La mia vita fuori di me

di M. Minetti

L’articolo è apparso in origine il 7-12-2021 su NOT in versione ridotta.

Molti mi conoscono, ma quella persona non sono io.

Fino a pochi anni fa poteva accadere soltanto a persone con una certa fama, che avevano costruito attraverso la carriera un’immagine coerente con il proprio pubblico, di essere riconosciute per ciò che non erano. Questo è il tema della canzone di Francesco de Gregori, “Guarda che non sono io“.

Cantanti, attori, intellettuali, aristocratici, politici, imprenditori, si mostravano in fotografie posate, interviste, biografie e, ovviamente nelle loro opere. La scissione si rifletteva, in questi personaggi, nella oscillante considerazione tra la propria immagine pubblica e quella privata che gli veniva riflessa nei rapporti più prossimi. Solo poche persone, i famosi, avevano una vita fissata al di fuori della propria memoria senza possibilità di oblio, portandone il peso a volte insostenibile. La vita privata (privacy) poteva comunque, anche se con difficoltà, essere mantenuta separata e nascosta dalle curiosità morbose del pubblico. Le persone comuni, invece, agivano le proprie relazioni sociali soltanto nella prossimità del faccia a faccia, controllando attraverso il proprio corpo e le parole, l’”immagine di sè” che volevano mettere in scena, come su un palcoscenico (Goffman 1969).

Oggi quella condizione di esposizione delle proprie memorie verso “un pubblico” è comune, regalando anche a coloro che conducevano vite quasi anonime la schiavitù di poter essere continuamente sotto gli occhi degli “altri”. Il Panopticon, da strumento disciplinare di controllo diventa ambizione narcisistica di mettere in mostra la propria vita per farsi ammirare, con la paura conformizzante di essere giudicati e criticati (Chul-Han 2016, p. 52 ). La vita privata si riduce e si trasforma in tracce pubblicate da dover gestire su molteplici piani contemporaneamente.

Quante fotografie possedevano i nostri bisnonni? Di solito poche, realizzate in momenti topici della vita, in occasione di riti di passaggio: ai sei mesi, nella famiglia, alla comunione, le foto di classe, al militare, da giovani scapoli/nubili, al matrimonio, nelle feste familiari, per il sepolcro, da morti (1).

Quelle immagini statiche, modellate sulla pittura ritrattistica precedentemente riservata al ceto aristocratico, servivano a fissare il ruolo sociale e lo status della persona. Le memorie scritte, nella forma del diario o dell’epistolario, diventavano vere biografie solo nel caso di personalità davvero eccezionali.

Solo nella seconda metà del ‘900, l’accesso alla possibilità di fotografare per una massa di nuovi consumatori, ha permesso di ritrarre momenti di vita quotidiana delle persone comuni: le feste familiari, le vacanze e i viaggi, i momenti di divertimento nel tempo libero, i partner delle storie d’amore. Il numero di immagini realizzabili era comunque limitato dalla capacità tecnica di fotografare e dal costo non trascurabile di ogni immagine (apparecchio, negativi, sviluppo, stampa).

L’avvento degli smartphone con camera integrata ha portato all’aumento esponenziale delle occasioni di ripresa audiovisuale e del volume di produzione di queste memorie individuali, che poi vengono spesso condivise con un pubblico elettivo, divenendo memoria comune. La scrittura ha lasciato il passo alle immagini, più immediate e considerate più “autentiche”, oggettive, rispetto alla narrazione scritta, nella costruzione della memoria autobiografica.

La macchina fotografica ha fatto da stampella alla memoria biologica, una funzione che ora é appannaggio soprattutto della memoria computerizzata. Se c’é un modo in cui la cultura digitale trasforma l’essere umano, questo avviene essenzialmente nella misura in cui condiziona le nostre relazioni con la memoria, facendoci credere che la memoria equivalga al semplice accesso alle informazioni o a una forma di disponibilità dei dati. L’esperienza del passato però dipende sempre dalla prospettiva dalla quale é interpretata, cioé da un interfaccia che non é mai neutra e nemmeno innocente. Perché questa interfaccia sia efficiente, dobbiamo essere dotati della capacità di dimenticare, e le macchine non dimenticano: sono capaci solo di cancellare. Per innovare ed evolversi, per vedere il mondo in maniera differente, bisogna poter e saper dimenticare.” (Fontcuberta 2017, p.62)

Queste memorie esterne, condivise attraverso la rete con le cerchie sociali di appartenenza (il partner, la famiglia, gli amici, i colleghi, i followers, l’intero web..) definiscono alcuni aspetti selezionati e a volte “ritoccati”, della propria immagine, rendendola pubblica. Paolo Vignola nella sua introduzione a Prendersi cura, testo di Bernard Stiegler del 2008, spiega cosa sono per il filosofo queste ritenzioni terziarie.

Per Husserl […], se le ritenzioni primarie sono ciò che la coscienza trattiene nel presente del flusso percettivo, mentre le ritenzioni secondarie sono selezioni delle ritenzioni primarie precedenti, diventate ricordi, le ritenzioni terziarie, concepite da Stiegler, sono esterne alla coscienza. Esse sono infatti sedimentazioni della memoria, spazializzata in supporti materiali (hypomnemata, dalla selce scheggiata al libro, dalle fotografie alla scrittura digitale, ecc..) ed hanno il potere di condizionare la selezione e la formazione delle ritenzioni secondarie, le quali a loro volta sovradeterminano le ritenzioni primarie, dal momento che i ricordi e la memoria influiscono direttamente sulla selezione della realtà percepibile.” (Stiegler 2014, p.23)

Dai ricordi all’individuo.

Il mosaico di memorie esternalizzate concorre a formare una autocoscienza che a fatica possiamo ancora chiamare “interiorità”, visto che risiede principalmente nel flusso di comunicazione che produciamo e che si sedimenta in memorie oggettivate. Non ha quasi più senso oggi l’affermare di agire liberamente, in autonomia, seguendo i propri desideri e volontà individuali se i presupposti di un agire morale sembrano scomparire per la difficoltà di riconoscere una effettiva autonomia all’individuo nella percezione-descrizione della propria identità. Come dire: “io sono libero! Ma chi sono io?”

Ogni società riproduce la propria cultura – le sue norme, i suoi presupposti fondamentali, i suoi modi di organizzazione dell’esperienza – nell’individuo, nella forma della personalità. Come ha detto Durkheim, la personalità è l’individuo socializzato. Il processo di socializzazione, portato avanti dalla famiglia e in un secondo momento dalla scuola e dalle altre agenzie che intervengono nella formazione del carattere, modifica la natura umana per renderla conforme alle norme sociali prevalenti.” (Lasch 1980, p. 51)

In un precedente articolo (La relazione incompiuta, Rizomatica #02, 2020, p. 40), avevo già osservato, raccogliendo le teorie di numerosi autori, come i processi di individuazione siano sempre storicamente determinati, attuandosi biograficamente nel contesto delle relazioni sociali esperite, giungendo a costituire entità individuali dinamiche e molteplici. Quando cerchiamo di capire chi siamo, quali sono le nostre volontà e desideri, ci scontriamo con i limiti della ragione che forse, in questo ambito, può solo cercare di unificare e giustificare, nascondendo l’inconscio desiderante e contraddittorio, un dato di fatto pre-individuale. Quello che Benasayag, in una accezione piuttosto particolare chiama destino. “Quest’ultimo inteso non come fatalità, ma come insieme di tropismi, di affinità elettive ben territorializzate che configurano “l’essere-nel-mondo” di una persona”(Benasayag 2018, p.26) e che può rimanere inaccessibile senza un adeguato lavoro del terapeuta.

Lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Jervis, ne Il mito dell’interiorità, fa notare che tra il proprio sé e la descrizione che ce ne costruiamo può esserci una notevole discrepanza.

Quest’autocoscienza più propriamente riflessiva, introspettiva, è soprattutto <consapevolezza> o, invece, è soprattutto narrazione, o addirittura discorso convenzionale? A mano a mano si rafforzò il dubbio che sia soprattutto narrazione. Io credo oggi che l’autocoscienza introspettiva sia una costruzione, impastata di miti e di autoinganni interessati.” (Jervis 2011, p. 183)

Nella seconda metà del ‘900, influenzati dalla psicoanalisi, alcuni filosofi si impegnavano a decostruire quella rappresentazione dell’individuo che ci proveniva dall’illuminismo e che lo voleva autonomo, razionale, etico e motivato dalla ricerca del piacere e della felicità.

Gilbert Simondon in Individuazione psichica e collettiva, scriveva “occorre un rovesciamento di prospettiva nella ricerca del principio di individuazione; va considerata primaria l’operazione d’individuazione con cui l’individuo comincia ad esistere e di cui riflette nei suoi caratteri lo svolgimento, il regime, infine le modalità. L’individuo figurerebbe allora, come una realtà relativa, come una fase dell’essere che presuppone una realtà preindividuale”(Simondon 2006, p. 28). Lo studio delle condizioni che permettono l’individuazione, e che oggi incorporano dispositivi sociotecnici di trasmissione e memorizzazione digitale della comunicazione prodotta, ci permette di constatare quanto di questo processo é predeterminato e non una scelta dell’individuo. L’ambiente familiare in cui impariamo a distinguerci dal genitore è fortemente strutturato da forme di cattura dell’attenzione, sia del genitore stesso, assorbito nelle proprie preoccupazioni, nel lavoro, nella dipendenza da flussi di comunicazione, nelle frustrazioni che comporta la condizione genitoriale con le sue rinnovate problematicità, sia dalla cattura dell’attenzione del bambino, che già dai primi mesi viene esposto a stimoli provenienti dagli schermi, con suoni, musiche, colori che nulla hanno a che vedere con lo sguardo amorevole dei caregiver, anzi ne sono spesso la sostituzione. Mano a mano che crescono, i bambini passano sempre più tempo in compagnia di stimoli audiovisuali e immersi nei flussi di comunicazione mediata dalle piattaforme.

La teoria dell’individuazione di Simondon, elaborata nel 1964, quando l’informatica era ancora molto lontana dalle masse, é stata sviluppata più recentemente da Bernard Stiegler per definire il passaggio dalle psicotecniche del libro e dell’educazione scolastica alle psicotecnologie della televisione e delle piattaforme, come forme individuanti di captazione dell’attenzione. Partecipando all’idea Simondoniana che il processo di individuazione è sempre al tempo stesso singolare, per l’individuo, e collettivo perché avviene all’interno di una determinata problematica vitale, trans-individuale, in quanto si tratta di “partire dalla necessità di pensare gli esseri dal punto di vista della realtà delle relazioni che li costituiscono”(Simondon 2006 p.18), Stiegler prosegue l’opera del suo mentore.

L’individuazione collettiva é costituita da ritenzioni collettive, comuni a coloro che si co-individuano psichicamente solo condividendo un fondo ritenzionale comune. Questo fondo ritenzionale, che Simondon chiama un milieu preindividuale, nel quale si opera una transindividuazione, è formato dagli oggetti che sono anche i ricordi oggettivati di una memoria epifilogenetica, ossia tecnica.” (Stiegler 2014, p.68)

Con l’evoluzione tecnica cambia la natura di questi oggetti che per secoli hanno avuto la forma di edifici, arredi, dipinti, statue, manoscritti, e poi di libri stampati, fotografie, oggetti di design fino ad arrivare oggi ad essere un flusso continuo di informazione de-materializzata, che talvolta rappresenta e riassembla frammenti di quegli oggetti dei secoli passati. Per Benasayag,

l’occidente e il suo modello di uomo “moderno” sono l’esito di una storia di coevoluzione: quella di fatti poco analizzati come l’incidenza culturale e psicologica, ma anche fisiologica, della lettura silenziosa, che comincia a fondare i “giardini interiori” dell’individuo moderno, o l’addomesticamento del corpo verso un autentico oblio di quest’ultimo […].

L’individuo postmoderno, dalla fine del XX secolo, è invece fondato sul dispiegamento del suo precedente barocco e segreto. Si vuole trasparente e panottico. Oggi il “peccato” non consiste mai nel contenuto del segreto ma nell’avere segreti.” (Benasayag 2018, p.27)

Se durante la modernità ci si individuava attraverso una scelta di letture formative, i libri sacri, i classici della letteratura e dei filoni ben definibili di pensiero, individuati nelle correnti artistiche e filosofiche che possiamo riassumere nei programmi scolastici della scuola secondaria, oggi l’individuazione avviene attraverso la scelta dei media verso cui indirizzare i propri flussi comunicativi, il proprio linguaggio iconico-narrativo, con l’inevitabile conseguenza di vedere il capitalismo di piattaforma appropriarsene e adattare ai propri scopi questo repertorio di ritenzioni terziarie. La nostra cultura moderna si é strutturata attraverso il dispositivo psicotecnico del libro. “La scrittura è indubbiamente ciò che segnò il momento più importante di trasformazione, forse l’unico comparabile con la digitalizzazione attuale”(Benasayag 2016, p. 143) rendendoci incapaci di apprendere e spiegare le cose se non “riducendo tutto al lineare, ed al successivo” (McLuhan 2011, p.11).

La Bibbia (da byblìa: i libri) che deriva dalla Torah del XIII sec. A.C., I Ching (Il libro dei mutamenti) circa del X sec. A.C. L’iliade del VIII sec. A.C., L’Upanisad del VII sec. A.C., sono i primi testi costituitivi delle religioni e delle tradizioni europee e asiatiche.

La diffusione della stampa ha reso i libri disponibili per milioni di persone che, grazie a questa invenzione, hanno imparato a leggere. La lettura é una tecnica che ha bisogno di anni per essere padroneggiata e richiede una concentrazione e un attenzione che impongono una disciplina per nulla naturale. Anche solo abituare lo sguardo a percorrere il testo ordinatamente nel suo verso e ordine è un disciplinamento della percezione visiva che molte persone ancora trovano insopportabilmente faticoso.

Secondo il censimento del 2015 in Italia, solo il 35% degli abitanti uomini e il 49% delle donne, al di sopra dei sei anni, aveva letto almeno un libro nell’anno precedente all’intervista. Le percentuali sono più alte nella fascia d’età 11-17 anni, sicuramente a causa dell’obbligo scolastico. (2)

Le percentuali dei lettori sono in calo dal 2010, potrebbe essere una casualità che questo sia l’anno del boom nella diffusione degli smartphone e delle piattaforme, tra cui Facebook, ma il dubbio é lecito. (3)

Vorrei quindi sottolineare come il dispositivo psicotecnico di individuazione preminente nell’età moderna, il libro, non si è ancora universalmente diffuso quando viene soppiantato dal dispositivo psicotecnologico del device come registratore e trasmettitore di brevi testi, audio, immagini e filmati. Dal report “Digital 2021”, stilato da We Are Social, emerge che in 97% degli italiani possiede uno smartphone. Siamo connessi per oltre 6 ore al giorno ad internet, e passiamo quasi due ore sui social (il 98% di noi lo fa da dispositivi mobili(4)). Nel mondo a crescere è stato soprattutto il numero di abbonamenti di tipo mobile, portando il totale a 6,3 miliardi (5).

Ora è evidente che un pubblico, diventato recentemente globale, di non lettori di libri, a cui viene presentata una quantità pressoché infinita di contenuti, testuali e multimediali, attraverso la rete e le piattaforme, scelga quelli di più facile fruizione o di argomento più vicino alla propria vita quotidiana. Da qui il successo del social network, in cui i contenuti pubblicati dagli utenti vengono assemblati dall’algoritmo in una specie di giornale delle nostre amicizie.

Le molte facce dell’interiorità.

Il processo di individuazione avviene per tutti, durante lo sviluppo infantile, inizialmente attraverso la prossemica, i gesti, gli oggetti e il linguaggio verbale; poi anche tramite il linguaggio scritto e sempre di più attraverso le immagini, assunte come flusso comunicativo alternativo alla parola. In adolescenza si è più portati a confrontarsi sul piano dell’immagine con gli altri e a temerne il giudizio perché a partire da quello “specchio” che sono le opinioni altrui, si costruisce il proprio <sé riflesso>, ovvero l’immagine di sé stessi che ne risulta (Blakemore 2018, p.23).

La persona adulta riuscirà poi a integrare le varie immagini del sé in una identità abbastanza solida e costante da garantire un certo benessere psichico. Questo lavoro, però non può essere fatto dall’individuo da solo. Le tracce che vengono prodotte nel corso della vita, siano video, foto, testi, ambienti (pensiamo all’arredamento di una camera o di una casa), emergono da una dimensione individuale che si fonde nella dimensione sociale. Anche la personalità più eccentrica e anticonformista, nel momento in cui si confronta con l’ambiente in cui è situata, ne viene fortemente definita, in quanto le possibilità di esprimersi sono sempre limitate a quelle offerte dall’epoca e dal luogo. Ogni oggetto materiale (medium) utilizzato nella comunicazione definisce la relazione fra l’emittente e il suo pubblico nella società, costituendone il messaggio. (McLhuan- Fiore 1967).

Affermando che l'<uso> del medium <non conta>, McLuhan intendeva indicare, con il massimo di carica provocatoria, che gli <idioti tecnologici> non riuscivano a capire quanto ampio pesante e determinato fosse l’impatto dei diversi media nel condizionare la concezione del mondo e l’organizzazione dei rapporti tra gli uomini già a monte dei <messaggi> – tradizionalmente intesi – che essi potevano veicolare(Giovanni Cesareo in: McLuhan 1986, p.16).

La pluralità degli ambienti comunicativi attualmente disponibili e la loro stratificazione contestuale ci pongono di fronte a una complessità inedita, difficilmente gestibile. La ricerca del riconoscimento porta chi desidera appartenere a molti ambiti a separare i flussi di comunicazione e ad adeguarsi ai vari contesti e ai medium utilizzati mostrando in ciascuno le proprie “competenze relazionali” e nascondendo quelle caratteristiche non adeguate o addirittura stigmatizzanti (6). Talvolta l’immensa fatica di controllare contemporaneamente tutti i canali utilizzati lascia trasparire una perdita di coerenza nella comunicazione emessa e quindi una perdita di coerenza nel soggetto stesso. L’esposizione di status e comportamenti incoerenti con la situazione sociale vissuta provoca occasioni di ilarità e disapprovazione, in quanto viene riconosciuta come provocazione nei confronti dell’autorità o una “alienazione dal raggruppamento”(Goffman 1971, p.244), mentre nei casi più estremi viene definita come una forma del disagio psichiatrico (Goffman 1971, p.243).

Con questo obiettivo di rispecchiamento delle aspettative, la persona si impegnerà ad acquisire, nei vari ambiti, esperienze e saperi da mostrare nelle cerchie sociali sotto forma di ritenzioni terziarie. Anticamente poteva essere un linguaggio, un abito, un arma o altro segno di status, oggi molto spesso è una foto che ci ritrae nell’ambiente in cui ci riconosciamo o a cui vorremmo appartenere.

In questo contesto, il fenomeno selfie costituisce un sintomo significativo, che dichiara la supremazia del narcisismo sul riconoscimento dell’altro: é il trionfo dell’ego sull’eros. Il selfie instaura una nuova categoria d’immagini[…] Ma la sua invadente irruzione fra le pratiche postfotografiche va lettta nel senso di una gestione dell’impatto che vogliamo produrre sul prossimo. (Fontcuberta 2017, p.41)

Nei social network le rappresentazioni materiali della nostra memoria, di ciò che siamo e che ci piace, diventano parte strutturante della nostra autocoscienza, guida per le scelte di vita e per il flusso percettivo che ne riceviamo.

La stessa situazione può essere vissuta e ricordata in modo totalmente differente in base allo stato d’animo e a dove si concentra l’attenzione in quel momento.

Oggi è molto comune essere più impegnati a fotografare/riprendere il momento che a viverlo assorbendo il flusso di percezione nella memoria. Ne risulta una modalità di vita, pedissequamente documentata, in cui “la finalità dell’essere ‘sempre più se stessi’, di essere colmati individualmente e collettivamente, si raggiunge aspirando sempre al massimo. L’onnipresenza di fotocamere, schermi e immagini cresce al ritmo di questa smania martellante del sempre di più.” (Forntcuberta 2017, p. 19) Ma cos’é questo sempre di più da raggiungere? Potrebbe sembrare la spinta alla realizzazione completa dei propri desideri ma, come facevano notare Benasayag e Schmit ne L’era delle passioni tristi, “ la nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati. Come dice Guy Debord in La società dello spettacolo, se le persone non trovano quello che desiderano si accontentano di desiderare quello che trovano.” (Benasayag – Schmitt 2004, p.48). L’individuo modulare, prodotto dalla formazione per competenze, ricerca sul libero mercato della vita le esperienze che aumentino, ai suoi occhi e a quelli dell’ambiente sociale in cui vive, il suo valore in quanto capitale umano.

La popolarità dei profili pubblici è direttamente proporzionale alla adesione ad un modello valoriale ed estetico prevalente nel mercato e nella società: bellezza, ricchezza, esperienze esclusive o estreme, relazioni sociali importanti, successi economici e professionali.., man mano che la persona accumula un capitale umano, le ritenzioni terziarie diventano la prova, per il mondo e per la persona stessa, della conquista di quel capitale immateriale e valore a loro volta, nella forma della visibilità. Sempre più spesso si può essere indotti a collezionare esperienze e prove di queste esperienze per ottenerne un riconoscimento, anche solo narcisistico, dello stato di benessere.

Nell’economia libidinale neoliberista, l’individuo isolato, affamato di riconoscimento e amore, cerca sempre di portare a casa un buon affare, senza avere alcuna possibilità di riuscirci.

Nell’ambito del desiderio erotico si preferisce un soddisfacimento controllato delle voglie, che sia nel rapporto monogamico, nell’incontro concordato fra persone che preferiscono rimanere a distanza o nell’appagamento autoerotico della masturbazione arricchita da molteplici supporti, per paura di andare incontro alla sofferenza. Il filosofo Byung-Chul Han in una intervista afferma: “E non é forse vero che quando capita di amare oggigiorno evitiamo le ferite? Non vogliamo essere vulnerabili, evitiamo di ferire e di essere feriti in qualsiasi modo. L’amore richiede un impegno elevato, ma evitiamo questo impegno, perché esso comporta delle ferite. Evitiamo la passione, e innamorarsi ci ferisce troppo.“(7)

Già nei tardi anni ’70 del novecento, Christopher Lasch osservava la tendenza della società statunitense, quella più integrata nel capitalismo, a incanalare nel self-help e in altre mode di cura del sé individuale le tendenze narcisistiche, in aumento dopo la crisi della politica. Oggi il narcisismo sembra esploso diffusamente nelle forme onnipresenti e globali dei social network, dei selfie, della retorica compiaciuta della meritocrazia e del successo, registrando una incidenza molto più alta che in passato delle sue manifestazioni patologiche. (Lingiardi 2021, p.92)

Il narcisismo ci costringe a fare i conti con domande a cui non vorremmo rispondere: valgo qualcosa? Quanto conta per me il giudizio degli altri? Ho bisogno di sentirmi importante? Sono molto invidioso? Uso gli altri per i miei scopi? Li disprezzo, li seduco, li temo? Il mio altruismo è al servizio dell’autostima? Combattendo fin da piccoli con queste domande, spudoratamente e teneramente legate allo sguardo amoroso che (non) ci ha riconosciuto, da adulti possiamo diventare grandiosi, arroganti e privi di empatia. Ma anche timidi, timorosi del giudizio, vulnerabili alla critica, vergognosi di ciò che siamo e invidiosi di ciò che non abbiamo.” (Lingiardi 2021, p.11).

La libertà e l’ambiente nella situazione.

Vorrei qui riportare l’attenzione su un aspetto, a volte poco considerato, degli spazi sia fisici, sia virtuali. Ovvero che gli ambienti e la tecnologia, intenzionalmente o meno, sono sempre anche dei media, dispositivi socio-tecnici di comunicazione che predispongono e facilitano alcune forme della relazione, rendendone impossibili o difficoltose altre. In questo senso Deleuze poteva affermare una corrispondenza fra forme della relazione sociale e dispositivi macchinici, in quanto concatenamenti, perché McLuhan li aveva già accomunati nella sua concezione di medium, descrivendo, ad esempio, la ferrovia (McLuhan 1986, p.26). Parallelamente la scuola esistenzialista ha posto l’attenzione sulla situazione come insieme di caratteristiche ambientali, storiche, sociali, personali, in cui si dispiega la potenza dell’individuo: “Come rapporto individuato e concreto con altri enti, l’esistenza si trova sempre in una ‛situazione’ altrettanto individuata e concreta che in qualche misura la condiziona.“(8)

Un esempio. L’ambiente di una classe scolastica organizzata nella forma tradizionale, é un medium. La cattedra posta sul lato corto di una stanza rettangolare, con a fianco la lavagna (elettronica o meno) e dietro i simboli del potere temporale e spirituale, la fotografia del Presidente della Repubblica e il crocifisso. Per tutta la lunghezza, file di banchi ordinati rivolti verso la cattedra. Il docente, situato nel punto focale, guarda il viso di tutti gli alunni, che vedono solo il docente e la nuca dei loro compagni. Questo ambiente è esplicitamente un dispositivo disciplinare che prevede una forma della relazione deducibile dalla organizzazione dello spazio, oltre che dai ruoli di chi lo abiterà. Altro esempio. La televisione. Situata in soggiorno, nel posto d’onore di fronte al divano, o in camera da letto, permette la scelta di molti programmi ma non di instaurare un dialogo o una interazione anche semplice con i contenuti che vi vengono trasmessi. Funge da stampo, modello, finestra da un punto ai molti: per sua natura é conformizzante, massificante. Per contro le applicazioni di messaggistica istantanea permettono una comunicazione punto punto e aggregata per gruppi, dal punto ai molti in tutte le direzioni. Ogni punto é produttore di immagini, testi, link al web, e recettore degli stessi. Il design é orizzontale, l’organizzazione che ne deriva é collaborativa. Si usa per lavoro, per decidere cosa fare nel gruppo di amici, per organizzare una cena, un evento, un appuntamento. Di contro, perché l’organizzazione sia efficace, ogni gruppo orizzontale ha bisogno di leader perché non rimanga bloccato nell’equivalenza delle posizioni divergenti. In un dispositivo orizzontale, o si parte da un accordo pre-esistente o l’accordo va trovato nel prevalere di una posizione sulle altre. La continua negoziazione di potere avviene all’interno del gruppo con meccanismi di ricerca del consenso e dell’autorevolezza che possono involversi in una continua lotta per la leadership.

Ultimo esempio di medium, il dispositivo social network: rappresenta una vetrina panottica in cui raccogliere followers e da cui comunicare verso una platea di potenziale pubblico. La ricerca del riconoscimento è massimamente incoraggiata da meccanismi di rinforzo, gamification, come il numero di like, interazioni, followers… Pubblico e privato si fondono in una rappresentazione il cui scopo principale è la “vendita” si sé, il marketing personale, verso una incessante rappresentazione del successo e in continua fuga dallo stigma del fallimento, dell’esclusione, della disapprovazione.

L’ambiente qui non determina la natura dei contenuti ma il fatto che dei contenuti debbano essere prodotti e presentati in una certa forma. La scelta di un “pubblico” giudicante, in un contesto di conformismo sociale, condiziona fortemente la situazione, rendendo facilmente il soggetto agente vittima dell’impotenza, per l’impossibilità di determinare le sue azioni in accordo con la propria singolarità, che viene continuamente valutata con approvazioni e critiche. Ecco perché molti, anche della i-Gen, disertano i social. La giovanissima trapper Madame in una intervista ha dichiarato di aver abbandonato gran parte dei social perché “i social non sono per le persone sensibili”(9). Molto del disagio contemporaneo sembra derivare proprio dall’impotenza e dalla disgregazione, le “passioni tristi”(Benasayag-Schmit 2013, p. 14) che animano tutti coloro che non si sentono appagati dalla ricerca del benessere, nell’eterno presente del realismo capitalista (Fisher 2018). Nel suo ultimo lavoro il filosofo Bifo affronta questi stessi temi e in un passo afferma: “La fonte principale della patologia è la competizione nell’area delle relazioni interpersonali, e i sintomi individuali di questa epidemia sono la continua mobilitazione dell’attenzione, la riduzione del tempo disponibile per il piacere, e di conseguenza la solitudine, la miseria esistenziale, l’ansia, il panico, e infine la depressione.” (Berardi 2021, p.64)

Dallo psicopotere al neuropotere.

Nel 2008 Stiegler parlava di psicopotere (Stiegler 2014, p. 218). Nel 2014 Byung-Chul Han, in Psicopolitica, riprendeva gli stessi concetti per chiarire come il potere non fosse più intento all’attuazione di una società disciplinare, ma si fosse appropriato della seduzione e del desiderio, con le tecniche del marketing. L’individuo oggi aderisce liberamente alle esigenze del mercato, attraverso le tecniche del sé di cui aveva già parlato Foucault anni prima. Restiamo però ancora nel campo del desiderio e delle scelte più o meno coscienti. Con l’attuazione compiuta del ribaltamento della persona della modernità, nel profilo ipermoderno, si entra nell’ambito di quello che Stiegler ha poi definito neuropotere. In una delle sue ultime interviste, quella rilasciata a Stefano Simoncini su Rizomatica nel 2020, il filosofo chiarisce questo concetto.

Lo “psicopotere” si riferisce all’epoca delle industrie dei programmi audiovisivi, ovvero le industrie culturali che Adorno e Horkheimer avevano anticipato e i situazionisti come Guy Debord e Henry Lefebvre avevano descritto tra gli anni ’50 e’60.[…]Oggi non è più minimamente il web che costituisce l’orizzonte della rete, ma sono le piattaforme.[…] La grande differenza rispetto al modello delle industrie culturali televisive e radiofoniche é che non viene venduta audience di massa ma comportamenti individualmente controllati. Quello che hai definito “microtargeting” é possibile perchè si sono appropriati di “ritenzioni”, ovvero quello che trattengo nella mia memoria di tutte le attività passate, e delle “protensioni”, cioé le anticipazioni sull’avvenire, quello che vorrei fare, etc…[…] Le tecnologie di grammatizzazione digitale investono perciò una sfera che chiamo neuropotere perché agiscono direttamente sul nostro cervello, cioé influenzano le ritenzioni psichiche, trasformandole e calcolandole, e in questo modo quello che provocano é una vera distruzione della mia individuazione psichica, ovvero della mia singolarità.” (Stiegler – Simoncini, Rizomatica #01, 2020, p. 14)

L’umanità sembra divenire il prodotto del processo automatico che gli ha dato origine. Se l’individuazione é al contempo biologica, psichica e sociale con la costituzione di un io, di un noi e di un apparato tecnico, o psicotecnico, che lega l’io al noi, questo ultimo aspetto va a sovradeterminare le condizioni dell’individuazione. A suo tempo é stata la mediazione psicotecnica della stampa che ha riconfigurato i rapporti fra l’io e il noi, oggi sono i media digitali che attraverso l’individualismo di massa impediscono l’individuazione di massa.”(Stiegler-Petit 2013, pp. 403-405)

Con vocabolario marxista Christian Marazzi, economista vicino al neo-operaismo italiano, sembra arrivare alle medesime conclusioni, come rileva Matteo Pasquinelli.

Dal punto di vista del capitale fisso, continua Marazzi, la conoscenza ha oggi un ruolo produttivo imponente, come il caso delle grandi compagnie di software sta a dimostrare. Rimpiazzando lavoro vivo con lavoro morto, ovvero con nuovi apparati macchinici ‘immateriali’, la conoscenza è diventata una sorta di macchina cognitiva. In questa nuova composizione organica del capitale, continua Marazzi, non è solo la conoscenza collettiva a diventare capitale fisso, ma il corpo stesso dell’uomo. In questo senso, Marazzi descrive l’emergere di un modello antropogenetico di produzione che Robert Boyer chiama produzione dell’uomo attraverso l’uomo (richiamando la più famosa espressione ‘produzione di merci a mezzo di merci’)(10). Questo nuovo modo di produzione è notoriamente, e più prosaicamente, il settore dei servizi, il terziario, tutto ciò che ha a che fare con le soft industries come educazione, sanità, nuovi medie e industrie culturali. All’interno di questo biocapitalismo o ‘fabbrica del vivente’, alla fine Marazzi rende liquida la nozione di macchina e introduce il vivente come capitale fisso.”(11)

Questo vivente diviene macchina produttiva, processore di informazioni, una “risorsa”, un mezzo privo di soggettività, libertà, desiderio proprio. (Benasayag 2016, p.29) Il vivente si trova schiavo senza coscienza della propria schiavitù. Una condizione in parte reale e, fortunatamente, in parte non attuata, con una gradazione variabile nelle mille sfaccettature in cui ogni essere umano e vivente si manifesta.

La trasformazione degli esseri umani in “risorse umane” è una delle principali missioni delle agenzie educative e di formazione tra cui la principale è la scuola, che non tende più a disciplinare, bensì a valorizzare le potenzialità delle nuove generazioni. Cristopher Lasch, già nella metà degli anni ’80 scriveva:

la scuola, con le altre istituzioni del complesso tutelare, insieme riflette e contribuisce a creare lo spostamento dalle sanzioni autoritarie alla sorveglianza e alla manipolazione psicologica (la ridefinizione insomma dell’autorità politica in termini terapeutici), dando origine a una classe professionale e manageriale che governa la società, non mantenendo in vita gli standard morali autoritari, ma definendo un comportamento normale e invocando contro la devianza sanzioni psichiatriche, che vengono fatte passare per non punitive.” (Lasch 1985, p. 35)

L’individuo “normalizzato” può essere così finalmente messo interamente, o in gran parte, a valore come “capitale fisso” immateriale che si affitta sul mercato. L’individuo non vende più la sua forza lavoro a ore ma l’intero suo essere, l’intera vita, in quella che Andrè Gorz chiama una mobilitazione totale (Gorz 2003, p. 17).

L’eccedenza rispetto al prodotto calcolabile.

Ogni persona rientra, per alcuni aspetti e comportamenti, in categorie misurabili.

Questi dati compongono un “profilo”, un modello numerico discreto che ci distingue da chiunque altro ma ci fa rientrare in fasce di quantità contigue. Cosa manca a questi profili per essere descrizioni di persone? Tutto ciò che non può essere misurato, descritto numericamente e archiviato.

Stiegler osserva che già con l’affermarsi della mentalità capitalista, utilitarista,

la modernità è diventata meno la critica come cura critica[..] che la critica come discernimento delle unità discrete, ossia discretizzabili, nel senso aritmetico e algoritmico, le quali diventano così unità calcolabili. In questo ultimo caso la critica è intesa come padronanza attraverso il calcolo – fenomeno che culminerà alla fine del XX secolo con i modelli cognitivisti.” (Stiegler 2014, p. 107)

La statistica è diventata, man mano nei decenni, lo strumento principale conoscitivo della sociologia e della politica. Già dal secolo scorso il modello matematizzato della società, soprattutto dei suoi aspetti economici, si sostituisce come oggetto di indagine alla società stessa e alle persone intese come singolarità non misurabili.

Lo studio quantitativo, cioè misurato, che attualmente equivale a dire scientifico, di comportamenti sociali è la grande sfida dell’intelligenza artificiale che inizia ad essere usata per integrare enormi moli di dati. Questa conoscenza che ne deriva dovrebbe essere di supporto ai decisori politici, che probabilmente ne vengono abbagliati come da una nuova e indiscussa verità. Di fronte al diluvio di dati(12) prodotti giornalmente si tende a dimenticare che questi dati riflettono solo quei pochi fenomeni che il dispositivo sociotecnico, e spesso esclusivamente economico, è in grado e ha scelto di registrare e immagazzinare. Si tende a nascondere il lavoro interpretativo, soggettivo, a volte poco consapevole e arbitrario, di chi fa data science per l’aggregazione e l’interpretazione di quei dati, lavoro quasi sempre commissionato ad aziende private di consulenza con i conflitti di interessi che ne possono derivare (O’Neil 2016 p. 42).

L’intelligenza artificiale, non è affatto intelligente, non può “capire” nulla. Può confrontare enormi volumi di dati numerici ma non può interpretare alcunché. “Se possiamo assimilare gli algoritmi a una serie di calcoli, è chiaro che la possibilità di comprendere non è mai il prodotto o il frutto di una serie di algoritmi, bensì la manifestazione di un’altra funzione di un cervello integrato.” (Benasayag 2016, p. 135). Ci sono alcune caratteristiche tipicamente umane, culturali e fisiologiche, che eccedono la descrivibilità quantitativa e la razionalità logico-matematica. Questi sono probabilmente gli aspetti delle nostre vite che più valgono la pena di essere vissuti e che, ovviamente, un sistema sociotecnologico di captazione ed elaborazione dei dati quantitativi non incoraggia. La comprensione profonda, l’emozione di una esperienza, la gioia e il dolore, la realizzazione di un progetto di vita, l’amore che si può provare e vivere con gli altri, sono alcuni esempi di stati esistenziali che non possono essere tradotti in dati e che, pur attraversando talvolta il flusso digitale di informazione, non ne possono venire catturati. Risulta anche dubbio che questi stati possano essere vissuti in una dimensione che non sia quella della relazione diretta fra i corpi, se non altro con il proprio corpo.

Come ha scritto lo psicoterapeuta Miguel Benasayag in molti dei suoi lavori, più le macchine incorporano parti di intelligenza umana e più l’essere umano perde la sua umanità, perché “nella digitalizzazione l’unica cosa che è possibile modellare sono le dimensioni logico-formali emergenti. Tutto quanto attiene al substrato profondo, presimbolico, preindividuale e non rappresentabile, resta eclissato. Ciò significa che tutto quanto costituisce il fondamento stesso della vita nel caso del cervello, tutto quanto è necessario per il suo funzionamento, viene eclissato in questo monopolio dell’informazione codificata.” (Benasayag 2016, p. 146)

Dal momento in cui l’essere umano incorpora nelle sue appendici tecnologiche, di senso, di memoria ed elaborazione, molte funzioni sociali e cognitive, tra cui la propria individuazione, si ritrova inevitabilmente ridotto nell’espressione delle potenzialità del pensiero eccedente l’aspetto logico-formale, quindi valoriale, critico, pre-simbolico, emozionale, desiderante.

Apocalisse degli intellettuali

A mio avviso le conclusioni disperate di molti teorici “apocalittici” sono un effetto drammatico del disorientamento a cui tutti siamo soggetti. Viviamo certamente un periodo di transizione epocale, in fondo venti o trenta anni sono ben poco nella storia umana, e noi nati in una epoca pre-internet, pre-smartphone, che abbiamo costruito la nostra soggettività attraverso studi superiori basati sulla lettura di libri come bagaglio culturale degli ultimi due secoli, percepiamo questi cambiamenti come una crisi dell’umanità nel suo complesso. (Stiegler 2014, p. 74 -p.101)

Ora mi sembra piuttosto banale osservare come l’aumento esponenziale della informazione prodotta globalmente vada a discapito della sua qualità media ma porti un allargamento della sua distribuzione. Solo un secolo fa era difficile accedere alla conoscenza per mancanza di mezzi materiali e culturali. Oggi l’accesso è quasi universale, l’analfabetismo è minoritario nel mondo (13), che ha raggiunto nel frattempo una popolazione di circa sette miliardi di individui, e l’accesso alle opere dell’ingegno ha un costo sempre minore. Quello che manca é l’attenzione, la motivazione, l’interesse delle masse per il sapere accumulato dalle generazioni precedenti e questa mancanza di interesse è il risultato di campagne di marketing globali che mirano a catturare l’attenzione sul consumo piuttosto che sulla cura di sé e sull’autogoverno dei territori.

Gli indiscutibili vantaggi portati dalla diffusione della conoscenza, in generale, sembrano essere offuscati dai danni culturali della selezione e diffusione di contenuti della conoscenza orientati esclusivamente a profitti misurabili trimestralmente o alla formazione di “capitale umano”. Chi non si costruisce in autonomia un percorso di formazione e individuazione, cercando e scegliendo quegli aspetti del sapere che predilige elettivamente, rimane facilmente preda del marketing delle piattaforme, divenute nel frattempo monopolisti del mercato pubblicitario digitale (14). Le vetrine del web indirizzano, attraverso gli algoritmi, i flussi comunicativi verso comportamenti di acquisto, ma la propensione al consumo deve essere già presente negli utenti come bisogno individuale. L’essere umano prodotto dal mercato globale è il consumatore, che pensa di poter riempire i suoi vuoti comprando oggetti ed esperienze, ma questa condizione è antitetica rispetto al ruolo di cittadinanza (Gorz 2003, p. 47), in quanto forma dell’agire responsabile verso la collettività.

Questa non è una condizione del tutto nuova. Come già lamentavano alcuni filosofi di più di due millenni fa, sembra che i ricchi e gli aristocratici amassero il lusso, gli spettacoli e i piaceri non sentendo la mancanza della conversazione filosofica, della conoscenza e della partecipazione democratica. Riportato ai termini postmoderni, sembra che i frequentatori della “galassia Gütemberg” (McLuhan 2011) anche in formato ormai digitale, siano una minoranza rispetto al pubblico dell’intrattenimento televisivo, ai visitatori dei social network, di Youtube, o di piattaforme di pornografia in streaming.

Alessandro Baricco, da intellettuale integrato pronto a saltare con entusiasmo sul carro dei vincitori, scrisse a puntate I Barbari nel lontano 2006 salutando con favore questa conquista, da parte delle nuove tecniche di cattura dell’attenzione superficiale, che esplora orizzontalmente i nodi di conoscenza mediante il potente algoritmo di Google, delle vecchie fortezze accademiche costruite su bibliografie e approfondimento.

E’ questo un segno dell’apocalisse? Per gli intellettuali novecenteschi sì. Una rivoluzione si è attuata stravolgendo i monopoli del sapere e della cultura, in favore di altri “che producono una nuova umanità” (Baricco 2018, p.17), senza una direzione pianificata. La conquista da parte di grandi aziende innovative del nuovo mercato dell’attenzione è stato, forse, soltanto l’effetto inatteso di nuove possibilità di vendita di servizi, inizialmente deregolamentati, su cui ottenere profitti potendo eludere il fisco e in cui in settore pubblico è stato assente, almeno in occidente, se non per alcune attività istituzionali e il contrasto alla criminalità. Certo, i costi sociali di questa epopea del west, ambientata nella silicon valley, sono sotto i nostri occhi e suscitano paure legittime. Noi Europei siamo le tribù di nativi devastati dai fucili e dall’acqua di fuoco di internet, dell’e-commerce, dei social, del capitalismo di piattaforma. In dieci anni i barbari siamo diventati noi, antiche tribù dalla cultura millenaria conquistate dall’Impero tecnocratico e appiattite su contenuti multimediali che generano milioni di visualizzazioni.

Per fare un secondo parallelo con l’epoca dei pistoleri, osserviamo che, durante la coeva seconda rivoluzione industriale, intorno alla metà del ‘800, nasceva, grazie all’iniziativa privata, il settore delle ferrovie. Dopo mezzo secolo di sviluppo monopolistico, non omogeneo, mirato solo ai profitti e al contempo poco incline all’innovazione e all’integrazione del trasporto, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti come in Italia, le ferrovie sono state nazionalizzate quando ci si è resi conto che era un settore strategico, civile e militare, e che gli investimenti per le infrastrutture dovevano essere attuati anche e soprattutto dove non erano immediatamente redditizi. La statalizzazione del sistema ferroviario é stata decisa in italia nel 1915, negli USA nel 1917 e in Gran Bretagna solo nel 1948. In Francia e Germania le ferrovie nacquero già sotto la spinta delle amministrazioni pubbliche locali e vennero unificate in compagnie nazionali, in Francia nel 1938 e in Germania nel 1939 (15).

Ora, dopo 30 anni di esistenza di internet, sembra che l’Europa abbia deciso di intervenire in modo centralizzato per pianificare lo sviluppo di questo settore strategico, sottraendone l’egemonia alle Big Tech, soprattutto statunitensi, per sviluppare delle infrastrutture autonome con il progetto Gaia-X.(16) Questo progetto di cloud comune distribuito, assieme allo sviluppo dell’edge computing e del 5G, a cui verranno destinanti ingenti fondi anche dal PNRR del 2021 nei prossimi anni, (17) non sembrano voler mettere in discussione le forme della relazione sociotecnica finora sottese alla pianificazione industriale delle tecnologie ICT ma, semplicemente, assumere il controllo politico sulle infrastrutture, per tutelare i mercati interni e per raggiungere l’autonomia strategico-militare.

Come anche auspicato da Stiegler in diversi suoi studi e da molti altri intellettuali che si occupano dei temi della transizione tecnologica, l’intervento del settore pubblico, a direzione politica, nel campo delle infrastrutture tecnologiche appare come un percorso obbligato (Berlinguer 2020, p.36-40)(18). Il luogo del confronto e del conflitto è nel saper affrontare questi temi di interesse comune, che tanto coinvolgono la nostra stessa soggettivazione e ancora di più quella delle generazioni future, affrontandone i termini e le problematiche con una visione che non sia soltanto efficientista ed economicista ma coinvolga il piano dei valori e della cultura nel suo complesso.

Non si tratta di discutere le opportunità delle soluzioni tecniche, ma il dispositivo sociale e psichico sotteso alle politiche industriali implicite o esplicite. Ci stiamo probabilmente appena affacciando su questo nuovo orizzonte della politica, con una evidente carenza di conoscenza del presente e di strumenti per interpretarlo.

Conclusioni

Per la sua pervasività, sembra che il “pensiero unico” definito da alcuni aspetti della modernità occidentale assunti come condizione naturale dello sviluppo, definisca un ambiente planetario di relazioni produttive e riproduttive. Quel “realismo capitalista” nasconde la conquista di tutti i mercati potenziali dietro una presunta normalità dell’individualismo competitivo, dell’utilitarismo dei comportamenti, del pensiero scientifico come misurabilità dei fenomeni, della felicità in quanto benessere e consumo, della diversità come stile di vita e nicchia di mercato.

In ogni parte del mondo, soprattutto le generazioni più giovani, tendono ad assomigliarsi nei comportamenti, nei percorsi di individuazione e ad adeguarsi allo stile di vita e di consumo nordamericano, europeo o giapponese, pur se con una estrema differenziazione di modelli di riferimento. Nella sua indagine sugli adolescenti statunitensi, tradotta in italiano con il titolo Iperconnessi, Jean M. Twenge ci descrive una condizione che accomuna la i-Gen statunitense a quella degli adolescenti di tutto il mondo. Praticamente non esiste un bambino o un adolescente che non sia connesso a internet, non usi un qualche social o non si diverta con i videogiochi, non ascolti musica in streaming o non fruisca di contenuti prodotti per un mercato globale. Quei pochi che non possono farlo aspettano solo il momento in cui potranno avere accesso a queste meraviglie della post-modernità, le rivendicano come un diritto.

Allo stesso tempo, in tutto il mondo sperimentiamo la sensazione di un futuro inesorabile e minaccioso. L’apocalisse climatica, l’espropriazione dell’umano da parte della tecnologia, la fine delle risorse energetiche, la guerra nucleare o più prosaicamente quella tribale o fanatica del terrorismo, le pandemie, la perdita di sicurezza economica per l’assottigliarsi dello stato sociale, etc… Sono tutte minacce incombenti sul nostro futuro che ci fanno sentire impotenti e bisognosi di protezione e di guida, ben felici di cedere parte della nostra libertà residuale a chi pensiamo possa salvarci da tali pericoli. L’io minimo, di cui parlava Lasch negli anni ’80, è questo ritrarsi della soggettività ad un livello di sopravvivenza, incapace di un progetto individuale e collettivo di emancipazione. La persona rinuncia al pieno sviluppo delle sue facoltà in favore di un presunto benessere all’interno delle fantasie del consumo, perchè il “mondo, privo di un esistenza oggettiva e indipendente, […] sembra esistere soltanto allo scopo di appagare o frustrare i suoi desideri (Lasch 1985, p.20).

Pensare che questa condizione di miseria umana, di sudditanza, Bernard Stiegler l’ha definita “proletarizzazione della sensibilità” (Stiegler 2019, p.63), nel senso di una privazione del saper-vivere che sopraggiunge nel benessere, sia il culmine del progresso e pertanto una condizione di equilibrio stabile, sembra piuttosto illusorio. Il senso di insoddisfazione diffuso e i malesseri psichici che turbano le nostre esistenze, apparentemente appagate, sono dei forti moventi verso la trasformazione delle forme della relazione esistenti. Queste forze psichiche si incontrano però con una resistenza che sembra insormontabile, la forza della conservazione, che oggi assume anche connotati progressisti e umanitari, sostenendo gli obiettivi di diffusione del benessere e dei diritti umani, come espansione tecnologica del nostro modello di mercato e di società. Si tende insomma a riprodurre il nostro sistema di relazioni, espandendolo, piuttosto che a trasformarlo includendo i bisogni, anche psichici, finora insoddisfatti.

La proposta curativa e trasformativa di Bernard Stiegler era quella “di lavorare all’elaborazione di circuiti noetici di transindividuazione digitale [..] analizzando non solamente lo stato di fatto, ma lo stato di shock, cioè la specificità epocale della ritenzione terziaria digitale (intrinsecamente e da parte a parte computazionale) epurata dalle sue scorie ideologico-consumistiche.” (Stiegler 2019, p. 149). Ovvero una politica industriale delle nuove tecnologie della comunicazione al servizio del bene comune e del benessere delle persone e non del profitto privato di alcuni. Come furono in passato scuole e biblioteche pubbliche. Assolutamente condivisibile, ma da dove iniziare?

L’obiezione, che sorge ad un pure così nobile intento, è che non si intravede un soggetto sociale interessato a compiere questa impresa, tanto meno un modello socio-tecnico di relazioni di cura da applicare nella costruzione di tali dispositivi di transindividuazione collettiva. La progettualità, anche libertaria, sembra emergere invece sempre e soltanto dalla innovazione del prodotto industriale per il mercato, il nuovo film del 2021 della Disney, Ron, un amico fuori programma (19), ce ne suggerisce un esempio di favola tranquillizzante, ma coglie il problema. Le big-tech stanno plasmando le nuove generazioni a loro uso e consumo.

Se accettiamo il principio fenomenologico per cui “l’esistenza precede l’essenza”, dovrà manifestarsi la possibilità di una forma del vivere emancipata, e quindi ricca di attenzione alla cura delle persone, perché possano emergere le strutture sociali riproduttive di quella forma, ovvero i processi di individuazione dedicati alla trasmissione del sapere di quella nuova cultura.

Tutti i tentativi in atto, che costituiscono nuovi legami sociali emancipativi e forme di organizzazione non strutturate dall’estrazione del profitto, sono quindi preziosi. Dall’analisi di queste realtà ci possono arrivare le mappe di un futuro, già presente in nuce, che supera lo stato di cose presente.

Note

1) Fotografia post-mortem. https://it.wikipedia.org/wiki/Fotografia_post_mortem
2) Fonte ISTAT https://www.istat.it/it/files/2016/01/Lettura-libri_2015.pdf
3) https://www.corrierecomunicazioni.it/telco/cellulari-nel-2010-crescita-a-due-cifre-grazie-agli-smartphone/ https://it.wikipedia.org/wiki/Facebook
4) https://wearesocial.com/it/blog/2021/02/digital-2021-i-dati-italiani/
5) https://tg24.sky.it/tecnologia/2020/03/04/smartphone-mondo
6) “Inoltre sembra possibile che un individuo non riesca a comportarsi nel modo che noi ci aspetteremmo da lui, e tuttavia riesca a non sentirsi toccato direttamente da tale incapacità. Isolato dalla sua alienazione, protetto dalle sue credenze sull’identità, egli si considera un essere umano perfettamente normale e crede invece che siamo noi a non essere umani. Egli porta uno stigma, ma non sembra esserne toccato o provare pentimento per il fatto di comportarsi così.[…] Tuttavia, può darsi che egli senta, e di solito a ragione, che quali che siano le opinioni professate dagli altri, essi non lo ‘accettano’ e non sono disposti ad avere con lui rapporti su un piano di parità. Inoltre i criteri che ha interiorizzato dalla società più ampia lo mettono in grado di essere intimamente consapevole di quelle che gli altri giudicano come sue mancanze. Ciò provoca inevitabilmente in lui, anche se solo in certi momenti, la convinzione di non riuscire ad essere ciò che dovrebbe. La vergogna diventa una possibilità determinante: deriva dal fatto che l’individuo percepisce qualche suo attributo come un marchio infamante, oppure si rende conto con chiarezza di non avere alcuni degli attributi richiesti. E’ probabile che sia la stessa presenza fisica delle persone ‘normali’ a rafforzare la frattura tra l’Io e i requisiti richiesti, ma in realtà anche quando lo stigmatizzato si trova solo davanti allo specchio è assalito dall’odio di sé e dall’autodisprezzo” (Goffman 2003, p. 17).
7) https://tlon.it/byung-chul-han-se-sei-felice-sei-un-illuso/
8) https://www.treccani.it/enciclopedia/esistenzialismo_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/
9) Intervista a Madame “Sopra Le Righe, MADAME” https://youtu.be/DopyxucEYwA
10) https://matteopasquinelli.com/capitalismo-macchinico/#_ftn31
11) (Matteo Pasquinelli, “Italian Operaismo and the Information Machine”, Theory, Culture & Society, 2015, Vol. 32(3). https://matteopasquinelli.com/capitalismo-macchinico/
12) C. Anderson, The End of Theory: The Data Deluge Makes the Scientific Method Obsolete, Wired, Giugno 2008 https://www.wired.com/2008/06/pb-theory/
13) https://tg24.sky.it/mondo/2019/09/06/analfabetismo-funzionale-italia
14)https://www.engage.it/media-industry/il-mercato-pubblicitario-italiano-chiude-a–11-nel-2020.aspx https://www.ilsole24ore.com/art/la-fabbrica-soldi-big-tech-americani-che-borsa-valgono-3541-miliardi-dollari–AEyHepfE?refresh_ce=1 ).
15) https://it.knowledgr.com/00156656/StoriaDiTrasportoFerroviarioInFrancia
16)https://www.bigdata4innovation.it/big-data/gaia-x-cose-il-nuovo-cloud-europeo-e-perche-e-cosi-importante/
17)https://www.zerounoweb.it/cio-innovation/pa-digitale/infrastrutture-digitali-della-pa-nuova-strategia-nazionale-e-prospettive-europee/
18) https://www.transform-network.net/fileadmin/user_upload/2020-01-commons_3.pdf
19) https://disney.it/film/ron-un-amico-fuori-programma

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