Villaggio globale o Megamacchina? McLuhan vs. Mumford, alle origini del conflitto tra tecno-ottimisti e tecno-scettici.

di S. Simoncini

1.

Sarebbe interessante fare ricerca sull’attuale “semiosfera” politica per verificare se e come il divenire linguistico (delle sue strutture lessicali e semantiche) stenti ad aderire alla realtà delle trasformazioni socioeconomiche trainate dalle nuove tecnologie. L’ipotesi è che siano troppo rapide le trasformazioni, e troppo segmentata la sfera pubblica perché l’evoluzione linguistica, in quanto “evento sociale” e relazionale (Bachtin, 2003), garantisca la sua dinamica funzione referenziale. Una fatica sicuramente attestata dalle variegate terminologie adottate per denotare i nuovi concetti che potremmo definire “tecnopolitici” (come le attuali infrastrutture centralizzate della comunicazione e dell’economia digitale). Stefano Rodotà dedicò un libro (1997) e una voce Treccani (2009) al neologismo “Tecnopolitica”, sostenendo in apertura della voce che «Il rapporto tra la politica e la tecnica non può essere descritto solo in termini strumentali, come se la tecnica si limitasse a mettere a disposizione della politica dei mezzi di cui questa si serve senza per ciò veder modificate le proprie caratteristiche».

La tecnica trasforma strutturalmente la sfera politica, così come le relazioni produttive e sociali. Questa la premessa, da cui consegue il costituirsi di una zona grigia, dal punto di vista semantico e cognitivo, dettata dalle radicali trasformazioni indotte dalle tecnologie nel “tutto sociale”, cioè nelle strutture sociali e nelle ideologie che le interpretano e rappresentano. Un cono d’ombra che sembra difficile da illuminare a causa di un paradosso implicitamente formulato da Marshall McLuhan e ad oggi, probabilmente, ancora irrisolto. Il paradosso è dovuto alla contrazione delle categorie spazio tempo determinata dalla comunicazione elettronica, la cosiddetta CMC (Computer Mediated Communication), che ha generato un rapporto inversamente proporzionale tra informazione e conoscenza. Come ben argomentava Franco Ferrarotti (Ferrarotti, 1998: 29–30) ormai vent’anni or sono, «Siamo nella paradossale situazione di persone che sono nello stesso tempo poste in grado di informarsi di ciò che avviene, letteralmente, in tutto il mondo, e che si trovano, nella loro quotidiana realtà esistenziale, orfane, figli di nessuno, in balìa di forze che non riescono a controllare e che molto spesso neppure conoscono. Essere schiacciati sul presente equivale in definitiva ad essere annullati come soggetti pensanti. In questa situazione, la prima regola, in apparenza piuttosto di buon senso e alquanto scontata, in realtà fondamentale, è quella che consiglia di diffidare delle parole». Sono riflessioni molto attuali che hanno la loro radice nella critica alla post modernità, in quanto si richiamano alle analisi che critici letterari e geografi radicali (Fredric Jameson e Edward Soja) che avevano colto l’asimmetria tra la complessità e indecifrabilità della società delle reti globalizzate e il “tiny corner” in cui si trova a vivere, sempre più isolato e disorientato, l’individuo contemporaneo. Esse costituiscono in realtà un’inversione del valore simbolico di un’utopia al tempo stesso futurista e primitivista scaturita dalla nascita dei nuovi media, tra tv e computer, quella di Marshall McLuhan.

2.

Com’è noto McLuhan ha veicolato la sua visione sugli effetti socio-culturali dei nuovi media attraverso la metafora paradosso del “villaggio globale”, rischiando però che il suo pensiero ne risultasse banalizzato. Per il letterato canadese era il punto di caduta di un’evoluzione tecno sociale tutt’altro che negativa: il mondo dell’informazione simultanea, l’era elettrica o elettronica determina un ritorno alla dimensione tribale del villaggio non soltanto perché lo spazio e il tempo sono annullati e gli uomini possono connettersi istantaneamente gli uni agli altri come in un piccolo villaggio, ma soprattutto perché la mente dell’uomo, le sue strutture profonde, stanno tornando a forme di pensiero pre-alfabetiche. Tutte le tecnologie non sono solo strumenti, bensì creano “ambienti” che mutano le strutture sociali – come nell’esempio che ricorre più volte nelle sue argomentazioni, quello del villaggio indiano in cui arriva l’acqua corrente alterando a tal punto le strutture sociali, legate al ruolo della donna nel procacciamento dell’acqua dai pozzi, da indurre il villaggio a ripudiare l’innovazione. McLuhan intendeva perciò per ambiente la nidificazione di contesti relazionali, dal mentale, al sociale, al naturale, e le nuove tecnologie della comunicazione mutano gli ambienti nidificati dell’uomo a partire dalla mente, in quanto esse sono da intendersi come estensioni delle nostre facoltà sensoriali e del nostro sistema nervoso. La trasformazione dell’era elettronica non è cognitiva, è anzitutto sensitiva, in quanto le reti di comunicazione elettrica ed elettronica costituiscono un’estensione del nostro sistema nervoso all’intero mondo, che altera per prima cosa il nostro modo di percepire il mondo in relazione a noi stessi. Perciò, per comprendere veramente il senso dell’ossimoro mcluhaniano del “villaggio globale”, l’attenzione sempre prestata alla sua dimensione estrinseca, cioè alla connessione esterna della comunicazione elettrica, va rivolta invece al soggetto, in relazione al quale McLuhan parla di una disconnessione interna provocata dall’informazione elettrica. Ancora un paradosso. Sfociando in una sorta di primitivismo tecnologico, McLuhan teorizza tra la metà e la fine degli anni ’60 un ritorno dell’uomo elettronico all’uomo prealfabetico, in quanto l’ambiente prodotto dalla comunicazione elettrica farebbe implodere il continuum spazio-temporale su cui si fonda la razionalità moderna. Quest’ultima sarebbe stata generata da sistemi di comunicazione visivi e sequenziali (alfabeto fonetico e stampa) che tendono a oggettivare la realtà scindendo il soggetto da essa. L’informazione elettrica innescherebbe invece un processo tattile, in quanto essa genera un flusso costante di informazioni frammentate che vengono ricombinate nella nostra immaginazione senza mediazione cosciente e razionale. Qui vale la pena di citarlo:

«We came out of a world in which everything was connected, just like the railways, just like the world of linotype, a visual world. In other words Western man in general has come out of a world he had much to do with creating, in which space was continuous and connected; in which time was continuous and connected; in which consciousness was continuous and connected. Now man has suddenly, in the electronic age, left the age of the continuum, when we have gone “through the looking glass” à la Lewis Carroll into the world where time and space are not connected. They are not continuous at all, and that is like our unconscious. Our unconscious contains everything, but there are no connections. Consciousness is a little insignificant area in which we strive to keep things in place and visually connected. Visual space is connected space. Cultures that do not have visual technologies and visual stress have no consciousness in our sense; but live in a sort of unconscious world of dream, and that is where electronics is taking us».

Al cuore di questo passaggio è il magnifico paradosso della globalizzazione disconnessa e tribale. Ed è un paradosso multiplo, in quanto i nuovi media da un certo punto di vista connettono globalmente ed esteriormente, dall’altro generano, intimamente, una disconnessione psicologica del continuum logico-razionale, e questa a sua volta produce una “sensibilità unificata”, una riconnessione tra io e mondo, tra mentale e fisico che re tribalizza l’uomo, producendo una “coscienza integrale, sinestetica e discontinua”. Infine il world computer genererà un’unica intelligenza collettiva e una “rete ininterrotta d’interdipendenza e armonia”: «The computer thus holds out the promise of a technologically engendered state of universal understanding and unity, a state of absorption in the logos that could knit mankind into one family and create a perpetuity of collective harmony and peace. This is the real use of the computer, not to expedite marketing or solve technical problems but to speed the process of discovery and orchestrate terrestrial—and eventually galactic— environments and energies». Si tratta perciò di una sorta di spirito universale dal carattere mistico e cristologico che McLuhan riconduce addirittura a Dante Alighieri. (McLuhan, 1969) [1]

Qui è il nodo che rende McLuhan un tecno-ottimista, nella opposizione tra una razionalità moderna generata dalla sequenzialità lineare della comunicazione alfabetica, e rafforzata dalla stampa a caratteri mobili – che oggettivizza e strumentalizza il mondo, producendo al tempo stesso individualismo e massificazione nel sociale – e un irrazionalismo post moderno fondato sulla percezione discontinua e preconscia del mondo nella sua unità fondamentale, che dissolve l’individuo. La razionalità dell’era meccanica ha prodotto strutture di potere centralizzate e individualismo nel sociale, mentre l’era elettronica annuncia, non senza traumi, decentramento del potere e senso di comunità. Così McLuhan arriva ad affermare: «The immediate prospect for literate, fragmented Western man encountering the electric implosion within his own culture is his steady and rapid transformation into a complex and depth structured person emotionally aware of his total interdependence with the rest of human society». (McLuhan, 1964)

A giudicare dagli effetti, socialmente, culturalmente e politicamente disgreganti dell’attuale mediazione digitale, sorge il dubbio che l’“inconscio mondo dei sogni” prospettato mezzo secolo fa da McLuhan – come conseguenza dell’implosione “elettrica” della ragione all’interno della omogenea e universale membrana comunicativa globale – sia qualcosa di più simile a un incubo. Un’ipotesi che però era già stata avanzata a pochi anni dall’uscita di Understending media di McLuhan da un altro grande intellettuale americano: il sociologo e urbanista Lewis Mumford, nei due volumi di The Myth of the Machine, ingaggiò tra 1967 e 1970 infatti con McLuhan una polemica serrata interpretabile come uno dei primi scontri radicali tra tecno-ottimisti e tecno-scettici dell’era digitale – una dialettica tutta americana ma che sembra scaturita dalla critica della ragione illuministica che gli esponenti della scuola di Francoforte avevano importato a partire dagli anni Trenta nel nuovo continente. Mumford, coniando il neologismo di “megamacchina”, ha ipotizzato che il progresso tecnologico avrebbe determinato un ritorno al passato ben diverso da quello immaginato da McLuhan: ovverosia a forme di asservimento della società ad apparati di controllo totalitari assimilabili a quelli di regimi arcaici, “megamacchine” imperiali come l’antico Egitto e la Cina. A differenza degli apparati burocratici antichi, fondati prevalentemente su componenti umane, i nuovi apparati sono costituiti da componenti macchiniche controllate da una casta sacerdotale esclusiva, i tecno-scenziati, e dominati al loro vertice dal dio-computer. Ciò implica una centralizzazione ancora più rigida e più efficiente del potere, fondata su una asimmetria conoscitiva senza precedenti. Da un lato infatti la crescita esponenziale di potenza di calcolo e di capacità di immagazzinare informazioni nei dispositivi microelettronici implica la facoltà di “registrare” e “controllare” la realtà nel suo dinamico divenire, penetrando in tutte le pieghe della vita sociale e individuale: «So the final purpose of life in terms of the megamachine at last becomes clear: it is to furnish and process an endless quantity of data, in order to expand the role and ensure the domination of the power system». (275) Dall’altro Mumford attacca il cuore stesso dell’interpretazione mcluhaniana affermando che l’implosione radicale dello spazio-tempo della comunicazione elettronica mina la capacità di discorso razionale e cooperazione dei gruppi umani in quanto tali dinamiche relazionali si sviluppano pienamente soltanto sui piani dello spazio e del tempo, e l’immediatezza delle interazioni incrementa le aree di frizione, come nel caso di migrazioni di massa in nuovi territori. Autocidando un proprio saggio del 1934 (Technics and Civilization), Mumford afferma di aver largamente anticipato gli effetti dell’elettronica:

«Not merely did I point out the applications and implications of electronics: but unlike McLuhan I anticipated its drawbacks: not least the fact that “immediate intercourse on a worldwide basis does not necessarily mean a less trivial or a less parochial personality.” I suggested moreover that the maintenance of distance both in time and space was one of the conditions for rational judgement and cooperative intercourse, as against unreflective responses and snap judgements. “The lifting of restrictions upon close human intercourse,” I went on to say, “has been, in its first stages, as dangerous as the flow of populations into new lands: it has increased the areas of friction… [and] has mobilized and hastened mass reactions, like those which occur on the eve of a war». (Mumford, 1970)

La tribalizzazione dell’uomo elettronico per Mumford è funzionale al suo assorbimento e asservimento al sistema centralizzato di registrazione e controllo “megatecnico”, che implica una totale perdita di autonomia degli individui e del sociale, compensata unicamente dall’ottimizzazione dei servizi offerti e dei consumi indotti dalla megamacchina. Nessuna autodeterminazione su forme di esistenza e di organizzazione alternative sarà più possibile allorché il “totalitarian electronic complex” sarà integralmente assemblato. La conclusione di Mumford è che l’“arcinemico” dell’“affluent economy” megatecnica non è Marx ma Thoureau. (330 e 338)

L’unica possibile forma di risposta che egli sembra suggerire è quella contro culturale di un uso “tattico” e “politecnico” dei nuovi media da parte di gruppi che praticano stili di vita, valori e relazioni alternative. Come le strade dei romani hanno favorito l’unificazione ed espansione del cristianesimo, così la torsione ai propri fini delle nuove tecnologie può supportare lo sviluppo di controculture in formazione. Lo stesso movimento hippie, per quanto «fundamentally dissolute», si è diffuso in tutto il mondo grazie a «mimeographed ‘underground’ papers, teletape records, and personal television appearances, without any extraneous organization. These amorphous demonstrations have shown that the most solid megatechnic carapace is permeable». (376)

3.

Entrambi muovendo in qualche misura da posizioni di determinismo tecnologico che attribuisce valenze sociali univoche e generali a oggetti o sistemi tecnici, Mumford e McLuhan si collocano agli antipodi nell’interpretazione di questa valenza prevalente della tecnica. Mentre per il primo l’implosione spazio-temporale provocata dalla comunicazione elettronica costituisce una minaccia per la convivenza civile e per l’autonomia dell’individuo e del sociale, per il secondo la stessa implosione libera l’uomo dalle strutture gerarchiche e centralizzate – sociali e culturali –, della razionalità strumentale moderna. A distanza di un cinquantennio, la radicalità di queste interpretazioni ancora sorprende perché mostrano entrambe di aver compreso molto precocemente la radicalità di una trasformazione, insieme antropologica e socio-economica, che solo oggi osserviamo in tutta la sua entità. E proprio negli sviluppi ultimi delle tecnologie digitali, nella mutazione della loro “megastruttura” dal cyberspace decentrato al sistema centralizzato delle piattaforme commerciali, possiamo leggere quasi una dialettica che materializza e “anima” le posizioni antitetiche dei due teorici americani. Ciò anche a dimostrare che non va attribuita la ragione all’uno o all’altro, perché entrambi hanno colto le antitetiche potenzialità delle tecnologie emergenti.

E in un certo senso entrambi avevano presente questa ambivalenza, sottraendosi in parte al determinismo. Ma con delle differenze. Per Mumford, lo si è visto, esiste un uso delle macchine che preserva l’essenza dell’umano, e questo uso fa riferimento ad una dimensione al tempo stesso qualitativa e quantitativa, vale a dire la dimensione della architettura del sistema produttivo uomo-macchina, che a suo parere deve essere decentrata e articolata in “micromacchine”, e ad essa deve corrispondere una articolazione decentrata e federata del potere politico nella dimensione territoriale. In tal modo si evita l’asimmetria di conoscenza e potere, garantendo la necessaria autonomia all’individuo e alla società. McLuhan in uno dei suoi ultimi scritti (McLuhan, 1978) arriva a riconoscere la validità delle tesi di Mumford, procedendo anche oltre: egli vi afferma che l’uomo “elettronico” o “disincarnato”, percependosi svincolato dalle leggi della natura e della morale, nonché dissociato dalla sua identità privata, si affida a strutture mitiche di rappresentazione della realtà e ad un senso di appartenenza fondato sulla fedeltà. Una considerazione che induce McLuhan ad affermare che «For discarnate man the only political regime that is reasonable or in touch with him is totalitarian – the State becomes religion”, e che questo regime può assumere “the form of the sort of megamachines of the state that Mumford talks about as existing in Mesopotamia and Egypt some 5,000 years ago». [2] Dopo aver citato un passaggio molto significativo di Erich Fromm («the whole man becomes part of the total machinery that he controls and is simultaneously controlled by. He has no plan, no goal for life, except doing what the logic of technique determines him to do»), McLuhan conclude che gli utenti di TV e computer diventano “information pattern” disincarnati, una visione straordinaria in fondo, a cui Mumford stesso non era arrivato nella critica alla megamacchina, e a cui si stenta ancora oggi ad arrivare (si pensi alle critiche attuali al “digitalismo” fondate esclusivamente sui meccanismi “estrinseci” della dipendenza e del controllo). La megamacchina centralizzata in quanto ambiente al tempo stesso “tecnico” e “sociale” è apparato di soggettivazione, e fin qui era arrivato anche Mumford. Ma non è questione di controllo, ovvero di coercizione negativa a determinati comportamenti. È in realtà questione a monte del controllo, di predeterminazione dei modi di essere che sono alla base dei comportamenti grazie alla astrazione delle soggettività in pattern informazionali. Una dimensione che sarà scandagliata con lucidità dal compianto Bernard Stiegler, in un’analisi incentrata sul concetto di “grammatizzazione”. È quindi paradossalmente McLuhan alla fine che si spinge più avanti nella riflessione sulle modalità con cui le nuove tecnologie riducono l’uomo a servo-meccanismo della megamacchina.

La verità è che i due muovono da un’antropologia diametrale. Da un lato vi è l’antiumanesimo cristiano di McLuhan, tutto proiettato verso l’utopia dantesca e misticheggiante dell’anima universale in cui l’individuo non ha cittadinanza, dall’altro l’umanesimo radicale di Mumford tutto teso a scongiurare la distopia della megamacchina, e perciò a depotenziare e a democratizzare la macchina a favore dell’autonomia dell’individuo, che si definisce prevalentemente al di fuori della sfera tecnica. Perciò secondo Mumford l’umano ha una sua essenza a prescindere dalla tecnica, mentre per McLuhan l’umano è intimamente plasmato dalla tecnica. A dirimere questa disputa arriverà più di vent’anni dopo, nel 1992, Felix Guattari. Questi muove più programmaticamente dalla ambivalenza strutturale della tecnica: «La produzione macchinica della soggettività può lavorare per il meglio o per il peggio», (1992) e considera in chiave evolutiva e in un’ottica cibernetica il rapporto uomo macchina e società-macchina come dipendente da assemblaggi in continua trasformazione e riconfigurazione. Esiste perciò secondo Guattari un “phylum”, ovvero una discendenza nell’evoluzione macchinica, ma questa discendenza non è lineare ma “rizomatica”, ovvero determinata da assemblaggi diversificati delle diverse componenti del sistema. Perciò non ha senso attribuire una valenza generale alle tecnologie, così come non ha senso concepire l’umano come se avesse una essenza a monte del rapporto con la tecnica: la soggettività è costitutivamente macchinica. Inoltre, in quanto “apparato collettivo di soggettivazione”, la tecnica è costitutiva anche per il sociale, e qui Guattari dà ragione a Mumford nell’affermare che esiste una megamacchina capitalista che è in grado di generare asservimento macchinico di massa. E tuttavia si tratta di una unità molecolare, anch’essa rizomatica, e perciò molto “mutevole”. Nel riassorbire questa unità nel concetto più ampio e neutro di “meccanosfera”, che richiama il concetto di “noosfera” di Teilhard de Chardin, Guattari inclina la sua visione verso McLuhan per recuperare la prospettiva utopica dell’intelligenza collettiva; e tuttavia al tempo stesso la depotenzia, asserendo che essa non ha alcunché di cosciente e trascendente. E in quanto questo sistema è costitutivamente molecolare, anche ogni possibile cambiamento deve essere molecolare, cioè deve passare attraverso molteplici sperimentazioni e riconfigurazioni alternative della relazione uomo-macchina che coincidono con usi tattici delle tecnologie correnti, finalizzati anzitutto a produrre nuovo immaginario e nuove soggettività.

4.

Cosa c’insegna questo dibattito? Tornando al quesito di partenza sulla zona grigia da “risemantizzare” e “ripoliticizzare” sempre più ampia prodotta dalla accelerazione tecnologica attuale – la risignificazione dell’umano costantemente indotta dalla tecnica – il problema non è soltanto di concepire in modo ambivalente la tecnologia stessa, tenendo insieme i grandi rischi della megamacchina con la grande utopia dell’intelligenza collettiva, ma anche di essere capaci di penetrare la fenomenologia concreta che consenta di riconfigurare gli assemblaggi materiali uomo-società-tecnica-ambiente-territorio a partire da nuove sfere di produzione semantica e simbolica. Su questo piano, o su questa moltiplicazione di piani, la scuola francese, a partire dalla lezione di Baudrillard e Deleuze-Guattari, passando per Paul Virilio e Bernard Stiegler, è molto più ricca, versatile e articolata di quella americana. E molto più linguisticamente creativa nel plasmare neologismi e nuovi concetti capaci di inseguire le sempre più rapide trasformazioni tecno-sociali. E tuttavia gli americani hanno il merito di aver costruito il quadro interpretativo e concettuale generale all’interno del quale ancora ci muoviamo.

NOTE

[1] Lo esplicita nel seguito del testo citato appena sopra: «Psychic communal integration, made possible at last by the electronic media, could create the universality of consciousness foreseen by Dante when he predicted that men would continue as no more than broken fragments until they were unified into an inclusive consciousness. In a Christian sense, this is merely a new interpretation of the mystical body of Christ; and Christ, after all, is the ultimate extension of man».

[2] «Discarnate man, deprived of his physical body, is also deprived of his relationship to Natural Law and physical law. […] Minus the physical mesh of Natural Laws, the user of electronic services is largely deprived of his private identity […] If discarnate man has a very weak awareness of private identity and has been relieved of all commitments to law and morals, he has also moved steadily toward involvement in the occult, on one hand, and loyalty to the superstate as a substitute for the supernatural on the other hand. For discarnate man the only political regime that is reasonable or in touch with him is totalitarian – the state becomes religion. When loyalty to Natural Law declines, the supernatural remains as an anchorage for discarnate man; and the supernatural can even take the form of the sort of megamachines of the state that Mumford talks about as existing in Mesopotamia and Egypt some 5,000 years ago».

BIBLIOGRAFIA

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