Territori laboratorio per una economia politica “ipermaterialista”

Strategie post-pandemiche contro il neuropotere delle piattaforme

Intervista “pre COVID-19” di S. Simoncini a B. Stiegler

«Il periodo moderno è l’età dello sfruttamento organizzato conseguente e illimitato: dello sfruttamento delle risorse naturali, dello sfruttamento dei cosiddetti popoli primitivi assoggettati, e infine dello sfruttamento sistematico del cittadino», Norbert Wiener, Introduzione alla cibernetica

Questa è una breve premessa che non si propone come una introduzione alla figura e al pensiero di Stiegler. Troppo ardua l’impresa per un non filosofo come me, perché troppo stratificata e ramificata la sua biografia intellettuale, il suo profilo umano e filosofico. Provo soltanto a tracciare l’incipit di alcune possibili piste che facilitino un’esplorazione del paesaggio mentale che si squaderna in questa intervista. Perché diciamolo, è un’intervista a tutto tondo. E diciamo anzitutto, come prima pista possibile, che una caratteristica saliente del suo paesaggio filosofico è la centralità dell’imperativo marxiano, quello delle “Tesi su Feuerbach” secondo cui i filosofi dopo aver “variamente interpretato il mondo” sono chiamati a “trasformarlo”.

L’idea di realizzare questa intervista nasce dopo aver assistito a tre sue recenti conferenze romane, tenute in successione all’Accademia di Francia, al Macro e all’università Roma Tre, le ultime due per iniziativa del collettivo “Red Mirror”. Potrebbe essere una circostanza casuale ma non lo è. Le tre classiche istituzioni culturali dell’Occidente, accademia, museo e università, costituiscono effettivamente la sfera pubblica in cui si dispiega prioritariamente il pensiero di Stiegler. Questa notazione di contesto non è secondaria, e va tenuta presente insieme alla vocazione marxiana alla praxis trasformatrice, e mette in luce una contraddizione su cui varrà la pena soffermarsi.

Il cuore della sua speculazione è simondoniana, cioè tutto muove dalla concezione della tecnica come principio d’individuazione originario per l’uomo. La tecnica non è strumento ma ambiente che definisce in chiave relazionale l’umano, e non esiste un’essenza dell’umano che prescinda dalla tecnica, in ragione di una coevoluzione costante a partire dalla ominizzazione.

Io stesso ho scoperto Stiegler a partire da un suo saggio su Gilbert Simondon, altro filosofo della tecnica francese da cui sono germinati Baudrillard, Deleuze e lo stesso Stiegler.

Eccone un estratto stupefacente:

Oggi, nell’epoca dell’industrializzazione della memoria e di ciò che chiamiamo i media (tanto analogici quanto digitali), l’ambiente associato informatico che diviene lo spazio pubblico mondiale, attraverso i fenomeni di velocità di cattura, di trasmissione, di calcolo e di trattamento (di segnali analogici o digitali), influenza la capacità d’anticipazione stessa dell’uomo in maniera radicale. […] Questa costituisce senza dubbio una trasformazione radicale del politico come tale. In un altro modo, l’ergonomia ‘conviviale’ delle interfacce informatiche tende ugualmente a integrare funzionalmente i comportamenti dell’utilizzatore in una specificazione dinamica del software o del sistema utilizzato. La genesi degli eventi stessi si trova così funzionalizzata dal sistema tecnico-informazionale, in un formidabile complesso trasduttivo”(1). Trasduzione, come spiega lo stesso Stiegler, è la “relazione dinamica che costituisce i termini messi in relazione (i termini non esistono fuori della relazione, e dunque l’uno non può precedere l’altro)”, e ancora, è la “propagazione di un’operazione tra due termini costituiti come tali dall’operazione stessa”.

E’ stata una folgorazione. Nel 1993 qualcuno era in grado di avere questa capacità di analisi proiettiva che sfiorava la preveggenza. Com’era possibile?

In un’epoca in cui la tecnica sta trasformando tutto, e non per il meglio, possiamo dirlo, avere un filosofo a portata di mano capace di cogliere e spiegare la portata di questa trasformazione fin dalle sue origini non è irrilevante. E allora non mi spingo troppo oltre, se non per segnalare alcuni riferimenti concettuali da tenere presenti, e uno spunto critico che occorrerà approfondire su quella che a mio parere è una contraddizione di fondo del suo pensiero.

Prima una questione di stile, di forma inscindibile dal contenuto. Il suo stile speculativo è metaforicamente associabile alle grandi traiettorie concentriche del volo di un rapace. Grandi digressioni circolari che inglobano di tutto in termini di materia grezza intellettuale, ma con una logica geometrica che converge dinamicamente su un punto e lo afferra violentemente. E l’insieme dei punti afferrati disegna una struttura solida, essenziale, quasi scabra.

Ed ecco la struttura. Anzitutto la centralità del processo di “grammatizzazione”, che discretizza, frammenta la materia prima della conoscenza, il linguaggio, consentendo l’apprendimento e il riuso dei saperi trasmessi. Questo processo di grammatizzazione si apre con l’invenzione dell’alfabeto e della scrittura e arriva fino all’informatica. Il problema drammatico che egli descrive è la capacità assunta dall’ambiente informatico, grazie all’intelligenza artificiale delle grandi piattaforme, di grammatizzare e discretizzare gli stessi comportamenti umani, implicando una proletarizzazione materiale e immateriale della società. In che senso?

Le piattaforme demoliscono definitivamente il sistema keynesiano automatizzando e frammentando il lavoro, e sottraggono saperi dai contesti di vita e dalle relazioni umane. Il paradosso spesso raccontato da Stiegler, è che anche l’ex presidente della FED Alan Greespan può essere tecnicamente considerato un proletario quando, dopo il crack del 2008, racconta al Congresso che la responsabilità della catastrofe è da attribuirsi a “the whole apparatus of computerized formalization and automated decision-making”. L’episodio dimostrerebbe che esiste un problema di conoscibilità del sistema che rende tutti in vara misura “alienati”, e quindi in un certo senso proletari.

Se tutti sono diventati proletari significa che nessuno più è proletario nel capitalismo cognitivo?

Meno geometrica e solida appare, a mio modo di vedere, la pars costruens del pensiero stiegleriano, che si sviluppa intorno al problema centrale della ricostruzione del politico in assenza di lotta di classe.

Perché da qui in avanti egli diverge più sensibilmente con l’Italian Theory e in particolare con Toni Negri, con cui ha in ogni caso moltissimi punti in comune a partire dalla condivisa matrice deleuziana.

La proletarizzazione radicale determinata dal capitalismo di piattaforma contraddice e compromette l’idea di un processo spontaneo e necessario che libera e soggettivizza il general intellect da cui il capitalismo cognitivo estrae valore. L’algoritmo e i big data, affermando il paradigma del controllo discretizzante dei comportamenti, demoliscono ogni principio di individuazione e soggettività. Non sfugge neanche il modo di produzione collaborativo dell’open source a questa dinamica. Ma egli va anche oltre, attaccando l’idea del conflitto di classe alle fondamenta, in quanto sostiene che la dialettica è un errore, e che il conflitto è elemento costitutivo della vita come possibile tensione al miglioramento.

Qui tuttavia la contraddizione, perché stando alla sua analisi “destruens” non si dà più questo conflitto costitutivo, nell’asimmetria di potenza determinata dalle piattaforme. La ricostruzione del politico non sembra poter avvenire “dentro” la società, ma sempre a partire da una sua “formazione” prodotta dall’alto, dalla cosiddetta società istituita. Ma se questa società istituita è già in ogni caso compromessa dalle “istituzioni algoritmiche” (non è questa una sua espressione), come si può dare questa “formazione”?

In questa contraddizione subentra il piano del territorio come spazio (sempre ibridato con il digitale), da sottrarre alla dinamica espropriante della spazialità delle piattaforme, e la questione della trasformazione del lavoro svincolato dal reddito ma ricostruito sulla base di un rinnovato sapere territoriale. Qui è il punto a mio parere più interessante e fecondo della pars costruens di Stiegler, nonostante le contraddizioni sul piano politico. E proprio qui mi fermo, per far parlare lui, e per lasciare a voi la scoperta del versante più impervio e inesplorato del suo paesaggio mentale.

Stefano Simoncini

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Signor Stiegler, mi perdoni se faccio una breve premessa di inquadramento al tema generale del capitalismo di piattaforma, su cui vorrei incentrare il nostro confronto a partire da una ricostruzione della sua genesi, per poi procedere a una riflessione su quali siano le possibilità e le traiettorie per un suo superamento.

Il caso Snowden (2013) e quello di Cambridge Analytica (2018) sono le vicende esemplari che hanno mutato la percezione delle nuove tecnologie, minando in parte l’ideologia “digitalista” della Silicon Valley. La loro gravità induce a interrogarsi sul perché il mondo abbia impiegato così tanto a comprendere il lato oscuro della rivoluzione digitale, le gravissime insidie per la democrazia che essa stava covando nel suo seno. Come entrambi sappiamo bene questa nuova dimensione di governo del sociale, le piattaforme digitali, non rappresentano soltanto una minaccia per la democrazia, ma stanno determinando delle trasformazioni radicali nelle strutture stesse dell’individuo e del sociale.

Tra le manipolazioni compiute da Cambridge Analytica vi è quella commissionata dal “falco” neocon John Bolton a sostegno di un intervento militare contro l’Iran. Sembra quasi che, come preconizzato da Baudrillard, grazie alle nuove tecnologie il mondo sia sempre più rappresentazione e simulacro. E questo nella sfera politica. Ma il “behavioral microtargeting” realizzato da Cambridge Analytica si fondava su modelli che gli operatori definiscono “psicografici”, ovvero criteri di classificazione psicosociale messi a punto a partire dalle ricerche del Cambridge Psychometrics Centre della Cambridge University. E questi criteri vengono in ogni caso strutturalmente applicati ai comportamenti quotidiani delle persone. Lei parla di “psicopotere” da molti anni, e sarei curioso di capire meglio in che modo questo concetto si distingua dal biopotere foucaultiano, immaginando che la sua dimensione ecceda la sfera politica e anche quella sociale, per aderire alla vita dell’individuo. Ma constatato tutto questo, una domanda fondamentale è: com’è potuto accadere? Lei ha descritto in tempi non sospetti l’originarietà della tecnica nei processi di individuazione dell’umano e del sociale. Si può descrivere sinteticamente una fenomenologia complessiva di questa relazione nei diversi piani in cui si realizza? In che modo l’ICT dopo aver progressivamente automatizzato la produzione, oggi attraverso social media, cloud computing, gig economy, e-commerce, sta realizzando l’automatizzazione della società in una sorta di “megastruttura” organica, come l’ha definita Benjamin Bratton?

Mi accorgo che in modo del tutto involontario sto già adottando alcune sue categorie interpretative nel farle le domande… Troppo facile forse così, ma la lascio parlare.

Il Web per me non si può più considerare il Web. Lo sostiene anche Tim Berners Lee, il Web è stato distrutto da quelle che noi definiamo le piattaforme. Questo punto secondo me è fondamentale. Il “WWW” era fondato su una libertà editoriale che le piattaforme, gli smart phone e i social media soprattutto hanno distrutto da 10 anni a questa parte. Ma ci torno tra poco…

Per cominciare da Baudrillard, io credo che a partire dagli anni ’70 con Le Système des objets, e poi in Pour une critique de l’économie politique du signe – anche se su quest’opera ho alcune riserve legate a una visione molto ingenua in relazione al concetto di desiderio -, egli abbia identificato molto presto e prima di ogni altro alcune cose molto importanti, tra cui soprattutto la questione degli oggetti, che interpreta a partire da Gilbert Simondon – Baudrillard era un lettore di Simondon, un lettore tradizionalmente marxista, molto più marxista direi di Gilles Deleuze, che cita anche lui Simondon nello stesso periodo ma su basi molto differenti. Credo però che le questioni che Baudrillard solleverà in lavori molto più recenti, tra cui il famoso commento all’11 settembre 2001 sul tema del simulacro(2), siano al tempo stesso giuste e imbarazzanti, nel senso che io non potrei mai farle mie in quella stessa forma, perché ritengo che c’è un momento in cui Baudrillard filosofo e sociologo accademico di grande qualità, molto originale e grande lavoratore, ma anche audace e coraggioso, diventa un saggista più che un ricercatore, e si mette a speculare in forme, diciamo un po’ frettolose… E non dico questo per fargli un processo ma perché dietro queste critiche ci sono poste in gioco molto precise, soprattutto in relazione alla questione della fenomenologia e alla questione della grammatizzazione, un processo che lui non ha mai in alcun modo teorizzato, su cui torneremo tra poco. Con Foucault il problema è simile, con le dovute distinzioni ovviamente – se è vero che Foucault non diventerà mai un saggista perché resterà sempre nel solco di un fortissimo rigore accademico, nella accezione migliore del termine, un rigore che ho sempre ammirato anche quando mi trovo in disaccordo con lui. La difficoltà di Foucault secondo me è legata alla sua relazione problematica con l’antropologia, ma anche con la psicanalisi e la fenomenologia. Inizialmente egli intendeva costruire un nuovo genere di antropologia, sentendosi molto vicino a Binswanger, e quindi a Freud, ed è stato uno dei primi lettori di Heidegger in Francia. Il suo pensiero perciò si sviluppa a partire da questi movimenti, ma tra metà anni ’50 e anni ’60, come Derrida, egli rompe con queste fonti e si confronta con qualcosa di completamente nuovo che si rivela straordinariamente fecondo, e lo porterà a sviluppare negli anni ’70 il concetto di biopotere. Un concetto molto interessante ma che trovo attualmente inadeguato, e quando dico questo mi riferisco più che a Foucault alle imitazioni dei foucaultiani, che continuamente tirano in ballo il concetto di biopotere senza rendersi conto che dagli anni ’70 a oggi ne sono successe parecchie di cose. Foucault stesso, nella sua analisi critica del neoliberismo(3), dice pochissime cose a proposito del marketing. Quando viene intervistato su questo argomento da Michelle Perrot(4), quello che risponde è veramente povero, non è all’altezza dell’argomento di cui sta trattando. A questo proposito, con la definizione di “psicopotere” io intendo la maniera in cui la “grammatizzazione analogica”(5), quella che con Adorno e Horkheimer possiamo definire industria culturale, produce massificazioni per determinare pubblici e comportamenti di massa a servizio del marketing e in funzione della creazione di economie di scala nell’economia industriale neoliberista. Questa è infatti diventata soprattutto un’economia consumista fondata sulla crescita illimitata e a tutti i costi dei consumi, e dunque anche una crescita dei problemi ambientali. Un nesso che nessuno vede, né Foucault, né Deleuze – e anche io non l’ho compreso subito con lucidità, per quanto l’abbia descritto una prima volta in La tecnica e il tempo. In ogni caso per me oggi la questione dello “psicopotere” – di cui ho parlato molto negli anni 2000 – è divenuta una questione di “neuropotere”. Lo “psicopotere” si riferisce all’epoca delle industrie dei programmi audiovisivi, ovvero le industrie culturali che Adorno e Horkheimer avevano anticipato e i situazionisti come Guy Debord e Henri Lefebvre avevano descritto tra gli anni ’50 e ’60. Essendo dei marxisti, e perciò dialettici materialisti che credevano nella potenza del negativo, i situazionisti ritenevano che la finalità delle industrie culturali era quella di alienare le masse dal punto di vista comportamentale per neutralizzarne la potenza negativa.

Questo scenario è poi radicalmente mutato soltanto nel corso degli anni ’90, quando è comparso il World Wide Web appunto, che ha reso possibile una molteplicità di processi di demassificazione nei quali io stesso ho riposto molta fiducia. Non a caso in quel periodo ho assunto la direzione dell’INA(6), quando mi è stata proposta ho accettato proprio perché ero convinto che il WWW avrebbe trasformato le industrie culturali in un vero strumento di costruzione del sapere, uno strumento cognitivo e culturale. E ho continuato a pensarlo, ma purtroppo non ci sono state politiche culturali europee che si siano fatte carico di questa finalità, nonostante il vantaggio molto significativo che aveva in questo settore dell’Europa, su cui torneremo in seguito.

Perché, cosa succede oggi?

Affermo questo perché oggi non è più minimamente il Web che costituisce l’orizzonte della rete, ma sono le piattaforme. Facebook ad esempio non passa per il Web, il Web è eventualmente un punto di accesso per andare su Facebook, ma oggi la maggior parte della gente va su Facebook per cercare informazioni senza utilizzare il Web in quanto tale. E la finalità delle piattaforme come Facebook, Amazon e Google è quella di costituire un sistema di servizi integrati che soppianta il WWW e governa assolutamente tutto. La conseguenza è che hanno prodotto un nuovo modello economico definibile “data-economy”, nel quale le piattaforme guadagnano soldi convertendo tutte le informazioni in dati processabili. L’obiettivo di questi calcoli è vendere audience come all’epoca delle industrie culturali. La grande differenza rispetto al modello delle industrie culturali televisive e radiofoniche è che non viene venduta audience di massa ma comportamenti individualmente controllati. Quello che hai definito “microtargeting” è possibile perché si sono appropriati delle “ritenzioni”, ovvero quello che trattengo nella mia memoria di tutte le attività passate, e delle “protensioni”, cioè le anticipazioni sull’avvenire, quello che vorrei fare ecc. Tutto questo è passato sotto il controllo dei social network e può essere molto facilmente manipolato, per una ragione molto semplice, che è la seguente. I sistemi funzionano a una velocità milioni di volte superiore alla nostra nel trattare i nostri stessi dati. Se ad esempio interagisco con Google o con Amazon, per cercare un articolo o comprare un libro, Google ha dati sui miei comportamenti da più di vent’anni, ed è capace di processare queste informazioni con metodo statistico e calcoli delle probabilità 3 milioni e 100 mila volte più velocemente di me. Un data center infatti funziona a due terzi della velocità della luce nelle sue analisi, mentre il mio sistema nervoso funziona a una velocità di conduzione di 60 m/s. Quindi il sistema va più veloce di me, mi precede e conseguentemente mi prescrive i comportamenti.

A questo proposito, in che senso parla di “discretizzazione”?

Per fare un esempio, Facebook ci sollecita a postare contenuti, messaggi, foto, o suoni, che vengono convertiti in determinati formati di dati e devono essere caricati attraverso quelle che nel mondo della documentazione elettronica si chiamano “maschere di input”, in modalità che sono definite dagli standard di Facebook, Amazon o Google. Ora questi standard sono discretizzati, perché così ci è imposto, anche se non ce ne rendiamo conto, ed è concepito per essere calcolabile, ma questo genera un problema rilevante, perché in linea di principio ciò che determina chi siamo è qualcosa che non è calcolabile, perché noi non possiamo calcolare noi stessi e il nostro inconscio non calcola, ma desidera, che è radicalmente diverso. Divenire un essere sociale significa trasformare un desiderio individuale, che non è calcolabile, in un desiderio condiviso con altri, ad esempio in quanto artisti, o come madri di famiglia, come militanti, come cittadini, un processo che è definibile “transindividuazione”. Le tecnologie di grammatizzazione digitale investono perciò una sfera che chiamo neuropotere perché agiscono direttamente sul nostro cervello, cioè influenzano le ritenzioni psichiche, trasformandole e calcolandole, e in questo modo quello che provocano è una vera distruzione della mia individuazione psichica, ovvero della mia singolarità. Felix Guattari definiva “dividualizzazione” questa dinamica: da individui diventiamo “dividui”. Guattari aveva intuito tutto questo nel 1989, non esisteva ancora il Web, ma lui aveva compreso questo per deduzione, ed è su questa base che Gilles Deleuze ha concepito le società di controllo, a partire dall’intervista con Toni Negri e in seguito nel Poscritto sulle società di controllo. E questo implica non tanto una manipolazione politica, bensì soprattutto una manipolazione commerciale, perché il fine è anzitutto di manipolare i comportamenti nell’orizzonte del mercato, per renderli calcolabili. Ed è un proposito coerente con le teorie neoliberiste che ritengono che soltanto il mercato è razionale perché soltanto il mercato è calcolabile. Ciò tuttavia presupporrebbe che tutti i conservatori facciano calcoli ogni volta che fanno una scelta, che è assolutamente falso. Non fanno alcun calcolo, perché la verità è che sono influenzati da gente che fa dei calcoli, e non è per niente la stessa cosa. Sono condizionati da macchine di calcolo, quelli che chiamiamo algoritmi, perché queste macchine funzionano in tempo reale e su scala planetaria, mediante i big data – parliamo di calcoli parallelizzati capaci di processare immense quantità di dati alla velocità della luce e su scala planetaria. È su questo che s’innesta la manipolazione politica, di cui Cambridge Analytica è la faccia emersa, perché vi è una parte immersa che non si vede, ed è estremamente importante, il cui principale riferimento è Peter Thiel, uno dei primi ad aver concepito questo sistema. Thiel è il fondatore di Paypal, primo investitore di Facebook e consigliere personale di Donald Trump, un liberista di estrema destra. E i veri liberisti sono sempre di estrema destra, perché ritengono che bisogna eliminare la politica. E l’estrema destra è sempre a questo che in qualche modo vuole arrivare, perché ritiene che il popolo è sempre immaturo e pericoloso e bisogna controllarlo con ogni mezzo, ivi compresa la repressione più brutale. Quindi l’altra questione oltre a quella dei big data è quella dei liberisti.

A questo proposito, qual è il suo parere sul rapporto tra l’ascesa della destra e l’uso della rete in Italia?

In Italia questo rapporto è un po’ particolare perché com’è noto sia i 5 stelle sia Matteo Salvini hanno sviluppato una intensa pratica delle reti. Salvini si ispira sicuramente molto a Trump, mentre i 5 stelle si muovono su un piano un po’ differente. Inizialmente nel movimento vi è una forte componente derivata dalla sinistra libertaria, in una situazione generale che in Italia vede l’autorità pubblica totalmente screditata. Queste circostanze hanno indotto a una pratica delle reti piuttosto originale credo.

Torniamo per un momento al “neuropotere” delle piattaforme. Parafrasando uno dei suoi ultimi volumi, si può affermare che esso stia determinando l’automazione della società nel suo insieme?

Sì ma a livello individuale. Anche l’intenzione di Berlusconi è la prescrizione comportamentale, ma a livello di massa, mentre qui sono gli individui ad essere controllati, ed è qualcosa che determina la possibilità di operare manipolazioni politiche molto mirate attraverso conoscenze psichiche simili a quelle utilizzate da Cambridge Analytica. Come ad esempio la psicometria, che studia la possibilità che gli individui si comportino come capre, cioè in modo mimetico. Peter Thiel ha seguito a Stanford i corsi di René Girard, cioè colui che ha teorizzato il desiderio mimetico. E questo è un nuovo stadio della grammatizzazione, che ha come scopo semplicemente quello di far scomparire ogni autorità politica e tutta la società civile per sottomettere quest’ultima a modelli di calcolo comportamentale che permette di controllarla integralmente.

Potrebbe descrivere più dettagliatamente come a suo parere sia avvenuto il passaggio da internet al web e da questo al sistema delle grandi piattaforme? Si tratta di una rivoluzione seguita da una controrivoluzione?

Agli inizi c’è Internet, che si sviluppa alla fine degli anni ’60 negli Usa e diventa uno strumento strategico dell’esercito americano, diciamo scientifico-strategico, perché a un dato momento l’esercito americano apre internet alle università americane con l’obiettivo ovviamente di trarre il massimo vantaggio dalla ricerca scientifica, e il rapporto tra esercito e università negli Usa è una lunga storia molto interessante che andrebbe ricostruita. Quindi dobbiamo considerare che l’internet esiste dalla fine degli anni ’60 e le questioni di cui stiamo parlando sono legate a un processo che comincia negli anni ’90. Perciò mi preme ribadire che il problema non è Internet, perché Internet esiste da molto tempo e non ha generato i processi di cui stiamo parlando. Quando si afferma questo, come ha fatto Fred Turner sostenendo che tutto è cominciato con il consumo di LSD di Steve Jobs e con gli hyppies in California, non è del tutto falso ma è sicuramente una distorsione. È certamente esistito Steve Jobs, c’è stata gente che prendeva la mescalina o l’LSD, come d’altra parte facevo anche io in quel periodo, ma non è tutto questo che costituisce l’origine della rivoluzione digitale. Perché all’origine della rivoluzione digitale c’è il World Wide Web, e prima che esistesse il WWW, Internet non era accessibile al pubblico, anzitutto perché l’esercito americano non dava accesso al pubblico – anche se alla fine degli anni ’80 l’esercito americano ha aperto Internet alle università europee per integrarle in una politica di soft power. Internet non consentiva assolutamente quello che consente il Web, permetteva soltanto di inviarsi dei messaggi, niente di più. Mentre il WWW ha consentito di creare siti, pagine web, ha “editorializzato” la rete. E il web è stato concepito tra 1989 e 1993, quando lavoravo anche io allo sviluppo di sistemi analoghi insieme a ricercatori che erano in contatto diretto con il team di Tim Berners Lee, con cui ho anche lavorato. Il web aveva il principale obiettivo di contrastare il fenomeno che si sta affermando oggi con i social network, cioè proteggere la diversità dei punti di vista – mentre oggi quello che chiamiamo Web non è più minimamente il Web, è la rete delle piattaforme, un sistema concepito con l’obiettivo di standardizzare e unificare i comportamenti. Ed è perciò l’esatto contrario. Ne consegue che non è il Web che determina i problemi di cui stiamo parlando, ma è la sua distruzione. Ora, io ho fondato nel 2005 un’associazione che si chiama “Ars industrialis”, che ha come sottotitolo, che in Francia definiamo “ragione sociale”, “associazione europea per una politica industriale delle tecnologie dello spirito”. Tra le convinzioni fondamentali di Ars industrialis, vi è quella che il Web, come Internet, come i software, come un martello, come la bomba atomica, come le medicine o l’LSD o qualsiasi altra cosa rappresenta un “pharmakon”, e che dunque bisogna avere una politica, e se non ci sarà una politica si arriverà necessariamente a un’alienazione di massa.

Nel precisare cosa intende per pharmakon, può spiegare in modo più articolato quale processualità immagina da un punto di vista politico, e a quale blocco sociale o realtà istituzionale la riferisce?

Il concetto del pharmakon è rivolto principalmente contro un punto di vista che reputo naif, il quale postula che il cosiddetto “capitalismo cognitivo” avrebbe necessariamente generato una rivoluzione del negativo, una potenza del negativo, sulla base di una visione totalmente dissociata dalla realtà e dalla pratica di quello che definiamo capitalismo cognitivo. Io ho diretto tre istituzioni importanti, di cui due dotate di laboratori di sviluppo software, e in particolare uno con 70 ingegneri impegnati nella programmazione, perciò conosco bene come funziona l’industria informatica. La questione centrale del capitalismo cognitivo è capire se esso consente, in un modo di produzione industriale, di disalienare il lavoro o no. Io ho sempre detto che sì, lo permette, ma a condizione che si faccia una vera critica farmacologica. E ritengo che i movimenti che hanno fatto proprie queste prospettive, certo non tutti, ma molti, e in particolare i postoperaisti italiani, molti dei quali sono in Francia oggi, hanno totalmente ignorato l’aspetto farmacologico. Non hanno visto che questo sistema di “grammatizzazione” digitale avrebbe condotto a una iperproletarizzazione degli individui, un fenomeno di cui in Italia ha parlato Antonio Casilli, che definisce questo genere di individuo l’“operaio del click”. Quello che io sostengo è che un sistema tecnico è sempre, al tempo stesso, tossico e terapeutico, e che la politica è quella che deve introdurre un principio in base al quale occorre limitare la tossicità e incrementare la capacità curativa, a ogni costo. L’economia invece stabilisce che occorre incrementare il profitto ad ogni costo, e non gli interessa affatto della tossicità o la curatività, ed è per questo che bisogna difendere la politica dall’economia.

Spostandoci allora dal piano del conflitto tra capitale e lavoro al piano del conflitto tra globale e locale, dalla fabbrica alla città, non crede che Henri Lefebvre aveva già visto nel 1974 un’espansione indefinita dello spazio astratto del capitale globale e una conversione dello spazio da contenitore delle attività umane a matrice di un sistema di produzione prevalentemente eterodiretto? I processi che lei descrive, come la degradazione degli ambienti di vita in “milieux dissociati”, o il sempre più integrale processo di “disapprendimento” che investe i luoghi della vita associata, che evoluzione politica e socioeconomica possono avere?

Lefebvre è una fonte molto interessante di riflessione, e lo è stato anche per Baudrillard, io ho fatto un seminario per due anni su Lefebvre, sul diritto alla città e un altro in Cina perché Lefebvre è molto conosciuto in Cina. Cominciamo col dire che Lefebvre ha dei limiti, che si possono ricondurre alla sua appartenenza a un marxismo classico. Io distinguo Marx dal marxismo, e definisco classico quel marxismo che postula in maniera dogmatica la potenza del negativo del proletariato. È un’osservazione un po’ marginale rispetto alla vostra domanda ma da quello che dirò dopo se ne capirà l’importanza. Lefebvre ha parlato molto di globalizzazione e della trasformazione delle città nei grandi complessi sviluppati dal funzionalismo urbano e dalla tecnocrazia urbanistica, soprattutto nel Diritto alla città, che nella prima edizione francese ha in copertina una immagine della città in cui io stesso sono cresciuto, che è Sarcelles. Quindi io sono nato nei luoghi di cui parla Lefebvre, e perciò li conosco molto bene. La descrizione che egli fa della città è per me molto interessante, molto competente, e quindi necessaria, ma la trovo anche molto incompleta, perché c’è qualcosa che lui non vede, ed è qualcosa che descrive invece Pierre Vernant quando, a proposito della urbanizzazione nella Grecia antica, spiega che la città è in prima istanza una macchina da scrivere e che quello che determina la cittadinanza greca è la scrittura sulle mura, nel marmo, delle città. Quindi è il processo di esteriorizzazione tecnica attraverso la scrittura degli enunciati mnesici, siano essi ricordi o anticipazioni, ritenzioni o protensioni, che permette la costruzione della politeia greca, un processo che di fatto comincia nelle grotte dipinte del paleolitico superiore. Tutto questo è stato trascurato da Lefebvre, e perciò ha compreso male la questione della cibernetica(7), in quanto lui, come tutti i marxisti dell’epoca, ritiene che la cibernetica è un’ideologia a servizio degli idealisti o dei capitalisti contro la dialettica negativa del proletariato. Questa è una visione datata e assolutamente catastrofica che ha condotto i marxisti a ignorare completamente quello che stava accadendo negli Stati Uniti – e anche quando erano antisovietici, come lo era Lefebvre, non sono stati minimamente in grado di capire quello che stava accadendo con la cibernetica. Quindi non è stato in grado di comprendere le implicazioni e la sfida della cibernetica, che si deve intendere come l’ultimo stadio della “grammatizzazione”. E perché è così importante? Perché oggi le città contemporanee sono diventate il supporto della dimensione che si definisce “ubiquitous computing”, vale a dire l’Internet of Things, e perciò sono spazi urbani strutturalmente costituiti da quelle che definisco “ritenzioni terziarie”, ovvero hypomnémata, tecnologie della memoria, in quanto registrano quello che accade ad ogni loro componente. Per fare un esempio oggi ci sono materiali nell’industria delle costruzioni che permettono di registrare tutto quello che gli succede, come tensioni eccessive negli elementi strutturali che potrebbero essere pericolosi per l’intero edificio, consentendo agli architetti di intervenire per fare manutenzione. Tutto questo Lefebvre lo vede come pura alienazione, ma aveva torto perché è uno sviluppo legato a quello che Simondon definiva il “modo di esistenza degli oggetti tecnici”, e non serve accusare la cibernetica di essere a servizio della proletarizzazione. Sarebbe bastato guardare a Norbert Wiener, che era un uomo di sinistra e denunciava l’utilizzazione della cibernetica per sfruttare i proletari: è sufficiente leggere il libro che si intitola Cibernetica e società per rendersi conto che il primo che ha veramente criticato la cibernetica è lo stesso padre della cibernetica, Wiener, ma credo che Lefebvre non lo abbia letto con attenzione. Non fa che ripetere l’ideologia marxista che su questa questione è completamente stupida. Ora tutto quello che si sviluppa attraverso le reti contemporanee, cioè attraverso il gps o i sistemi per l’orientamento, tutti i dispositivi che si stanno impadronendo dell’insieme della vita pubblica, cioè il commercio, le traduzioni, le relazioni tra genitori e figli, ogni comportamento, dai conducenti dei taxi ai consumatori che passeggiano nelle strade, tutto è controllato da una sorta di “mapping” digitale dell’insieme dello spazio. In che modo opporsi a tutto questo? Pensare di disattivarlo o distruggerlo è una illusione totale, anche se diciamo che occorre appropriarsene. All’inizio hai citato Benjamin Bratton, in The Stack cerca di descrivere un design di tutto questo sistema che sia alternativo, ma personalmente non sono affatto convinto della sua analisi, anche se fa bene a porre queste questioni, e io lavoro con gente che si ritiene vicina alle sue analisi, come David Barry ad esempio. Noi di Ars industrialis invece affermiamo che questo sistema è l’evoluzione del processo generale di grammatizzazione, che è impossibile da rigettare ma occorre criticarlo a fondo, come ha fatto Marx alla sua epoca con la macchina a vapore, l’automazione e la proletarizzazione, analizzando le potenze che animavano quel sistema. E anzi, come ben sai nel Frammento sulle macchine si è spinto ancora più lontano, anticipando quello che accade in questo momento. E quale critica si può fare oggi? Si potrebbe affermare che il proletariato può rivoltarsi come una potenza del negativo contro le macchine. Ma io non lo credo affatto, perché il proletariato sta scomparendo, sostituito dalle macchine, che è quello che afferma Marx nei Grundrisse. Non esiste più un proletariato, o se esiste è un lumpen proletariat completamente disorganizzato e asservito, il proletariato del click legato al “Mechanical Turk” di Amazon. Inoltre ritengo che le tecnologie digitali stiano sostituendo il proletariato e che la questione che pongono i Grundrisse, ovvero come reinvestire attraverso nuove forme di sapere le possibilità aperte dalla robotizzazione, sia la vera questione. Ma in questo bisogna andare oltre Marx, perché Marx ignorava totalmente un concetto fondamentale, che è il concetto di “entropia”. Anzi è più corretto dire che lo conosceva e lo ha sottovalutato, mentre chi lo ha rigettato in modo esplicito è Engels, dopo la morte di Marx, affermando che non è un concetto dialettizzabile, e perciò è falso, che è un ragionamento assurdo. E invece occorre rimetterlo al centro delle nostre riflessioni per una ragione molto semplice, perché le piattaforme algoritmiche per come funzionano sono entropiche, e dunque sono autodistruttrici. Esse infatti impoveriscono radicalmente i produttori e le classi popolari rendendoli insolvibili, obbligando il sistema a rilasciare crediti insolvibili, come è accaduto con la crisi dei subprime nel 2008. Stiamo perciò di nuovo facendo esattamente la stessa cosa, ma con la consapevolezza che alla base della catastrofe economica c’è anche una catastrofe ambientale(8).

E come pensa che si possa arginare l’entropia generale?

Quello che noi affermiamo, e dicendo noi mi riferisco a differenti gruppi, e in particolare al collettivo Internation che si è riunito la settimana scorsa a Ginevra facendo una conferenza stampa presso gli uffici dell’ONU, è la necessità di una politica industriale che valorizzi il lavoro e non l’impiego. Questa la definirei una posizione post-post operaista, perché penso che gli operaisti avevano ragione al margine, ma non nel cuore del dispositivo. Io ad esempio sono stato operaio, ho lavorato in diverse officine e so cos’è il lavoro manuale, e a partire da questa esperienza penso sia vero che, come affermano gli operaisti, esista un’inventività operaia; ma questa inventività è stata sempre più marginalizzata o manipolata con ogni sorta di tecnica manageriale, a partire dal toyotismo, ma anche con gli sviluppi sperimentati in Francia, Germania, Stati Uniti. Dunque l’operaismo è un’illusione, mentre la critica del post-operaismo, che riguarda piuttosto il capitalismo cognitivo, afferma ad esempio con Antonella Corsani, trovandomi completamente d’accordo, che il free software abbia creato una matrice di produzione radicalmente nuova e promettente. E tuttavia il free software si è diffuso anche attraverso l’open source, che è cosa diversa e conduce ad una iperproletarizzazione, in quanto i margini sono ancora più ridotti rispetto all’officina, contrariamente a quanto affermato dalla teoria del capitalismo cognitivo. Oggi per contro penso occorra riprendere la questione del lavoro in quello che aveva di giusto, occorre attualizzarla e criticarla, facendo fronte ad una nuova realtà, che è quella dell’applicazione della legge del calcolo a tutti i comportamenti umani, e della conseguente eliminazione di tutto ciò che non è calcolabile. Erwin Schrödinger, insieme ad altri grandi saggi, ha definito il vivente come entropia negativa, dimostrando che quello che permette al vivente di essere tale è la “neghentropia”, ovvero ciò che non può essere calcolato dal sistema. Tale visione consente di sostenere una lotta contro questa economia politica, che io definisco “economia a-politica” perché il suo obiettivo è quello di eliminare lo spazio politico stesso. Occorre perciò riaffermare che sì, il lavoro è l’avvenire, ma come lavoro al di fuori dell’impiego, e su questo avevano ragione gli operaisti, ma noi sosteniamo che occorre sostenerlo con quello che chiamiamo “reddito contributivo”, che è diverso dal “Basic income”. Questa è infatti una proposta compatibile con il quadro neoliberale, molto discutibile dal punto di vista sociale, perché equivale a dire che è necessario che i poveri siano alienati attraverso il reddito, visto che in genere si tratta di un reddito inadeguato, che non permette di vivere dignitosamente. E perciò penso che occorra valorizzare il lavoro al di là dell’impiego e non attraverso il reddito di base, ovvero attraverso un processo che consenta di ricostituire quelli che io definisco “milieux associati”. Si tratta di un ragionamento che ho sviluppato 12 o 13 anni fa nel libro Reincantare il mondo, nel quale avevo cercato di dimostrare che appunto le reti di collaborazione sul free software sono casi di ricostruzione di milieux associati. Ma questo concetto di milieux associati e dissociati deriva da Simondon, il quale ha parlato di milieux tecnogeografici analizzando ad esempio il modo in cui una turbina idroelettrica permette di fare del mare una funzione tecnica. Quello che non poteva vedere Simondon, è che la tecnica oggi fa lo stessa cosa con gli uomini, che è quello che fa Amazon ad esempio, e che occorre andare oltre questo. Credo sia necessario un “reapprendimento” legato ad una rifondazione dei saperi, perché quello che oggi in fisica o biologia si chiama sapere non è più veramente “sapere”, ma una strumentalizzazione di teoremi a servizio della calcolabilità dei big data, che consentono di compiere performance come lanciare razzi o vendere medicinali. I saperi invece sono sempre riferiti alla visione d’insieme, ovvero hanno sempre l’ambizione di costituire una coerenza globale che all’inizio del XX secolo Alfred Whitehead rivendica e definisce “cosmologia speculativa”. E credo infatti che oggi si debba rileggere Marx con Whitehead.

Quindi mi sembra di capire che lei non attribuisce alcun ruolo al conflitto…

Quello che credo è che vada letto il conflitto in seno alla questione dei saperi. Poiché ogni sapere è fondato sul conflitto, la vera questione è di rimettere il sapere al cuore del dispositivo, e mi riferisco ai saperi non accademici, artistici, sportivi, della vita quotidiana. C’è conflitto ovunque, e questo consente di procedere verso un mondo migliore, Aristòn in greco. Si tratta di un miglioramento costante del modo di vivere di cui ha parlato Whitehead nell’Art de vivre. Ora la questione che si pone oggi è quella che definirei questione dell’ipermateria. Attraverso questo concetto vorrei superare la fisica materialista del marxismo. I marxisti in quanto materialisti non sono meno ingenui degli idealisti quando criticano questi ultimi perché ritengono che lo spirito e la materia si contraddicono, o che la materia conti più dello spirito. Se infatti si adotta l’accezione di materia che troviamo in Marx, occorre tenere presente che si tratta di materia organizzata e dunque di materia spiritualizzata, cioè una materia nella quale lo spirito ha messo in forma una sorta di regola, ha messo in forma la materia. Che è la stessa cosa che riscontriamo oggi con il digitale, e non soltanto con i software, ma anche con la microelettronica e la nanoelettronica, che hanno permesso a Intel, grazie al fondatore, il fisico Gordon Moore, di sfruttare le forme materiali micrometriche per realizzare una miniaturizzazione straordinariamente potente che ha consentito di moltiplicare per due ogni due anni la capacità di calcolo della memoria. È così che gli Stati Uniti hanno preso il controllo di questa industria – non attraverso il software. E in questo modo hanno sfruttato quelle che io chiamo le virtù logiche dell’ipermateria, perché la logica è nell’ipermateria. È questo che non comprendono i marxisti. Io sono ancora marxiano ma non sono più marxista, i marxisti a mio parere sono una catastrofe che ha completamente sterilizzato Marx, lo ha dogmatizzato. Oggi, se si vuole combattere le piattaforme, le logiche di alienazione di cui abbiamo parlato, occorre fare una critica logica dell’ipermateria. Io ho creato da 13 anni Institut de Recherche et d’Innovation (IRI) per sviluppare modelli di piattaforma alternativi al modello dominante. Purtroppo non sono ancora riuscito a convincere né il governo francese, né l’Unione europea, né le industrie elettroniche per cui ho lavorato che è questo che occorrerebbe fare. Cosa significa? Che bisogna creare piattaforme basate su strutture di dati concepite per proteggere l’incalcolabile, consentendo di non ridurre tutto alla calcolabilità e di tornare a valorizzare quello che Aristotele chiamava la deliberazione, cioè il logos. Continuo a credere a questo, e che prima o poi questa idea finirà per essere sviluppata. Una cosa che mi rattrista molto è che l’unico potere pubblico che capisce quello che affermo io è quello cinese, ciò in quanto i cinesi capiscono che devono smarcarsi completamente dall’occidente. Ma penso che sarebbe ora che l’Europa si riappropri di questa prospettiva. Il problema è che i buoni ingegneri italiani, belgi, tedeschi e francesi partono per gli Stati Uniti, ma molto presto partiranno per la Cina. Sarebbe necessario cominciare a sviluppare una visione capace di comprendere che i sistemi dinamici sono fondati sulla contraddizione, e che la contraddizione non è un problema, è quello che determina la dinamica di un sistema. E d’altra parte la contraddizione non può più essere pensata a partire dal modello della dialettica, ed è su questo piano che a mio parere Toni Negri è al tempo stesso interessante e deludente. Negri all’inizio era un marxista classico, un operaista che è arrivato a Parigi aiutato da Althusser, e poi si avvicina a Gilles Deleuze. Ma il problema è che se ci si avvicina a Deleuze non si può continuare a essere dialettici. Ora, il lavoro che avrebbero dovuto fare i post-operaisti, ovvero lavorare al di là della dialettica le contraddizioni dei sistemi dinamici, non è stato fatto. Oggi occorre farlo e per farlo bisogna lavorare sulle logiche dell’ipermateria, cioè bisogna ricominciare a fare un lavoro di costruzione di un sapere fondamentale, e per questo sono importanti Whitehead e Simondon. Che è gente che va al di là del marxismo.

Lei non è preoccupato dal modello cinese?

Quello che mi preoccupa di più è che non esiste un modello europeo. Si accusano gli americani di ogni cosa e io dico di no, occorre accusare gli europei di non essere capaci di opporsi a questo, gli americani seguono la loro logica e la loro logica è quella di un capitalismo ultraliberalizzato, così come la Cina segue la propria logica, che è una logica imperiale, e non parliamo dell’impero di Hardt e Negri. La Cina è imperiale da circa 4000 anni, e le posso dire che la conosco bene perché sono 6 anni che ci lavoro… è rimasta un paese imperiale, e il problema non è il partito comunista o il maoismo, è la cultura dell’impero, così come in Unione sovietica è lo zarismo che si è imposto attraverso Lenin e poi Stalin, tornando poi esplicitamente con Putin. Allora noi possiamo anche condannare lo zarismo russo o l’imperialismo cinese, che è molto diverso dall’imperialismo americano e occidentale, perché non cerca di imporre direttamente le proprie vedute all’esterno, ma è in procinto di farlo attraverso le nuove vie della seta. Possiamo anche denunciare quello che evidentemente è un problema, cioè le limitazioni alla libertà di opinione e alla democrazia in generale. Ma se andiamo in Cina ci rendiamo conto che c’è un dinamismo e una originalità del pensiero molto più grande che in Europa, niente di comparabile con noi… La Cina fa pensare a quello che erano gli Usa negli anni ’50 o ’60, quando gli americani attiravano gli artisti e scienziati europei e i filosofi come Lyotard, Derrida, Foucault, e tutta questa gente era inizialmente più nota negli Usa che in Europa. Ebbene oggi è in Cina che questo accade, e quel che è tragico è che gli europei non vogliono vederlo, accusano americani e cinesi di qualsiasi cosa, ma il vero problema sono loro, gli europei. Perciò penso che bisogna fare un gran lavoro. E l’Italia – non lo dico per lusingare i vostri lettori -, credo sia uno dei paesi in cui ci sono più risorse per fare questo lavoro, perché c’è una tradizione di critica sociale veramente molto importante, più importante che in Francia e in Germania. In Italia si dovrebbero trarre le conseguenze dell’incredibile fallimento della sinistra, e direi non soltanto di quella socialdemocratica, o comunista nel senso di berlingueriana, ma della sedicente nuova critica sociale che non ha condotto veramente a nulla fino ad oggi, se non al risultato di generare i 5 stelle, che a me pare molto disdicevole… Il ruolo che può giocare l’Europa passa per il ruolo che devono riprendere gli accademici: sono pagati per questo e devono farlo, devono reinventare il futuro, devono mettersi a fare il lavoro che facevano Derrida, Foucault, Deleuze, Lyotard negli anni ’60 o ’70, o come accadeva in Italia negli stessi anni, dove si viveva una grande fermento intellettuale. Credo si possa fare, serve soltanto un po’ di coraggio e lucidità. Poi una questione molto importante e difficile da trattare è la questione della località e del territorio, c’è un movimento in Italia che mi interessa moltissimo, che si chiama territorialismo e si ricollega a una tradizione deleuziana attraverso Alberto Magnaghi – lo trovo molto interessante e sarebbe opportuno collaborare con grande impegno facendo convergere il territorialismo con il concetto di neghentropia ed anti-entropia sviluppato da Giuseppe Longo. Vive in Francia ma è italiano. Noi lavoriamo a questa ipotesi di ripensare la località in un approccio che tenga conto delle scienze e non soltanto di una ecologia sociale del territorio, e presuppone di ripensare le piattaforme e le interfacce, cioè reinventare l’informatica. Ed è assolutamente possibile, in Italia ci sono a Torino ottimi ricercatori in questo campo.

Non c’è una contraddizione nell’attribuire alla politica un ruolo così centrale, laddove una conseguenza dell’attuale sistema è proprio l’erosione dei corpi intermedi e una individualizzazione del sociale?

Sì c’è una contraddizione ma bisogna tradurla in proposte in positivo. Ad esempio Ursula nuova presidente della commissione europea che pretende di decarbonizzare l’Europa, bisogna prenderla sul serio, pensare che si può fare, bisogna fare proposte molto chiare, bisogna smettere di denunciare l’incuria dei poteri pubblici, la loro doppiezza, che è tutto vero ma non serve a nulla denunciare questo, non fa che aggravarlo, così come non serve a nulla denunciare il populismo, non fa che aggravarlo. Il problema non è denunciare qualcosa ma enunciare qualcosa, cioè produrre enunciati nuovi, generare concatenamenti collettivi fondati su enunciazioni nuove, grazie ai quali si arrivi a convincere la gente che sostiene il populismo, così come la gente che lavora alla Commissione europea, che in effetti hanno torto, e che è possibile fare altro. E quindi bisogna formulare proposizioni, e per farlo bisogna mettersi a lavorare, bisogna smettere di ripetere sempre la stessa cosa. Da vent’anni si sentono ripetere le stesse cose.

In che misura il populismo è il frutto della società automatica?

La società automatica determina dosi altissime di frustrazione, tutte le persone che sono dipendenti da automatismi si lamentano di esserlo, ma il problema è che siccome non riescono a liberarsi da questo automatismo, se la prendono con gli arabi, con gli ebrei, con i funzionari, con quelli del paesino vicino, è quello che avevo analizzato nel libro Pharmacologie du Front national(9), nel quale avevo dimostrato che se il pharmakon non è correttamente e politicamente regolato produce il pharmakós, che in greco significa “capro espiatorio”. E quindi si è in una logica di capro espiatorio prodotto dalla società automatica che si può contrastare soltanto facendo una vera critica della società automatica, che non significa fare una semplice denuncia ma sempre una proposizione, come faceva Kant. Bisogna perciò mettersi a lavorare con i fisici, i matematici e biologi del XXI secolo anche per criticarli, ma soprattutto per elaborare una nuova critica dell’economia politica.

Che ruolo può giocare in questo il collettivo Internation di cui parlava in precedenza?

Questo gruppo si è costituito il 22 settembre 2018 a Londra, ed è un gruppo di scienziati, giuristi, economisti, filosofi, artisti, cittadini e la sua ambizione, la sua tesi comune, è che se gli stati e le imprese non sono in grado di rispondere alle ingiunzioni di Greta Thunberg o di Antonio Gutierrez è soprattutto per ragioni di conflitti di interesse ma anche perché non esistono modelli teorici e pratici che siano capaci di indurre la transizione che riteniamo indispensabile. Perciò noi abbiamo una tesi molto precisa, in parte ispirata dal pensiero di Giuseppe Longo, e cioè che l’economia attuale ignora del tutto i problemi di entropia e neghentropia, e che è necessario tornare a valorizzare nuovamente il lavoro a scapito dell’occupazione intesa come impiego. Se è vero che l’occupazione sta producendo entropia, in quanto è diventata molto standardizzata e proletarizzante, non è un problema la sua perdita. Di qui sosteniamo che bisogna costruire una nuova economia politica e per questo proponiamo in modo molto concreto di configurarla attraverso dei Territori laboratorio. Abbiamo chiesto all’ONU di liberare fondi a partire dai grandi programmi che già esistono, come quelli per lo sviluppo o per l’ambiente, o della lotta contro la fame, l’Unesco ecc. C’è molto denaro e a nostro parere gran parte di questo denaro viene sperperato, e per cominciare basterebbe l’1 per cento di queste risorse per permettere a dei territori nel mondo, e noi ne abbiamo già identificati parecchi, di sperimentare nuovi modelli che consistono nello sviluppo di un’economia industriale di contrasto all’entropia. E a tal fine proponiamo anche di creare una nuova istituzione sperimentale che chiamiamo “Internation”, che è basata anzitutto sull’idea che bisogna restituire al sapere la priorità in tutte le decisioni, e non al profitto. Se è vero infatti che riteniamo sia normale voler generare un profitto, in quanto il profitto permette di fare nuovi investimenti, siamo anche convinti che questo profitto debba essere sociale. Se poi debba realizzarsi prevalentemente nel modello del cooperativismo o dei commons, o debba essere privatizzato è un’altra questione, per quanto fondamentale… In un primo tempo la vera questione è prima di tutto qual è la struttura del valore che noi vogliamo sviluppare e questo valore noi lo chiamiamo neghentropia.

Cosa implica proporre “all’insieme di un territorio di diventare progressivamente un laboratorio”. Cos’è concretamente un territoire apprenant contributif?

E’ un territorio che si candida per sviluppare nuovi modelli di sapere e di lavoro in un contesto che ha come obiettivo quello di limitare l’entropia in ogni sorta di ambito, dalle costruzioni al contrasto alla crescita del livello delle acque, all’inquinamento ecc. e la condizione è che si sottopongano a verifica le tesi che proponiamo all’inizio, e in secondo luogo che si adotti una metodologia che noi chiamiamo ricerca contributiva, che consiste nel far lavorare insieme dei ricercatori accademici, attori sul campo tra associazioni e ong, imprese, servizi amministrativi, abitanti, creando dei territori dell’apprendimento [apprenants] che abbiano come obiettivo di trasformare l’attività imprenditoriale attraverso questo apprendimento. Questo è molto vicino a quello che sta sviluppando Alberto Magnaghi in Italia.

Per chiudere può dirmi qualcosa su quanto la sua biografia ha influito sulla sua ricerca filosofica? In realtà glielo chiedo ben sapendo che questo rapporto è per lei strettissimo.

Ho un percorso piuttosto emblematico della generazione del ’68. Per quanto giovane ho partecipato ’68, e prima ancora alla lotta contro il colonialismo. Come gli altri giovani ero molto politicizzato e mi sono mobilitato contro OAS e la guerra d’Algeria, e poi contro la guerra in Vietnam. Gli anni ’70 sono stati anni di hang out, e la situazione per me è stata molto peggiore dopo il ’68 che prima, anche a causa della crisi economica provocata dalla crisi petrolifera, con la fine dei 30 gloriosi. In questo periodo ho avuto un percorso molto particolare, nell’argot francese si dice i pommés dell’esistenza, gente che è perduta. Ho fatto parte di una generazione che si arrangiava, alcuni sono finiti a lavorare in fabbrica – e in alcuni casi parliamo di normalisti, cioè di persone collocate al vertice della gerarchia della formazione – altri sono partiti molto prima a fare la guerra in Bolivia. Era l’inizio di una grande trasformazione, che per me è l’inizio della fine dell’antropocene. A me personalmente tutto questo è costato 5 anni di prigione, non per ragioni di militanza politica ma per banditismo ordinario, ma è così che sono evoluto nella mia traiettoria molto personale, che è passata dalla gestione di un caffè, a quella di un pub notturno, e di un locale di jazz.

I miei genitori erano gente del popolo mio padre era un operaio elettricista, mia madre era stenodattilografa, erano persone di strati popolari, poi mio padre è riuscito a farsi assumere nella televisione francese perché il potere gaullista promuoveva molto l’ascensore sociale, e dunque la promozione del lavoro a lungo termine. Mio padre poi ha fatto carriera riuscendo a entrare nei quadri superiori. Ma le mie origini sono molto popolari, mio nonno paterno era operaio in fabbrica e mio nonno materno era conducente di locomotive. Anche io ho lavorato come lavoratore manuale, ma poi ho cambiato perché ho potuto studiare in prigione.

Come ha inciso su di lei la detenzione?

Prima di entrare in prigione mi sono interessato alla linguistica. Ero comunista e i comunisti avevano giornali e riviste che erano molto utili perché sostenevano con forza il principio che gli operai e i proletari avevano il diritto di acculturarsi, e non erano degli imbecilli incapaci di comprendere la vita intellettuale, e grazie a questi giornali conoscevo le teorie strutturaliste. In particolare avevo letto un libro di Saussure, il Corso di linguistica generale, e dunque quando mi sono ritrovato in prigione mi sono messo a rileggere il Corso e a studiare la linguistica, e mi sono reso conto che per comprendere la linguistica bisognava studiare la filosofia greca e mi sono messo a studiarla con l’aiuto di un professore universitario di Toulouse che avevo conosciuto prima di finire in prigione, che si chiama Gerard Granel. Era un grande specialista di Husserl, lo aveva tradotto in francese. Così ho scoperto la fenomenologia. Sostengo sempre che la mia carcerazione è stata una sorta di esperienza fenomenologica effettiva, nel senso che gli attribuisce Husserl quando descrive l’esperienza fenomenologica, quella che lui chiama l’epochè fenomenologica, ovvero la sospensione della credenza nella esistenza del mondo. Lui faceva questa esperienza sporadicamente e come condizione artificiale e intellettuale, mentre io facevo questa esperienza in chiave esistenziale permanente, perché di fatto non potevo uscire dalla mia cella. Per questo motivo ho trasformato questo periodo difficile in un periodo di sperimentazione.

Note

(1) B. Stiegler, “Temps et individuation technique, psychique, et collective dans l’oeuvre de Simondon”, in Intellectica, 1998, vol. 26-27, n. 1-2, pp. 241-256 [prima ed. in Futur antérieur, 1993, vol. 19-20, n. 5-6]

(2) J. Baudrillard, Power inferno. Requiem pour les twin towers. Hypothèses sur le terrorisme. La violence du mondial, Galilée, 2002

(3) M. Foucaul, Naissance de la biopolitique, Cours au Collège de France. 1978-1979, Paris, Gallimard, 2004

(4) M. Foucault, L’Oeil du Pouvoir, entretien avec M. Perrot et P. Barou, in J. Bentham, Le Panoptique, Paris, 1977

(5) “Grammatizzazione” è un concetto cardine nel pensiero di Stiegler: è il processo che permette di discretizzare, nel senso matematico del termine, un segnale, e perciò stesso di riprodurlo. Ad esempio, è possibile discretizzare la lingua con i suoi segni diacritici, cioè le lettere dell’alfabeto. L’alfabeto consente di trascrivere qualsiasi lingua del mondo, realizzandone la discretizzazione letterale. Per Stiegler esistono tre tipologie di discretizzazione: letterale, analogica e digitale, che si possono correlare rispettivamente alla scrittura, alla televisione e al computer. Non si tratta perciò di un fenomeno di per sé negativo, ma attraverso questi media la grammatizzazione si può estendere ai comportamenti e alle relazioni, come forma di discretizzazione omologante.

(6) Stiegler è stato “directeur général adjoint” dell’Institut National de l’Audiovisuel (INA), l’archivio nazionale della produzione audiovisiva, dal 1996 al 1999 (https://www.ina.fr).

(7) H. Lefebvre, Vers le cybernanthrope. Contre les technocrates, Denoël/Gonthier, Paris 1971

(8) Come ha spiegato in una sua conferenza del 2015 Stiegler, questi temi sono stati da lui trattati approfonditamente nel volume “La société automatique, dedicato al tema dell’automatizzazione integrale e generalizzata che si dispiega con il digitale. In quest’opera sostengo che l’automatizzazione algoritmica conduce all’estinzione del salariato e dell’impiego, dunque alla prossima sparizione del modello keynesiano di ridistribuzione dei guadagni di produttività, il che era ed è ancora oggi la condizione di solvibilità del sistema macroeconomico”. Questa enorme trasformazione conduce secondo Stiegler a un’alternativa:

• “condurre ad una iper-proletarizzazione e ad un pilotaggio automatico generalizzato, che genererebbero al tempo stesso una insolvibilità strutturale e un aumento vertiginoso dell’entropia;

oppure spingerci a uscire dal processo di proletarizzazione generalizzata al quale il capitalismo industriale ci conduce da 250 anni: incrementare così lo sviluppo massivo di capacità neghentropiche attraverso una politica noetica della reticolazione, che ponga gli automatismi al servizio di capacità individuali e collettive di dis-automatizzazione”.

Cfr. “Uscire dall’Antropocene”, in Kaiak. A Philosophical Journey, 2 (2015): Apocalissi culturali, p. 2. Consultabile a: http://www.kaiak-pj.it/images/PDF/rivista/kaiak-2-apocalissi/stiegler.pdf.

(9) B. Stiegler, Pharmacologie du Front national, suivi du Vocabulaire d’Ars Industrialis par Victor Petit, Flammarion 2013.