L’irrealismo capitalista dell’individuo senza società.

di V. Siracusano Raffa

A guardare superficialmente l’evoluzione dei rapporti tra individuo e società si potrebbe pensare che l’individualismo potrebbe aver vinto su tutta la linea. Il sistema capitalistico infatti accentua proprio quest’ultimo e non è un caso: già i massimi teorici del liberalismo classico, Adam Smith e David Ricardo, affermavano che la società è solo la somma degli individui. Nella seconda metà dell’Ottocento è il contributo dei neoclassici a spostare il focus dalle classi ai singoli attraverso l’individualismo metodologico. Questi economisti sono chiamati anche marginalisti perché hanno stravolto le basi dell’economia classica attraverso il principio dell’utilità marginale, cioè l’incremento di utilità che si ottiene con una piccola variazione nella quantità consumata di un bene. Ciò che è importante di questo approccio è proprio lo slittamento dell’analisi a livello microeconomico, perché ponendo al centro il singolo consumatore si dà un’incredibile spinta verso l’individualismo.

Tale spinta verso l’aspetto soggettivo prosegue con la scuola austriaca, cresciuta all’ombra del marginalismo: Von Hayek, tra i più noti suoi esponenti, nonché premio Nobel, nel difendere la superiorità dell’economia di mercato rispetto a quella pianificata sosteneva che l’ordine garantito dalla somma delle azioni individuali determinate dal raggiungimento degli obiettivi dei singoli è migliore di un ordine costruito collettivamente. Anche la svolta keynesiana, che chiamare rivoluzione è nei fatti eccessivo, non ha scalfito evidentemente l’impostazione economica e politica precedente se è vero che, in epoca più recente, col neoliberismo si è ulteriormente rafforzata la concezione individualistica. La signora assoluta di tale approccio, Margaret Thatcher, ha potuto dichiarare, non contraddetta, che “la società non esiste, esistono solo gli individui”. Non è però bastato dichiararlo per rendere reale questo assunto: “è occorso uno sforzo ben maggiore, suo e dei suoi successori, per trasformare quel parto della fertile fantasia thatcheriana in una descrizione sufficientemente precisa del mondo reale visto dall‘interno, dall’esperienza di chi ci vive. Il trionfo del consumismo sfrenato, individuale e individualizzante sulla “economia morale” e sulla solidarietà sociale non era una conclusione scontata. Senza la preventiva opera di “piazza pulita” compiuta da Thatcher non sarebbe stato possibile costruire una società polverizzata in individui solitari e in famiglie in via di disgregazione, né lo sarebbe stato senza i suoi successi nel rendere incapaci di autodifesa e di associazione coloro la cui difesa poteva essere solo collettiva (…) Non è esatto dire che le innovazioni di Margaret Thatcher siano sopravvissute ai governi successivi: in realtà esse sono state messe in questione di rado, e in linea di massima sono rimaste intatte” (Bauman, 2007, pp. 180-181). Non è un caso perché questa visione del mondo è necessaria affinché il capitale prosperi sulle spalle della comunità umana, che atomizzata e ridotta a singole monadi si scopre impotente e indifesa. Eppure stiamo parlando di sviluppi recentissimi e non risalenti nel tempo, mentre sin dalle origini della storia umana è ormai acclarato che l’organizzazione sociale è stata basata per lungo tempo sulla cooperazione, l’attività collettiva e la condivisione dei beni. Si potrebbero citare studi più o meno recenti, dalla paleontologia all’antropologia, però già nel XIX secolo qualcuno era consapevole del ruolo sociale dell’essere umano:

“Come abbiamo già detto, i nostri antenati scimmieschi erano socievoli; è evidentemente impossibile far discendere l’uomo, il più socievole di tutti gli animali, da un progenitore prossimo non socievole. Il dominio sulla natura, iniziatosi con lo sviluppo della mano, ampliò con il lavoro l’orizzonte dell’uomo, ad ogni passo in avanti che veniva fatto. Egli andava scoprendo, di continuo, nuove proprietà, fino ad allora sconosciute, nelle cose della natura. D’altro lato, lo sviluppo del lavoro ebbe come necessaria conseguenza quella di avvicinare di più tra loro i membri della società, aumentando le occasioni in cui era necessario l’aiuto reciproco, la collaborazione, rendendo chiara a ogni singolo membro l’utilità di una tale collaborazione. Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi”. (Engels, 1968)

Fino ad ora mi sono concentrata principalmente sul pensiero economico e sulle sue ricadute sociali perché negli ultimi secoli si è dimostrato capace di determinare in gran parte il mondo in cui viviamo. L’individualismo è infatti strettamente funzionale al capitalismo – è anche al centro della tossica ideologia della meritocrazia – e lo si può rilevare in maniera sempre più pervasiva in ogni ambito della vita umana, dalla retorica del self-made man per cui il successo è un traguardo che si raggiunge grazie ai meriti personali fino alle speculari accuse verso i “perdenti”, unici colpevoli del proprio fallimento personale.

Questo ritrarsi della dimensione collettiva è magistralmente spiegato da Zygmunt Bauman nei suoi testi, ad esempio in Modus vivendi (2006, pp.13-14): “con il progressivo smantellamento delle difese contro i tremori esistenziali, costruite e finanziate dallo Stato, e con la crescente delegittimazione dei mezzi di autodifesa collettiva, come i sindacati e altri strumenti della contrattazione collettiva, a opera della concorrenza del mercato che erode la solidarietà dei deboli, adesso viene lasciato agli individui il compito di cercare, trovare e adottare soluzioni individuali a problemi prodotti dalla società: e tutto ciò devono cercare di farlo tramite azioni individuali, solitarie, potendo contare su strumenti e risorse palesemente inadeguati all’impresa”. In generale Bauman, con la macro categoria di modernità liquida e l’analisi della società dei consumi, presta molta attenzione all’arretramento della funzione della comunità. In Consumo, dunque sono (2007, pp. 164-165), è molto chiaro: “Data la natura di questo gioco, la sofferenza di chi ne viene escluso – un tempo considerata un maleficio riconducibile a una causa collettiva da affrontare e curare con mezzi collettivi – deve essere reinterpretata come segno di un peccato o di un crimine individuale. Le classi pericolose (in quanto potenzialmente ribelli) vengono dunque ridefinite come insieme di individui pericolosi (in quanto potenzialmente criminali)”.

Un ambito in cui è in un certo senso particolarmente devastante l’individualismo capitalista, e pur tuttavia poco esplorato, è quello che riguarda la salute mentale. Così accade che, mentre la società sfuma, da essa si allontanano anche i disturbi mentali, ridotti a questioni unicamente individuali, Ne ha parlato in diversi scritti Mark Fisher, la cui attenzione per il tema non era solo accademica: combatteva infatti con una depressione che purtroppo ha avuto la meglio, portandolo al suicidio nel gennaio del 2017. Egli diceva ad esempio in Realismo capitalista “dobbiamo prendere i problemi di salute metnale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale” (Fisher, 2018, p. 151). La salute mentale è trattata, ci dice Fisher, come un fatto naturale, allo stesso modo del clima. Più compiutamente di questa tematica si trova traccia negli scritti sul blog k-punk, raccolti e ora pubblicati in inglese in un unico volume mentre in Italia si sta procedendo ad una pubblicazione graduale per argomenti, e ad oggi è uscito solo il primo volume dedicato appunto agli scritti politici. Lì si può leggere ad esempio:

La malattia mentale è stata depoliticizzata, al punto che ormai accettiamo senza problemi una situazione in cui la depressione costituisce oggi la malattia più curata dal sistema sanitario nazionale (NHS). Le politiche neoliberiste implementate dai governi Thatcher negli anni Ottanta e poi proseguite dal New Labour e dall’attuale coalizione hanno condotto a una privatizzazione dello stress. Sotto il regime neoliberista, i lavoratori hanno visto ristagnare i salari e farsi sempre più precarie le condizioni di lavoro e la certezza di un impiego”. (Fisher, 2020, p. 157) Quest’ultima citazione è presa da un articolo scritto per il Guardian nel 2012, dall’eloquente titolo Perchè la salute mentale è un problema politico. Lì riprende le posizioni del terapista radicale David Smail, il quale sostiene che quasi tutti gli approcci alla terapia hanno una stretta consonanza con il principio cardine del thatcherismo sull’inesistenza della società.

È un argomento ampio: chiunque si sia confrontato direttamente o indirettamente con la questione della salute mentale sa quanto pregiudizio circondi la malattia, e buona parte dei preconcetti è dovuta proprio al frame dentro cui ci troviamo tutti immersi, quello del realismo capitalista. L’individualizzazione e l’isolamento in cui normalmente ci troviamo colpisce ancor di più i soggetti più fragili, che subiscono anche lo stigma della colpa della propria condizione. Si tratta di una questione di approccio generale, perché non avviene solo nel campo della salute mentale: circoscrivere il problema alla sola dimensione individuale impedisce di osservare la cornice, le cause ulteriori, l’elefante nella stanza. E come ci insegna Lakoff, infatti, gli esseri umani, fisicamente attraverso i circuiti neuronali, pensano per metafore e frame. Se non si riesce a decostruire la cornice dominante, l’individualismo, il realismo capitalista, sarà impossibile anche solo pensare di poterlo superare. Proprio questo è un motivo ulteriore per riaffermare con forza che le domande, e necessariamente soprattutto le risposte, devono essere collettive, oppure non sono. Perché la società esiste e dobbiamo essere noi i protagonisti, insieme, e plasmarla secondo i nostri bisogni e desideri.

Bibliografia

Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, 2007.

Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, Laterza, 2006.

F. Engels, Dialettica della natura, citato in A. Woods e T. Grant, La rivolta della ragione, AC Editoriale, 2006, consultato all’indirizzo https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/filosofia-e-scienza/491-12-il-ruolo-rivoluzionario-del-lavoro-nell-evoluzione-umana-materia-vita-e-intelletto in data 13/09/2020.

M. Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. k-punk/1, Minimum Fax, 2020.

M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, 2018.

G. Lakoff, Non pensare all’elefante. Come riprendersi il discorso politico, Chiarelettere, 2019.