La via del maestro ignorante.

Critica della pedagogia e prassi democratica nella prospettiva di Joseph Jacotot

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di G. Campailla

Negli ultimi anni, parecchi docenti, facendo un qualsiasi corso di formazione o di aggiornamento, si sono imbattuti in un tipo di pedagogia costruttivista che si propone come alternativa alla cosiddetta pedagogia tradizionale, cattedratica. Alla base di una simile pedagogia, vi è l’idea secondo cui la conoscenza sia una dinamica costruita attivamente da colui che apprende.

Gert Biesta, in Riscoprire l’insegnamento, recentemente tradotto in italiano, suggerisce che intendere l’insegnante, in maniera tradizionale, come il detentore di conoscenze disciplinari o, in maniera costruttivista, come un facilitatore degli studenti che costruiscono il loro sapere, delinea due atteggiamenti tanto opposti quanto speculari. Infatti, nonostante la seconda opzione sembri convincente, essa condivide con la prima l’idea per cui la conoscenza sia l’atto di un singolo, secondo un’ottica moderna del sapere come mio dominio del mondo esterno (Biesta 2022).

Tra le due, Biesta cerca una terza via in vari autori e concetti, tra cui, in particolare, l’idea, proposta da Jacques Rancière, di «maestro ignorante» (Rancière 2008). Questi ha coniato un simile concetto, a prima vista singolare, per presentare la prospettiva del pensatore ottocentesco Joseph Jacotot in un contesto, quello francese degli anni Ottanta del Novecento, in cui nei dibattiti sulla riforma della scuola proposta dai socialisti al governo già emergeva lo scontro tra i conservatori dell’educazione, rappresentati da Jean-Claude Milner, e i progressisti, chiamati “pedagogisti”. Da allora, soprattutto a partire dal decennio successivo, Rancière è divenuto sempre più famoso e molti dei suoi testi sono stati tradotti anche in Italia. Insieme a lui è apparsa anche una certa curiosità verso la riflessione di Jacotot, sebbene spesso indistinta da quella del suo studioso. Così, per capire cosa significhi «maestro ignorante», ma ancor più per rendere conto della posta in gioco di questa terza via, è utile chiedersi chi è stato e quali idee ha formulato nello specifico questo autore.

La vicenda teorica di Jacotot trae origine da un episodio. Nel 1818, egli, esule a Lovanio, si trova a insegnare francese a degli allievi fiamminghi. Ma tra lui e gli allievi emerge una difficoltà: non soltanto gli allievi non conoscono il francese, ma egli stesso non parla il fiammingo. Fino a quel momento Jacotot era stato un insegnante che, benché avesse toccato diverse discipline (dalla Matematica al Diritto a quelle figlie del clima tardo-illuminista, come Logica e Analisi dei sentimenti e delle idee), aveva svolto questa funzione nella sua forma più classica, poiché si era sempre trovato di fronte studenti capaci di accettare la sua superiorità di «maestro sapiente». È a Lovanio però che Jacotot si accorge che questa superiorità dipende dalla capacità dei presunti inferiori, ossia degli studenti che capivano il suo francese. Così, Jacotot fa una scelta rivoluzionaria. Non si ripropone di stabilire una gerarchia tra lui e i suoi studenti. Piuttosto, dà loro il volume di Fénelon, Le avventure di Telemaco, in versione bilingue. Gli studenti vengono quindi da lui invitati a confrontare i due testi, quello francese e quello fiammingo, e a memorizzarne, ripeterne e riformularne le frasi. Tramite questi esercizi i suoi allievi imparano il francese e Jacotot ne trae una lezione: presupponendo l’uguaglianza di chiunque con chiunque altro, ogni individuo può relazionarsi a un altro come suo uguale, quindi può emanciparsi senza un maestro che, da una posizione di superiorità, pretenda trasmettergli un proprio sapere.

Da qui Jacotot ricava un «metodo», esposto in molteplici volumi: il primo, Insegnamento universale: lingua materna, viene pubblicato nel 1823 (Jacotot 2019), seguito poi da Langue étrangère e Musique, dessin et peinture nel 1824, Mathématiques nel 1828, Droit et philosophie panécastique nel 1835 e infine alcuni suoi saggi che verranno raccolti postumi nel 1841 col titolo Mélanges posthumes. Lo stesso Jacotot è però restio a teorizzare in quanto tale il suo «metodo» dicendo di limitarsi a raccontare le conseguenze del «fatto» accaduto a Lovanio: «Non cerco di dimostrare una teoria. Quel che racconterò è un fatto» (p. 37). Se infatti il termine «metodo», argomenta Jacotot, si riferisce solitamente «a una certa successione di spiegazioni date da un maestro istruito a un allievo ignorante» (p. 299), la prassi educativa da lui sperimentata è invece un «insegnamento universale» che «esiste effettivamente fin dall’inizio del mondo» (p. 301): un insegnamento che può esser fatto da tutti ed è rivolto a tutti. Un «metodo» che, secondo lui, sostituisce alla logica della spiegazione quella dell’emancipazione poiché «si insegna ciò che si ignora» (p. 299).

Cosa si insegna? E cosa si ignora? Ma soprattutto, cos’è l’emancipazione se questa al contempo la si può insegnare e la si può ignorare? L’emancipazione per Jacotot è una prassi istituita da – riprendendo ancora la formula di Rancière – un «maestro ignorante», cioè da un maestro che non si pone nella posizione del sapiente, ovvero che non pone in anticipo il progresso che, a livello morale o a livello conoscitivo, l’allievo dovrà compiere per raggiungere il suo stesso sapere. Altrimenti, il maestro potrebbe istituire una nuova distanza da colmare affinché l’allievo arrivi a quel punto in cui egli si trova già, ma che, proprio per questo, può allargare una volta di più trasformando il percorso dell’allievo in una indefinita reiterazione della propria dipendenza da sé stesso. Insomma, l’allievo perderebbe la possibilità di strutturare il proprio modo di emanciparsi e, come affermerà nel Novecento un’analisi critica simile, quella di Paulo Freire (2002), dovrebbe limitarsi a recepire il sapere «depositato» nella mente del maestro. Perciò quel che emerge da Jacotot è che l’emancipazione la si può insegnare, ma a patto che il maestro – come fa lo stesso Jacotot con i suoi allievi di Lovanio – si limiti a trasmettere ai suoi allievi la «volontà» di emanciparsi. Il maestro, dunque, se vuole emancipare qualcun altro, non può non ignorare in cosa consista l’emancipazione.

Che cos’è allora l’emancipazione? Fin qui, si è capito che per Jacotot questa non consiste in un contenuto specifico, ma in una prassi. Tuttavia, se ci si fermasse a questa considerazione, si potrebbe imputare a quella jacotista una posizione proto-costruttivista; cioè, come detto sopra, l’idea che l’allievo debba costruire da sé il proprio sapere. Occorre pertanto chiedersi: in cosa consiste questa prassi?

Per capirlo, bisogna approfondire i riferimenti teorici dell’azione di Jacotot. La sua scelta del volume di Fénelon, infatti, non è fortuita. Le avventure di Telemaco era stato scritto verso la fine del Seicento per l’erede al trono di Francia, di cui Fénelon era tutore, ma ben presto, in ragione dei suoi contenuti morali, venne accolto come un testo di critica nei confronti dell’assolutismo di Luigi XIV così da costituire una delle basi da cui emerse il successivo pensiero illuminista. È al tema dell’emancipazione che emerge dall’illuminismo, e per la precisione dal primo illuminismo, dunque, che la riflessione di Jacotot si rivolge. Tanto che la frase kantiana secondo cui l’illuminismo, o l’emancipazione, è «l’uscita dallo stato di minorità» può senz’altro essere applicata al pensiero di Jacotot.

Ma l’autore dell’Insegnamento universale non è illuminista fino in fondo. Egli è piuttosto un illuminista a contropelo. Attraversando in prima persona, nella sua epoca, le ricadute teorico-politiche del tardo-illuminismo, concretizzato da idéologues come Destutt de Tracy, Jacotot scava nelle contraddizioni dell’illuminismo ripercorrendone la traccia emancipatoria per combatterne gli esiti tecno-sociali che, già nella sua congiuntura storica, preludono al positivismo (Campailla 2022).

Il nodo principale della sua riflessione è infatti l’«uguaglianza delle intelligenze». Questa idea non è originale. Viene da Helvétius, secondo cui gli esseri umani detengono tutti un «grado di attenzione» sufficiente per elevarsi alle «idee alte», che si ottengono confrontando le «idee più familiari» con altre che lo sono meno (Helvétius 1976, discorso terzo). Pertanto, se seguiamo il ragionamento di Helvétius, emergono due concetti-chiave: 1) i differenti esiti intellettuali tra gli esseri umani non dipendono da una diversa capacità intellettiva ma da un maggiore o minore impiego di una facoltà, quella dell’attenzione, posseduta universalmente; 2) è sufficiente confrontare quel che si sa con quel che si conosce poco o non si conosce ancora. Questi due snodi li ritroviamo anche in Jacotot. Innanzitutto, il presupposto da cui muove la sua prassi educativa è lo stesso: presuppone virtualmente che siano tutti intelligenti. E in secondo luogo, l’uso del volume di Fénelon cui Jacotot invita i suoi studenti segue il suggerimento di Helvétius: «confront[are] le cose che [si] conosce [con quelle che] non [si] conosce ancora» (Jacotot 2019, p. 37); ossia confrontare la traduzione in fiammingo, familiare ai suoi studenti, con il francese di Fénelon. Ciò perché, sintetizzando i due concetti con le parole di Jacotot, «ogni uomo [è] un essere razionale, capace quindi di cogliere le connessioni» (Ibidem).

C’è però un punto in cui Jacotot si stacca decisamente da Helvétius. È la questione delle «circostanze» in cui avviene l’educazione. Helvétius, parlando dell’educazione, sottolinea particolarmente il condizionamento sociale e le istituzioni culturali in cui vive l’individuo. Sono simili «circostanze», a suo parere, a determinare l’impiego differente delle facoltà intellettive. Sono queste, insomma, a creare una realtà sociale striata, disuguale. Rispetto a questa situazione di disuguaglianza Helvétius pensa a un progetto di «utilità pubblica» che determini circostanze nuove, proprio perché l’essere umano, ai suoi occhi, non è libero dalle «circostanze» (Helvétius 1976, discorso terzo). Ora, secondo Jacotot, se ammettessimo con Helvétius che «l’uomo non è libero», bensì schiavo delle «circostanze», ne seguirebbe una «disuguaglianza degli spiriti» (Jacotot 2019, p. 324) che sembra avere i caratteri della necessità naturale. Infatti, per formulare il progetto di «utilità pubblica», bisognerebbe presupporre che colui che produce circostanze nuove sia immune dalle circostanze attuali. L’atto di emancipazione, invece, non dipende da un simile progetto; piuttosto, esso stesso, spostando la posizione che un presunto minore o ignorante aveva, scardina al contempo le «circostanze». È questo atto, sembra suggerire Jacotot, ciò cui occorre guardare.

È questa la cifra della critica che Jacotot, pur riprendendone le idee, muove all’illuminismo. Il concetto illuminista di emancipazione come «uscita dallo stato di minorità» è giusto, ma è il fatto di pedagogizzarlo, ossia – come scrive Rancière – di pensare che «minore è colui che deve essere guidato per non rischiare di perdere il senso dell’orientamento» (Rancière 2011, p. 192), che lo mette in scacco. Il senso dell’orientamento – in direzione, ad esempio, delle circostanze nuove cui mira Helvétius – verrebbe infatti comunque dal maestro. In tal modo si ricostituirebbe una relazione gerarchica da cui non sembra esserci via d’uscita perché tale dinamica illuminista di emancipazione privilegia, anziché l’atto, il meccanismo intellettivo che l’accompagna; e questo meccanismo sembra dover avere un senso, una direzione, che trascende colui che intende emanciparsi.

Scardinare le «circostanze», per Jacotot, significa invece partire dall’«uguaglianza delle intelligenze», intendendo quest’ultima – lo si accennava sopra – come un presupposto, cioè come qualcosa di virtuale, come un’«opinione». Ma un’«opinione» non la si può dimostrare: «Non c’è niente di dimostrato su queste importanti questioni» (Jacotot 2019, p. 292), scrive Jacotot. Perciò, l’uguaglianza è un’«opinione» che non si può dimostrare tanto quanto non è possibile dimostrare la disuguaglianza. Essa però la si può «verificare», tramite la volontà di emanciparsi, nell’esperienza di ingiustizia in cui si è ritenuti minori.

In definitiva, cos’è l’emancipazione per Jacotot? È la verifica dell’«uguaglianza delle intelligenze». Ma tale verifica non è un processo né completamente individuale né completamente collettivo. Ed è qui che Jacotot mostra la sua maggiore originalità. È chiaro infatti che le condizioni di emancipazione cui l’autore si riferisce riguardino innanzitutto ogni individuo: è il sistema di oggetti e pensieri con cui una singola intelligenza ha a che fare a costituire la condizione per esercitare un’attività che la emancipa da una presunzione di minorità. Tuttavia, l’intelligenza cui pensa Jacotot non è una proprietà individuale. Essa è piuttosto una totalità formale, una trama transindividuale, nella quale ciascuno può dirsi intelligente.

Così concepita, l’esperienza dell’emancipazione non condurrà tutti i soggetti agli stessi esiti: ciascuno svilupperà nel processo di emancipazione una singolarità che non può essere omogeneizzata con le altre. Tuttavia, come dice Rancière approfondendo il pensiero di Jacotot, «per l’ignorante che compita i segni, così come per il dotto che formula ipotesi, è all’opera sempre la medesima intelligenza, un’intelligenza che traduce i segni in altri segni» (Rancière 2018, p. 15; corsivo mio). Perciò, se, come dice Jacotot, secondo la sua «filosofia panecastica», «tutto è in tutto», al punto che l’intelligenza usata da Fénelon per scrivere Le avventure di Telemaco è in ciascun allievo di Lovanio che lo legge per imparare a esprimersi in francese, ogni singolarità – in quanto tale diversa dalle altre – è traducibile da un’altra singolarità.

Si capisce così che il punto fondamentale della riflessione di Jacotot sull’«uguaglianza delle intelligenze» e la sua «verifica» non consiste tanto, o soltanto, nelle forme diverse che l’emancipazione può assumere: se ci fermassimo a questa considerazione, potremmo infatti dare ragione alla recente pedagogia costruttivista. Il punto fondamentale è piuttosto il rapporto che essa istituisce tra gli individui, i quali, riconoscendosi a priori come uguali, stabiliscono fra loro una trama di relazioni non gerarchica in cui ciascuno «traduce» l’istanza di ciascun altro. Non si com-prende mai da soli, ma in un processo in cui ogni singolo istituisce un rapporto di uguaglianza con gli altri singoli. Da questa prospettiva, quella di Jacotot non è forse una pedagogia, ma è sicuramente una prassi democratica.

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L’esigenza di riflettere su una simile prassi in ambito educativo emerge oggi da più fronti, come da quello sociologico di Christian Laval e Francis Vergne che, sebbene non condividano alcuni aspetti decisivi della prospettiva rancièriana (Laval Vergne 2022, pp. 126-127), riflettono su una «pedagogia istituente». Nella loro prospettiva, una simile pedagogia parte dal principio del «comune» che, a loro parere, è una forma di razionalità alternativa non soltanto a quella autoritaria, tradizionale, ma anche a quella che fin qui abbiamo chiamato “costruttivista” e che loro identificano, più precisamente, con quella della «nuova ragione del mondo» (Laval Dardot 2013) del neoliberismo contemporaneo che intende l’individuo come «capitale umano» autocostruito.

Ci si potrebbe soffermare, insieme alle analogie, anche e soprattutto sulle differenze tra questa prospettiva e quella rancièriano-jacotista ma quel che qui interessa osservare è che l’esigenza teorica su cui entrambe insistono è la stessa. Ossia quella di pensare una prassi democratica che emancipi non soltanto da un potere pedagogico verticale e trasparente, ma anche da un assoggettamento forse orizzontale ma più opaco che, definendo l’allievo come individuo che costruisce la propria conoscenza, ne fa un homo oeconomicus che costruisce il proprio posto nella società facendo le scelte di formazione più opportune nel mercato scolastico e universitario.

Bibliografia

G. Biesta, Riscoprire l’insegnamento (2017), Raffaello Cortina, 2022.
G. Campailla, La verifica dell’uguaglianza: l’emancipazione da Jacotot a Rancière, in «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», 34 (67), 2022, pp. 91-107.
P. Freire, La pedagogia degli oppressi (1970), EGA, 2002.
C.A. Helvétius, Dello Spirito (1758), Editori Riuniti, 1976.
J. Jacotot, Insegnamento universale: lingua materna (1823), La Scuola di Pitagora, 2019.
Ch. Laval, P. Dardot, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), DeriveApprodi, 2013.
Ch. Laval, F. Vergne, Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà (2021), Novalogos/Ortica , 2022.
J. Rancière, Il maestro ignorante (1987), Mimesis, 2008.
J. Rancière, Comunisti senza comunismo?, in C. Douzinas, S. Žižek (eds), L’idea di comunismo (2010), DeriveApprodi, 2011.
J. Rancière, Lo spettatore emancipato (2008), DeriveApprodi, 2018.