Neoliberalismo digitale. Una lettura di Psicopolitica di Byung-Chul Han.

di M. Sommella

L’argomento che tenterò di esporre in questo articolo é il neoliberalismo digitale.

Potrebbe sembrare una definizione cervellotica e complessa ma il termine appare in un libro che ritengo molto interessante, scritto dal filosofo coreano Byung-Chul Han, nato a Seul ma che insegna in Germania, a Berlino, docente di filosofia e studi culturali.

Questo filosofo ha scritto vari libri fra cui uno, dal titolo Psicopolitica, che a mio avviso pone delle questioni molto interessanti. Il sottotitolo di questo libro, è ”Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere”. Quindi è uno studio che unisce dei riferimenti, delle tematiche, che riguardano la filosofia, la storia, la politica, la tecnologia e in alcuni passaggi anche la religione, in sintesi i problemi più gravosi dell‘attuale società digitale.

Byung Chul Han è un autore annoverato fra i cosiddetti “apocalittici“, ossia tra coloro che hanno una visione pessimista, per molti versi, dello stato attuale, del nostro futuro e della società digitale. Il saggio si apre con una domanda: siamo oggi realmente soggetti liberi, non più sottomessi, in grado di autodeterminare ed inventare, attraverso il pensiero e l’iniziativa, la nostra vita? O al contrario siamo ancora più sottomessi e controllati, ma soprattutto siamo ancora più sottomessi e controllati contro la nostra volontà, senza accorgercene?

Seguiamo il suo ragionamento. L’autore si domanda se è veramente possibile che l’essere umano si sia liberato in questi anni da tutti i vincoli esterni del potere e sia invece diventato succube di altri vincoli, che lui definisce vincoli e costrizioni interiori, autoimposte, che ci portano a una imposizione quotidiana di attività. Quindi secondo il filosofo viviamo in una fase, in un’epoca, in cui la stessa libertà teorica che noi abbiamo, la libertà di scelta che viene concessa agli utenti dalle piattaforme, ad esempio, genera delle costrizioni. La libertà, che secondo l’evoluzione storica, non dovrebbe generare costrizioni invece oggi porta a depressione, a burnout, porta a soggetti che in alcuni casi, sono divenuti dei servi assoluti perché sfruttano se stessi, continuamente, senza che ci sia un padrone che possa richiedere questo sfruttamento. Questo sfruttamento subdolo, sarebbe operato dal regime capitalista neoliberale che sfrutterebbe in maniera intelligente proprio la libertà, servendosi di tre aspetti o mezzi fondamentali: il primo sono le emozioni; il secondo il gioco; il terzo è la comunicazione.

Il soggetto, l’utente di un social network ad esempio, viene sfruttato, ma non contro la sua volontà. In altri termini è consenziente a questo sfruttamento, infatti secondo il filosofo il neoliberalismo farebbe del lavoratore un imprenditore, per cui ciascuno sarebbe, in un certo senso, un lavoratore che sfrutta se stesso per la propria impresa personale, per cui, scrive il filosofo, ognuno di noi è nello stesso tempo servo e padrone incarnati nella stessa persona (Han, p. 47).

L’ illusione della libertà digitale

Inizialmente la rete fu salutata come un mezzo di libertà illimitata. Internet e la rete, il cyberspazio, i social network: attraverso questi mezzi, finalmente, l’uomo era in possesso di una libertà nuova, senza confini, senza limiti di espressione, senza nessun controllo centralizzato. Byung-Chul Han sostiene che questa euforia, questa libertà si sia rivelata ben presto un falso storico. Soprattutto oggi si rivela un’illusione, per cui la libertà e la comunicazione illimitata e non condizionata si sono rovesciate in un quadro di controllo totale. Questo controllo è la Psicopolitica.

Nel testo si definiscono i social media come i nuovi panottici digitali. Questa sorta di carceri digitali monitorano lo spazio sociale e lo sfruttano senza remore, per cui saremmo in presenza di un nuovo strumento di sorveglianza globale, molto più efficace perché sfrutta la potenza del digitale e la capacità computazionale degli algoritmi.

Nel capitolo “Biopolitica” si propone una sorta di comparazione tra l’idea dei detenuti del Panopticon originario di Bentam e l’odierno panottico digitale. Mentre i detenuti del progetto benthamiano venivano isolati l’uno dall’altro allo scopo di imporre una disciplina, infatti non potevano assolutamente parlare tra loro, gli abitanti del Panottico digitale, della rete dei social network comunicano intensamente fra loro e soprattutto, sostiene il filosofo, si identificano e si denudano volontariamente. Per cui nell’idea originaria avevamo l’isolamento, nell’idea attuale abbiamo una comunicazione incessante e continua che viene a disegnare un nuovo carcere digitale, un dialogo, tra l’altro, efficace nel rendere il sistema un mezzo di controllo.

Ecco allora la definizione di un nuovo quadro. Creato da utenti, cittadini, carcerati, chiamiamoli come vogliamo, essi contribuirebbero attivamente alla creazione e al mantenimento del loro Panottico digitale. La società del controllo digitale farebbe un uso massiccio della libertà apparente dei cittadini attraverso l’imposizione culturale di “psicotecnologie dello psicopotere” (Stiegler 2009, p. 49), aggiornate grazie all’auto esposizione e all’auto denudamento volontari.

In pratica il grande fratello digitale avrebbe esternalizzato il lavoro di controllo ai detenuti stessi. La divulgazione dei dati non avviene più in modo costrittivo, cioè non si obbligano più le persone, non si indagano, intercettano, torturano, in quanto fornire le informazioni e e diffonderle diventa un bisogno interiore degli utenti. Anche la trasparenza in rete, tanto lodata da più parti, sarebbe finalizzata a rendere ancora più efficace questo sistema di controllo, questo per il motivo che più informazioni e comunicazioni vi sono e più produttività viene portata. Si crea una maggiore accelerazione, una maggiore crescita, del sistema di controllo, una maggior voglia di produrre e diffondere dati che rendono semplici queste modalità di controllo.

Conclude l’autore che, in questo panottico digitale, tutti sorvegliano tutti, ogni utente sorveglia costantemente l’altro, per cui la sorveglianza ha luogo anche senza l’utilizzo di sorveglianti, cioè è gestita dal sistema di comunicazione stesso e dagli utenti, dal sistema di diffusione dei dati, si basa su una sorta di accordo generale tra gli utenti.

L’elettore come consumatore

La psicopolitica digitale è il concetto che dà il titolo al saggio. Con esso Byung-Chul Han sostiene che in un quadro come quello che abbiamo descritto prima il cittadino, ma soprattutto il cittadino inteso come elettore, diventa consumatore. E l’elettore diventato consumatore non ha alcun interesse reale per la politica, né per costruire una società eguale, né per partecipare attivamente all’interno delle attività della sua comunità; reagisce soltanto in maniera passiva alla politica. Lo fa criticando, lo fa lamentandosi, proprio come farebbe un consumatore di fronte a dei prodotti o dei servizi che non gli piacciono, per cui i partiti politici sono diventati dei semplici fornitori di prodotti e il cittadino elettore è diventato un semplice consumatore.

Si pensi a quanto vi può essere interessante in uno scenario simile per il mondo politico, soprattutto in un periodo pre elettorale. Il fatto che gli elettori si espongano di loro spontanea volontà, senza alcuna coercizione, senza alcun obbligo, che diffondano costantemente dati che li riguardano, che i cittadini mettano realmente in rete tutti i dati e tutte le informazioni su loro stessi senza sapere chi sarà a sapere queste cose sul loro conto. Le società preposte alla raccolta dei dati li recuperano, li profilano, li analizzano; in pratica non c’è più controllo su questi dati e secondo l’autore l’idea di protezione dei dati non esiste più, è un concetto obsoleto.

Questo è il passaggio cruciale che segnato l’avvio verso l’era della psicopolitica digitale, un’era che vede il passaggio dalla sorveglianza passiva al controllo attivo e che va a colpire la nostra stessa volontà, nello specifico la volontà del cittadino elettore.

In questo contesto, afferma Byung-Chul Han, i big data diventano uno strumento psicopolitico di enorme efficacia, dal momento che consentono di estrarre una massa di saperi sconfinati sulle dinamiche della comunicazione sociale e soprattutto permettono di elaborare delle previsioni sul comportamento umano. In tal modo il futuro diventa calcolabile e controllabile e i big data annunciano, in un certo senso, la fine della persona come la conoscevamo ma anche, prospettiva inquietante, la fine della libera volontà.

In questo quadro apocalittico, secondo l’autore del saggio, lo smartphone è diventato l’oggetto devozionale digitale, è usato per sottomettere, per destabilizzare, ha la stessa funzione del rosario; lo smartphone e il rosario servono alla sorveglianza, al controllo, del singolo su se stesso, non c’è nessuna differenza, il like è diventato “l’Amen digitale”, lo smartphone un vero e proprio confessionale mobile.

Come reagisce il potere

Sullo sfondo di questo quadro che abbiamo descritto, molto inquietante, ci sarebbe un potere che non deve più usare la violenza ma è invece permissivo, plasmato sulla benevolenza, ha abbandonato l’idea di negatività e si presenta come emanazione di pura libertà. Ciò darebbe origine a una forma di controllo subdola, duttile, intelligente e soprattutto non visibile. Il soggetto sottomesso non è più cosciente della propria sottomissione, il rapporto di dominio resta celato, il soggetto si crede libero perché agisce ogni ora e ogni giorno che passa sugli smartphone e sui social cercando il piacere e la soddisfazione per cui il risultato è che il cittadino-elettore si sottomette da sé. Questo nuovo potere tramite la benevolenza non vuole rendere docili gli esseri umani ma li vuole rendere dipendenti, è un potere più affermativo che negativo, più seduttivo che repressivo, è un potere che si impegna a suscitare emozioni positive e a sfruttarle; chiede e seduce invece di proibire, e soprattutto è un tipo di potere che non si oppone al soggetto ma gli va incontro o le va incontro, lo invita a comunicare continuamente, a condividere, a partecipare, ad esprimere opinioni, a indicare i propri bisogni e le proprie preferenze, a raccontare la sua vita; il like è uno strumento per raggiungere tutto questo.

Cosa c’entra la psiche e cosa c’entra la produzione immateriale? In questo scenario il neoliberalismo non si interessa al corpo delle persone, al lato fisico, ma alla psiche, e vede la psiche come una forza produttiva. Essa è in stretta correlazione con l’apparato produttivo dell’odierno capitalismo e Byung-Chul Han sostiene che, se nella società digitale gran parte della produzione è fatta di oggetti immateriali (informazioni e programmi), ciò implica che per la prima volta ci sarebbe la possibilità di controllare il mondo della produzione attraverso la psiche del cittadino.

Han individua una nuova forma di sorveglianza che ricorre alle emozioni, per cui nel regime neoliberale vi sarebbe l’abbandono dello Stato di sorveglianza o sistema di sorveglianza orwelliano. All’interno di questo panottico digitale c’è una libertà fatta di comunicazione illimitata, per cui non c’è la percezione del controllo, in questo nuovo luogo non si viene torturati ma si viene twittati, si viene postati, soprattutto nessuno si sente realmente sorvegliato. Il regime neoliberale ricorre alle emozioni come risorse per realizzare maggiore produttività e prestazione, dal momento che sono le emozioni che hanno il compito di suscitare stimolo all’acquisto, di suscitare bisogni che trovano una realizzazione immediata proprio all’interno del mondo digitale. Anche il gioco è utilizzato intensamente, la ludicizzazione della vita e del lavoro con un sistema di ricompense simili a quelle correlate ai giochi. C’è una logica di gratificazione che muove questi strumenti di controllo, una logica che funziona attraverso i like, attraverso gli amici, attraverso i follower, attraverso le visualizzazioni. Tutto il sistema di comunicazione sociale oggi è sottomesso alla modalità del gioco.

L’autore sostiene che i big data sono l’elemento principale per attuare il controllo e parla di dataismo (Han 2016, p.88). La sorveglianza digitale è a-prospettica, è libera dalla restrizione prospettica tipica del controllo analogico, fisico; rende possibile la sorveglianza da qualsiasi angolo visuale, elimina tutti gli angoli ciechi, ed è in grado di scrutare sin dentro la psiche del soggetto. Questo tipo di controllo attraverso i dati si basa sulla raccolta di enormi quantità di informazioni, misura tutto ciò che può essere misurato, usa i dati come una lente per filtrare l’uomo e i suoi pregiudizi con lo scopo di arrivare a predire anche i suoi comportamenti futuri.

Questo panorama nuovo e preoccupante appare molto più chiaro se comparato all’epoca dell’Illuminismo. Nel primo Illuminismo era la statistica la disciplina di studio che avrebbe dovuto liberare il sapere dal contenuto mitologico e aprire la strada finalmente ai lumi grazie a un sapere oggettivo fondato sulle cifre. Nel secondo Illuminismo, che sarebbe quello che stiamo vivendo oggi, la chiave del sapere sarebbe la trasparenza dei dati. Questo comporta che tutto debba diventare un dato, un’informazione, fino ad un totalitarismo dei dati o feticismo dei dati che porta a un totalitarismo digitale.

L’Illuminismo nel mondo digitale si è rovesciato in servitù, in strumento di controllo, cioè il secondo Illuminismo è diventato l’età del sapere guidato unicamente dai dati, il Dataismo, per cui non c’è più bisogno di teoria o di una tradizione culturale.

A questo punto servirebbe un terzo Illuminismo che ci possa illuminare sul fatto che l’Illuminismo digitale si è rovesciato in servitù, in uno strumento di controllo.

A questo quadro non certo confortante, Han aggiunge due aspetti: l’aspetto del nichilismo imperante nel mondo dei big data e l’aspetto del quantified self. Il nichilismo significa rinuncia totale al senso delle informazioni per cui cifre e dati vengono assolutizzati, sessualizzati e feticizzati. Il quantified self (Han 2016, p.94) è una sorta di fede assoluta nella misurabilità e quantificabilita della vita che è arrivata a dominare l’epoca digitale, fino a far si che il corpo stesso venga dotato di sensori che registrano i dati. Siamo in un’epoca che raggiunge la conoscenza delle persone attraverso i numeri, ma i numeri, scrive il filosofo, contano ma non raccontano. Oggi praticamente ogni clic, ogni parametro di ricerca che noi immettiamo in rete, viene salvato, ogni nostro passo nella rete viene osservato, attraverso i GPS si conosce ogni nostro movimento, si ascoltano le nostre conversazioni, anche quelle più intime, si tracciano con i pagamenti digitali i nostri movimenti di denaro, i nostri dati biometrici e la nostra attività sportiva. La nostra vita si riflette nella vita digitale e questa società controllata rende possibile protocollare l’intera vita, per cui l’utente-cittadino-elettore viene sorvegliato anche dagli oggetti che utilizza quotidianamente. Han ci parla di una nuova prigionia che ha preso la forma di una memoria totale di natura digitale. In particolare l’autore non può non riferirsi a ciò che è successo durante le campagne elettorali statunitensi, dove i big data e il data mining hanno consentito uno sguardo a 360° sugli elettori, generando dei profili estremamente precisi e favorendo chi accedeva a quei dati sottratti illegalmente (Kaiser 2019).

Se uniamo questa azione al cosiddetto micro targeting, il rivolgersi in maniera mirata ai soggetti tramite la creazione di messaggi personalizzati per influenzarli, lo strumento di controllo diventa completo ed efficace. Questo conduce al titolo del libro, cioè la possibilità di dar vita a una Psicopolitica basata sui dati, che permetta di formulare previsioni su comportamenti dell’elettore, ottimizzare il messaggio a lui indirizzato e modellare la campagna elettorale, o l’intera azione politica, sui singoli individui.

Successivamente Han affronta un altro aspetto, quello dell’inconscio digitale. Visto che i nostri dati sono immagazzinati e leggibili anche il nostro inconscio lo sarebbe e ciò permetterebbe di accedere ai nostri desideri più reconditi, persino a quelli di cui non siamo espressamente coscienti. I big data danno accesso alle nostre azioni ed inclinazioni e la Psicopolitica è così in grado di innestarsi in profondità nella psiche delle persone per sfruttarla ai propri fini.

L’autore evidenzia un’interessante analogia tra big data e videoripresa (Han 2016, p. 100): proprio come una lente digitale, l’azione di data mining permette di ingrandire le azioni umane e di rivelare il campo di relazione dell’inconscio, sino a rendere assai evidenti delle microazioni che si sottraggono alla coscienza della persona. L’idea è che, analizzando i dati delle persone in maniera così accurata, si possano conoscere degli aspetti di cui le persone stesse non si rendono conto, oppure dei desideri che loro stesse non sanno di avere, l’aspetto profondo o pulsionale. L’estensione di questo principio è la possibilità di depredare anche l’inconscio collettivo (Han 2016, p. 101), non soltanto l’inconscio del singolo. In pratica significa la possibilità di poter controllare gruppi di individui e condizionare intere masse.

La conclusione è che la commercializzazione dei dati comporta che dall’idea di Big Brother, grande fratello, si sia passati a quella di Big Deal, grande affare (Han 2016, p. 102), con la possibilità di catalogare gli esseri umani in classi e di escluderli da servizi o beni secondo la loro posizione nella classifica. Tramite queste graduatorie si può arrivare all’espulsione dal Panoptico digitale, cioè al Ban-opticon come lo definisce Didier Bigo (Bauman – Lyon 2015, p. 129), che esclude da servizi anche basilari coloro che vengono collocati in una pposizione discriminante per dei metadati che rendono non meritevoli di essere parte integrante della società.(1)

Come si reagisce, si chiede Han, ad una società di questo tipo? Dove gli esseri umani privi di valore economico diventano spazzatura senza valore. La necessità, conclude il filosofo, è quella di diventare dei nuovi eretici, di rivolgersi alla libera scelta e alla non conformità. La possibilità della nostra libera scelta farebbe saltare il sistema, la possibilità di non conformarsi alle linee guida, alle direzioni nelle quali ci orienta il sistema, è quella che sovvertirebbe il sistema stesso.

L’essere idiota si oppone al potere neoliberale, alla sua comunicazione e sorveglianza totali. L’idiota non “comunica”, anzi: comunica per mezzo del non-comunicabile. Cosí, si chiude nel silenzio. L’idiotismo raggiunge i liberi spazi del silenzio, della quiete e della solitudine, nei quali è possibile dire qualcosa che meriti davvero di esser detto. Deleuze annunciava già nel 1995 questa politica del silenzio, indirizzata contro quella psicopolitica liberale che costringe perfino alla comunicazione e alla condivisione: “Il problema non è piú quello di fare in modo che la gente si esprima, ma di procurare loro degli interstizi di solitudine e di silenzio a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire. Le forze della repressione non impediscono alla gente di esprimersi, al contrario la costringono a esprimersi. Dolcezza di non aver nulla da dire, diritto di non aver nulla da dire: è questa la condizione perché si formi qualcosa di raro o di rarefatto che meriti, per poco che sia, di essere detto” (Gilles Deleuze, “Gli intercessori”, in Pourparler, cit., p. 173.) (Han 2016, p. 125)

Note

(1) Una forma di questa discriminazione avviene già nel Social Credit System cinese https://www.wired.it/internet/web/2017/10/25/cina-punteggio-social-ai-cittadini-2020/

Bibliografia

Z. Bauman, D. Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, 2015.

B. C. Han, Psicopolitica, Nottetempo, 2016.

B. Kaiser, La dittatura dei dati, HarperCollins, 2019.