di M. Civino
Il passato recente
“Gli uomini non sempre muoiono in silenzio”, scrisse Keynes in Le conseguenze economiche della pace. Nella loro angoscia possono seppellire un’intera civiltà.
Era la fine della Grande Guerra e per Keynes quel passaggio segnava la fine di un’epoca e di un ordine sociale oramai in declino. La guerra aveva “scosso al tal punto il sistema da mettere in pericolo la vita dell’Europa” (Keynes 1920, p. 701), scriveva Keynes nel suo famoso saggio.
Nel Trattato di Versailles, le potenze vittoriose e le loro classi dominanti si apprestavano a delineare per il mondo un ordine che continuava a poggiare su fondamenta superate, instabili ed anacronistiche.
Per Keynes, infatti, quel modello economico e finanziario non poteva durare a lungo perché era basato su uno sviluppo fatto di debiti e di risarcimenti tra nazioni che sarebbe stato una fonte costante di instabilità internazionale. Keynes aveva visto giusto. Le conseguenze di quel trattato portarono l’economia mondiale nella Grande Depressione degli anni ’30 e contribuì direttamente all’ascesa dei fascismi nel mondo.
Oggi, per fortuna, non dobbiamo fare i conti con le tragiche devastazioni di una guerra di quella portata storica e tragica. Ma le conseguenze del letargo sociale nel quale stiamo progressivamente sprofondando a causa di questo invisibile nemico, la pandemia da coronavirus, richiedono senza dubbio un impegno immediato che sia fuori dell’ordinario.
Il disorientamento sociale
La società è costretta all’improvviso a sottomettere ad un comune controllo l’anarchia dei rapporti sociali. Le litanie sulle doti salvifiche del mercato si svuotano di significato. Prevale il bisogno di cooperazione tra nazioni rispetto alla competizione tra nazioni. Si impone la necessità di regolare la produzione e la distribuzione dei beni, invece che essere dominati da esse come da una forza cieca. Cadono uno dopo l’altro i feticci attraverso i quali l’ideologia del neoliberismo ha esercitato miseramente il suo potere negli ultimi quarant’anni: l’austerità, la proprietà privata, l’indifferenza reciproca, il laissez-faire, la mercificazione di ogni aspetto della vita.
Gli stati nazionali, pur adottando misure straordinarie di intervento pubblico, arrancano isolati nel tentativo di esercitare una sovranità sull’economia. La finanza speculativa è fuori d’ogni controllo politico e per coloro che non professano il catechismo di Santa Romana Chiesa non vi è salvezza. Lo Stato-nazione regna ma non governa.
L’Unione Europea, d’atro canto, conferma di essere sostanzialmente un orpello giuridico al progetto politico del neoliberismo. Un’Europa mercantile e finanziaria che ad ogni segnale di difficoltà difende quel progetto come fosse una roccaforte assediata. Lo aveva mostrato prima di tutto con il vergognoso assenso dello “scudo” della Grecia di fronte alla tragedia dei profughi siriani, qualche settimana prima di essere divorata dalla pandemia.
Certo, senza l’intervento degli stati nazionali, oggi non sarebbe possibile alcun programma di contenimento e di monitoraggio. Non ci sarebbero gli ospedali, i medici, gli infermieri, i macchinari, i laboratori di ricerca, le risorse materiali per prendersi cura dei contagiati. Non sarebbe possibile garantire un reddito di sussistenza per coloro che rischiano il posto di lavoro e quelli che il lavoro intanto lo hanno già perso. Sarebbe infine impraticabile garantire i bisogni essenziali a tutti coloro che sono costretti a restare a casa per evitare il diffondersi del contagio.
Ma è una prassi politica che continua a poggiare sul vecchio ordine sociale. Ad esempio, quando si invocano finanziamenti illimitati, si finisce intrappolati inevitabilmente dentro le maglie del debito, sia pubblico che privato. Stampare moneta od offrire una liquidità a costo zero, una misura senza dubbio necessaria, non è sufficiente a garantire l’occupazione e l’utilizzo delle risorse. Si ignora la camicia di forza dei rapporti capitalistici. Quando i costi non possono essere coperti ed i profitti tendono a dissolversi, il blocco delle attività produttive diventa inevitabile.
Avrebbe forse più senso una moratoria generale per la cancellazione di ogni forma di debito e di tassazione fino alla ripresa normale delle attività produttive, assieme un piano di spesa pubblica mirato soprattutto a salvaguardare l’occupazione.
Il significato della crisi
Sia ben chiaro, quell’ordine sociale oggi sotto shock per via della pandemia, aveva già mostrato la corda di fronte alle crisi di questi ultimi decenni. Crisi da sovrapproduzione le aveva brillantemente descritte Marx: capitale inutilizzato da una parte e disoccupazione dall’altra (Marx 1994, p.930).
A ridosso di quelle crisi, il letargo sociale a cui ci costringe oggi questa pandemia, potrebbe forse aprire finalmente una porta di riflessione più ampia sul significato dei cambiamenti intervenuti negli ultimi quarant’anni. La socializzazione delle masse con il Welfare State durante i Trenta Gloriosi, dentro la cornice di ogni Stato-nazione occidentale, ha prodotto la società opulenta e l’individualismo di massa. È in questa trasformazione che lentamente muoiono la politica statuale e la mediazione dei corpi intermedi, dei partiti e dei sindacati, e prendono il sopravvento il neoliberismo e la finanziarizzazione dell’economia.
Ma non possiamo parlare soltanto nella lingua dell’economia e della finanza, anche se è necessario tenere conto di quel tipo di contraddizioni. Il disagio degli ultimi, il disorientamento di massa, l’angoscia del presente e la paura per il futuro aprono una questione antropologica dai caratteri inediti.
“Dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che si salva” (Heidegger 2017, p. 233) diceva il grande poeta tedesco Holderlin. Il pericolo dunque come portatore di verità sulla caducità dell’esistenza umana ma anche come possibilità di una rinascita.
Oggi è davvero difficile pensare che questa sia una possibilità reale. Nell’Apocalisse, catastrofe e rivelazione si combinano per annunciare l’avvento di un nuovo mondo. Il nostro secolo, che non fa più uso del mito, della religione e di qualsiasi visione simbolica, rischia di atrofizzare e di morire con la perdita di ogni senso di umanità.
Cosa è possibile salvare in una società dove gli individui hanno imparato dalla modernità a voler essere ognuno un mondo a sé?
Come suggerisce Edgar Morin, oggi la morte terrorizza perché viene identificata con il terrore della perdita di quella individualità.(Morin 2017, p.250) L’individuo è ripiegato su sé stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e questa condizione è considerata come una conquista inalienabile.
Il declino dei territori
L’inclusione della gran parte degli individui nel consumo di massa assume i suoi connotati più significativi nello svuotamento della sfera sociale dentro i nostri territori.
Oggi, il danno subito a causa dell’isolamento e del blocco delle attività produttive sul territorio, come ad esempio la cancellazione dei voli e delle prenotazioni negli hotel, viene spesso valutato con le ricadute economiche sul turismo e sull’industria culturale. Su quest’ultime è stata disegnata l’architettura politica ed amministrativa delle nostre città negli ultimi decenni.
Mi chiedo se nel nostro tempo si possa finalmente inaugurare una nuova epoca rispetto a questo modello di sviluppo del territorio. In quella che alcuni hanno definito una vera e propria “età del turismo”, hanno preso il sopravvento i pianificatori dell’intrattenimento e delle smart city, le cosiddette città digitali, dove il territorio si è trasformato in una rete di connessioni funzionali senza costruire alcun reale spirito comunitario.
Io credo che per ricomporre i cocci di una comunità in frantumi sarà necessaria una rivoluzione copernicana nel modello di sviluppo delle nostre stesse città. Il territorio nel quale viviamo deve diventare uno spaio condiviso dove si creano insieme i significati che danno senso alla vita.
La sfida antropologica
Crisi e critica camminano insieme. È in questi passaggi storici che vanno messe in discussione le forme dominanti della vita. Bisogna alzare l’asticella della nostra riflessione per avanzare una vera e propria critica alla nostra civiltà. Si tratta di produrre una “nuova cultura” capace di trovare il senso della costruzione della comunità tra gli individui.
Questa nuova cultura non può certo germogliare dentro questa Europa mercantile e finanziaria, dove la competizione continua ad essere consegnata alle singole nazioni soggette alla rappresaglia dei mercati finanziari globali.
Forse è giunto il momento di cominciare ad elaborare uno spazio politico nuovo, dove la costruzione della comunità passi attraverso uno scambio proficuo tra la cultura umanistica e quella tecnologica, tra filosofia e scienza.
Qualche intellettuale ha parlato di Europa mediterranea. (Barcellona – Ciamarelli 2006, p. 149) Penso che il Sud del mondo, con la sua storia, la sua tradizione, i suoi conflitti e la sua apertura geopolitica potrebbe in qualche modo contenere simbolicamente una critica allo stato di cose presente. È un terreno certamente da esplorare.
Pensare questi luoghi per produrre un nuovo ordine e nuovi rapporti sociali è un’operazione ardua sia sul piano teorico che politico. Ma la crisi va pensata anche come ponte. Essa è l’opportunità che ci è data per riscoprire, nella condizione tragica dell’umano e di fronte alle forze naturali che mostrano senza veli la fragilità della sua esistenza, la domanda sul destino degli uomini.
Una domanda che è stata depennata nel progetto filosofico della modernità. Ma è l’unica domanda che rende culturalmente possibile e politicamente praticabile l’idea per un nuovo ordine sociale. L’unica domanda che tiene conto del rapporto fra presente e futuro, tra la nostra generazione e quella dei nostri figli.
Bibliografia
P. Barcellona – F. Ciamarelli, La frontiera mediterranea, Ed. Dedalo 2006.
M. Heidegger, La questione della tecnica, goWare 2017.
J. M. Keynes, The Economic Consequences of the Peace, Ed. Gutenberg 1920.
K. Marx, Il capitale, Libro III, Editori Riuniti 1994.
E. Morin, L’uomo e la morte, Erickson 2017.