzetti 1992, p.87). Se ho assegnato un appartamento pubblico, ne posso godere individualmente pur senza esserne proprietario. Inoltre la proprietà personale è l’unica ammessa anche nelle società comunitarie. La casa, il terreno necessario al sostentamento, gli animali domestici, gli oggetti e i mezzi di trasporto possono essere posseduti individualmente. La proprietà privata riguarda quella proprietà che eccede l’uso personale ed è appunto indifferente alla singola persona, che li possiede solo mediante il denaro: il latifondo, gli edifici, gli impianti produttivi industriali, le miniere, le aziende dei servizi, le reti di approvvigionamento, i trasporti e ovviamente tutti gli equivalenti del denaro.

Se riflettiamo su ciò che è comune, la terra, il mare, l’acqua, le risorse rinnovabili e non rinnovabili, la conoscenza delle generazioni precedenti, i beni culturali, le strutture che forniscono servizi pubblici e amministrativi della comunità dello Stato e delle altre entità pubbliche, ci rendiamo conto di cos’è questo comune che non riusciamo a vedere anche quando ce lo abbiamo sotto gli occhi (Negri 2010). La gestione e la fruizione di questi beni comuni hanno bisogno di un’etica pubblica che superi l’interesse privato. Ciò che è privato, come dice la parola stessa, è stato sottratto al comune, ponendo una barriera che ne esclude la fruizione collettiva per disporne individualmente, con arbitrio assoluto.

L’etica individualista è predatoria e anarchica. Il godimento e il successo dell’individuo sono la misura del bene e del male, la quantità di risorse che riesce ad accumulare il singolo rappresenta la sua potenza (sovranità) sul territorio. Il proprietario privato non si cura del destino dei suoi simili, che scaccia dal suo territorio e dalle risorse. Ha senso un’etica di questo tipo in una civiltà estremamente avanzata, in cui tutti i processi produttivi e comunicativi sono interdipendenti e parcellizzati nella divisione del lavoro? Ha senso solo per dei sociopatici che si ritengono in lotta contro il mondo, come nel delirio megalomane di qualche criminale. Eppure è la forma etica promossa dalla competizione mercatista, la passione (animal spirit) che spinge a far emergere le forze vive dell’economia attraverso il culto del maschio alfa, letteralmente, il capobranco. Al polo opposto si presenta l’etica comunitaria che sottomette i desideri del singolo al bene collettivo, al dovere cioè alla soddisfazione più ampia dei bisogni all’interno della comunità. In tempo di pace i cittadini lavorano duramente per accrescere la potenza della società intera, sacrificando la soddisfazione individuale dei desideri. In questo caso emerge la differenza funzionale fra gli individui che non sono tutti uguali in lotta fra loro bensì ben stratificati in una unità organica e inevitabilmente gerarchica.

E’ importante a mio avviso sottolineare che è la forma sociale, attuatasi per evoluzione storica e tecnologica di adattamento alla possibile soddisfazione dei bisogni, che plasma l’etica ad essa coerente e funzionale. L’individuo atomico o agente razionale, che calcola individualmente la sua maggiore utilità, l’Homo oeconomicus, è una invenzione della modernità contemporanea al capitalismo industriale che esiste solo come giustificazione astratta del “libero” mercato. L’idea di libertà in quanto autonomia dalle passioni (Kant, Critica della ragion pratica, 2019) postula l’idea di un essere umano razionale e libero mediante un “diritto che <trasmesso all’uomo dalla natura>(Kant), è in grado di fondare tutti gli altri diritti.” (Mazzetti 1992, p.150)

Ma l’essere umano nello stato di bisogno non è libero, come non lo è chi viene spinto da paure, pulsioni e desideri, solo con l’affrancamento dalla necessità e delle paure può diventarlo, come conseguenza dell’essere un individuo socializzato inserito in una comunità che lo protegge riconoscendolo come suo membro.

Nella crisi del tardo capitalismo, in cui i margini di profitto delle imprese sono andati sempre più assottigliandosi, ampie parti dei beni comuni sono state privatizzate per estrarne profitti, come dalle forniture di servizi, ad esempio, erogate in regime di quasi monopolio, chi ha deciso che il metro di valutazione dei beni pubblici doveva essere la loro valorizzazione economica, indipendentemente dalla destinazione, pubblica o privata di questo valore? Lo hanno deciso i tecnocrati del calcolo del PIL. Ciò che aumenta il PIL è buono e ciò che non lo aumenta non è buono. Questo perché ai rilevamenti del PIL, che è già un algoritmo per nulla neutro, si legano, con una serie di algoritmi correlati, le previsioni e le capacità di spesa degli Stati e degli organismi economici sovranazionali di indirizzo. La misura della potenza degli stati si misura con il PIL e le politiche economiche vengono valutate con studi di impatto che misurano (stimano) la ricaduta sull’economia (sul PIL) di quelle decisioni (Lepenies 2016). Gli interventi politici vengono quindi valutati in base alla loro “efficienza” e questo comporta la misurazione della produttività degli interventi specifici. Questo è il principio ordoliberista tipicamente europeo, la gestione delle politiche pubbliche secondo parametri di budget, mutuati dalla impresa privata che nasconde una presunta oggettività delle politiche economiche. Ma il PIL non è una misura eticamente neutra. Se misuriamo la produttività come il rapporto fra prodotto e costi di produzione, osserviamo certamente una produttività maggiore nel settore privato rispetto al pubblico ma a prezzo di uno sfruttamento maggiore (minor costo) della componente del lavoro e una minore attenzione alla ricaduta sociale dell’attività, che sia l’ambiente naturale circostante o la soddisfazione dei bisogni di tutte le persone coinvolte nel processo produttivo, siano pure gli utilizzatori finali. Ovvero ad un aumento del PIL corrisponde un impoverimento della popolazione e altri costi sociali e sofferenze che non vengono considerati economicamente. Le centinaia o le migliaia di disoccupati prodotti da una ristrutturazione che rende l’azienda più efficiente, quindi in grado di generare maggiori profitti, sono un costo sociale per la collettività e per le famiglie che se ne dovranno fare carico. La mancata manutenzione nel settore privatizzato delle autostrade ha portato alla caduta del ponte Morandi a Genova nel 2018. Il costo sociale di questo “incidente” (morti, feriti, traumi, danni, disagi, tempo perduto) non rientra certo nei calcoli del PIL come una perdita, che invece ingloba tutte le spese per gli interventi di emergenza, la demolizione delle macerie, la costruzione del nuovo ponte.

Piuttosto recentemente molti economisti stanno rilevando l’inconsistenza delle promesse del neoliberismo, forse proprio a causa delle ripetute crisi recessive che abbiamo attraversato. L’imperativo della crescita (del PIL) oltre a non poter essere mantenuto, crea disequilibri tali da ridurre il benessere collettivo e individuale. La cosiddetta economia del benessere tende a superare la valutazione delle politiche che sia affidano soltanto a indici macroeconomici, utilizzando metodi di valutazione più complessi. Anche il bene generale di Russell è un algoritmo che stima idealmente la soddisfazione complessiva dei bisogni di una data comunità. Gli studi di valutazione di impatto ambientale e sociale attualmente proposti come ausilio alla decisionalità politica, sono degli strumenti di misurazione, algoritmi complessi e multidimensionali, che cercano di valutare, anche economicamente, aspetti del benessere materiali e immateriali, tenendo conto dei danni ambientali prodotti o evitati.

Se misuriamo con un algoritmo strettamente economico una attività comunitaria la considereremo inefficiente, se misuriamo con un algoritmo che tiene conto del benessere comunitario una attività imprenditoriale che ha solo finalità di profitto, la troveremo anche in questo caso insoddisfacente. La scelta coerente dei parametri da considerare e il loro peso dovrebbe essere decisa soltanto da una comunità politica coesa, ovvero che considera il bene di tutti i suoi membri come parimenti importante, valutandone i benefici e i danni complessivi in base a desideri e sentimenti, quindi a considerazioni etiche e valoriali, essenzialmente politiche, che con la scienza non hanno a che fare. La scelta degli algoritmi di valutazione è quindi una scelta politica che va considerata esplicitamente, non un dettaglio tecnico da lasciare agli “esperti” misuratori. Nel momento in cui la scelta del sistema di valutazione viene imposta da chi ha interesse a consolidare la forma di organizzazione sociale di cui è espressione (D’Eramo 2020), si palesa semplicemente quella imposizione come lotta per l’egemonia di quel gruppo, che mira a difendere le proprie rendite di posizione. Una egemonia culturale, seguente a quella militare, economica e politica, che infatti risulta estremamente efficace nell’affermare una ideologia, quindi una visione del mondo, una organizzazione della realtà e la sua etica corrispondente.

Non ha senso quindi criticare eticamente, moralisticamente, una forma di egemonia. O meglio, ha senso in quanto la critica è l’effetto della crisi di quella egemonia. Dobbiamo accettare che la trasformazione sociale, in grado di mettere fine a quella egemonia in crisi, verrà dalla capacità di prevalere di un altro gruppo sociale, dalla sua potenza, non dalla qualità migliore dei suoi valori. E’ a quella potenza, intesa come effettiva capacità trasformativa delle relazioni produttive (Nunes 2021), che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, non alla sua auto-rappresentazione valoriale che ne costituisce la giustificazione “scientifica”.

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