Ambiente digitale e globalizzazione: ricollocare lo spazio

di A. Cava

Visioni

Lo spazio osservato dal punto di vista di Google Earth ci appare come neutralizzato, ridotto alla sua superficie/estensione; allo stesso modo l’orientamento mediato da Google Maps ci induce movimenti semplici, che considerano lo spazio nella misura della distanza da un punto x a uno y. Mappamondi e mappe incredibilmente dettagliati e funzionali sono alcuni dei risultati diffusi dello sviluppo delle tecnologie di informazione geografica (in questo caso GPS). Nel quotidiano l’utilizzo di questi mezzi si traduce in una facilitazione di alcune azioni (come lo spostamento, la comunicazione, la visione): maggiore rapidità, fedeltà, orientamento e diminuzione dell’accidentale. Lo spazio visualizzato attraverso i satelliti ripropone un punto di vista esternalizzato e deresponsabilizzato, oggettivo e oggettivante. Mentre l’aumento del potere di visualizzazione è finalizzato a un maggiore controllo dell’accidentale, paradossalmente il soggetto contemporaneo è portato ad essere sempre più spaventato da ciò che è imprevedibile, a sentirsi più esposto alla catastrofe e all’incontrollabile, alla frammentarietà, nonostante i suoi sforzi – consci o inconsci – siano protratti a costruire zone di comfort e visibilità. Massumi (1992) parla dell’accident-form come della forma-soggetto del capitale, costantemente minacciato da forze che non riesce a dominare e quindi costantemente intento a elaborare dispositivi di controllo per risolvere il rapporto uomo-natura in una forma di dominio. Il soggetto sfruttato è anonimo e super esposto allo stesso tempo, mentre chi ha accesso alla visibilità e alla visione è in una posizione dominante.

Questi strumenti di rappresentazione sono parte del processo di produzione dello spazio: semplificandone la fruizione inducono ad un punto di vista distanziato e riduttivo. Lo spazio però non è una superficie piatta e imparziale né un palco che ospita attori umani, è piuttosto il prodotto e produttore di relazioni, luogo della molteplicità. Gli attori sociali sono già nel mezzo dello spazio, del territorio, la distinzione tra contenente e contenuto appare labile, sono già tra ed è in questa posizione che è necessario ricollocarsi.

Ogni attività che svolgiamo è intrinsecamente geografica: crea e prende spazio (Harvey, 1985). In questi termini è necessario affrontare la spazialità liberandola dalla schematizzazione euclidea, dalla riduzione ad aree delimitate e orientate in base ai diagrammi cartesiani. Una determinata visualizzazione e rappresentazione che riduce lo spazio a una superficie metrica, lineare, chiusa. Questo punto di vista pone lo spazio come oggetto passivo e lo assoggetta alle sue necessità. In questo caso “si conta lo spazio per occuparlo” (Deleuze e Guattari 1980, p.499): le varie tecnologie di informazione geografica, distribuita tra l’accumulazione di dati e proiezioni grafiche, sono finalizzate a una forma di conoscenza il più possibile perfetta dello spazio. Situando il nostro punto di vista invece possiamo restituire la frammentarietà e l’ambiguità dello spazio, la sua stratificazione e complessità. Ogni sapere e ogni potere in qualche modo produce una diversa visione e una diversa percezione, è allora necessario individuare quei saperi in grado di de-soggettivare il nostro rapporto con lo spazio.

Ambienti

Attraverso le tecnologie guardiamo il mondo “fisico”, organizziamo e creiamo altri mondi, ma questa stessa rete di tecniche è strutturata a partire da uno o più paradigmi spaziale. Il così detto cyberspace è stato a sua volta oggetto di discorsi e sguardi che l’hanno collocato al di là dello spazio fisico-naturale o in contrapposizione ad esso. Alcune teorie però hanno sviluppato un approccio temporale-metrico alla spazialità, quantificandola in base a una generica “velocità di percorrenza” o delimitandone i confini, diversificando rigidamente tra organico e inorganico, fisico e ditale. Due fenomeni sarebbero individuabili come cause che hanno la fine dello spazio, la sua implosione, la sua progressiva svalutazione:

  1. La sostituzione dello spazio fisico con un cyberspace sempre più pervasivo: smaterializzazione del tessuto sociale;

  2. la possibilità offerta dalle ICT e dalla progressiva globalizzazione di diminuire il tempo di attraversamento dello spazio fisico: accelerazione e velocizzazione; de-spazializzazione delle relazioni

L’idea – e le sue insite contraddizioni – di internet come spazio aperto, open system, è una figurazione ottimale attraverso la quale leggere lo sconfinamento e la smaterializzazione di alcuni processi in atto. La digitalizzazione dello spazio può essere letta come agente della sua globalizzazione. La struttura prototipica della rete è ripetuta diffusamente: vi è una proliferazione di reti, ognuna integrata e interrelata a reti più complesse e grandi, ognuna con una molteplicità di funzioni. Quindi: lo spazio dei luoghi, fisico, omogeneo, delimitato, locale contro lo spazio dei flussi, digitale, eterogeneo, dislocato, globale. L’uno concentrato e sincronico, l’altro frammentato e asincrono. Uno collocato e incorporato e l’altro dislocato e smaterializzato. Calati nelle maglie del dualismo queste due figurazioni spaziali sono spesso raccontate come in conflitto, contrapposte. Tiziana Terranova, nel suo testo Network Culture, esplica questa visione:

(…) l’insistere su uno spazio informativo caratterizzato in qualche modo da una pericolosa distanza dal mondo della carne e dagli spazi fisici. Se il primo dibattito sulle reti d’informazione era dominato dall’immagine di un cyberspazio gibsoniano in cui gli utenti avrebbero perso coscienza del mondo reale e si sarebbero persi in un universo di forme astratte e prospettive disincarnate, il dibattito contemporaneo si è spostato sul terreno della globalizzazione. (1) Dove l’immagine più comune del cyberspazio era quella di un ambiente di realtà virtuale caratterizzato dall’interfaccia diretta e dalla full immersion (data gloves, occhiali, microchip ed elettrodi incorporati), ora l’immagine è quella di uno spazio comune di flussi d’informazione nel quale si gioca la posta in gioco politica e culturale della globalizzazione.” (Terranova 2004, p.42)

Partendo da una visione dell’uomo come essenzialmente e strutturalmente tecnologico, ovvero tendente a creare delle mediazioni e delle circostanze al di là della dimensione prettamente naturale, Echeverrìa analizza le relazioni sociali che si sviluppano nella cornice dell’ICT, reinscrivendole a delle techno-circostanze. Il proliferare di nuove e sempre più diffuse tecnologie relazionali avrebbe creato una nuova dimensione che Echverrìa chiama terzo ambiente. Ambiente naturale, urbano e digitale sarebbero i tre ambienti attraverso i quali l’uomo intesse relazioni.(2) In questo senso il terzo ambiente potrebbe essere letto come un tentativo di mediazione ulteriore. È però centrale il rapporto che intrattiene con gli altri due ambienti: se cioè è immaginato separatamente o in modo complementare.

C’è una tendenza diffusa a ridurre lo spazio sotto i cambiamenti generati dalla digitalizzazione e dalla globalizzazione, proponendo schemi dicotomici simili a quelli riportati precedentemente – dallo spazio dei luoghi e del corpo, allo spazio dei flussi e dei bits. Assiomatiche che danno una lettura univoca e unidirezionale di fenomeni complessi. Il discorso è ovviamente complesso: l’ambiente naturale, quello urbano e quello artificiale si compenetrano, si contestualizzano e localizzano continuamente; sono immersi l’uno nell’altro. Il cyberspace non è – non è ancora – un luogo totalmente altro, indipendente dalla realtà “fisica”: è piuttosto profondamente legato ad essa, ne è condizionato e la condiziona. D’altro canto la globalizzazione non significa il totale venire meno dello spazio, dei confini e dei limiti: perché lo spazio è composto da molteplici traiettorie differenziali e anche i processi di globalizzazione si riteritorializzano continuamente. L’apertura della globalizzazione è sostanzialmente a-spaziale, continui processi di delimitazione e materializzazione sono rintracciabili nell’espansione dell’ambiente digitale e della globalizzazione.

Analizzando gli studi sul rapporto tra spazio, luogo e il sistema di informazione e comunicazione, Graham (1998) individua tre prospettive diverse alle quali è utile fare riferimento. Una determinista, che vede una progressiva sostituzione, una sorta di rimpiazzamento, dell’umano dal tecnologico. Declinato anche in un’ottica trascendentale, è sostanzialmente il discorso che propone la fine della geografia. Gli altri due punti di vista individuati da Graham sono più predisposti a una complementarità dei vari componenti. Uno esplora la possibilità e le condizioni di una coevoluzione e l’altro, a partire da una prospettiva relazionale, adopera la teoria dell’Actor Network e dell’assemblaggio per risignificare le relazioni e la costruzione della soggettività di fronte a oggetti e soggetti non umani o non organici. Vorrei ripercorrere alcuni aspetti di queste diverse impostazioni teoriche, nelle quali emergono le complessità, le sfide e le difficoltà proposte dai mutamenti spazio-temporali degli ultimi decenni.

Tempi

Sotto l’ombrello del determinismo sono compresi diversi approcci, accomunati da una sorta di ineluttabilità di fronte al progredire della globalizzazione e dalle contrapposizioni ripercorse nel secondo paragrafo. Il più interessante e incisivo è forse quell’ordine del discorso che, in un senso conclusivo, appone -less dopo “space” o “time”. Ruotando intorno alla riduzione della distanza, si darebbero, in base alle rispettive argomentazioni e conclusioni, una città “spaceless” (Pawley 1995), senza spazio – cioè non determinato dal luogo –, o un tempo “timeless”, senza tempo – inteso nella sua dimensione misurabile. Uno spazio inconsistente, nel quale la distanza è annullata grazie alle inedite condizioni della comunicazione e del trasporto. Oppure, ma il significato è molto simile, uno spazio globale accessibile nel tempo di un click: dunque un tempo senza durata, indipendente dalla determinazione spaziale; un tempo che annichilisce lo spazio, è la nota tesi di Paul Virilio.

Virilio individua nella temporalità accelerata il quid della globalizzazione: il tempo proprio del post- moderno, talmente incisivo da modificare la nostra percezione di essere al mondo. Questa accelerazione è dovuta all’avanzamento della cibernetica quanto allo sviluppo tecnologico delle telecomunicazioni, all’estensione del web e molti altri fattori connessi; non solo comporta il venire meno delle barriere e dei confini, incentivando una inter-relazione complessa tra i vari luoghi all’interno della rete globale, ma rende obsoleto il movimento stesso. La distanza e le dimensioni dello spazio materiale perdono progressivamente valore di fronte a un centro immateriale e diffuso che propaga i flussi di informazione. L’idea è che questo tempo non necessiti movimento e che si esprima in presa diretta: il suo luogo – la megalopoli della comunicazione telematica globale – è il virtuale, il quale, emancipandosi dallo spazio materiale, comporterebbe un trasferimento di affetti, relazioni, azioni e quant’altro su un piano digitale prettamente visivo. Lo spazio risulta svuotato del tempo:

non più lo spazio “geografico” delle bionde colline della Toscana sotto il sole del Rinascimento italiano, spazio “geometrico” che aveva saputo forgiare, tramite il rilievo prospettico, una visione durevole del mondo vicino; ma lo spazio dell’oltre-cielo e dell’oltre-mare, vale a dire “spazio cosmico” la cui l’oscurità non è più tanto quella dovuta all’assenza di sole, quanto la notte di un tempo senza spazio” (Virilio 1997, p.24)

Estendendo il discorso, Virilio sostiene la capacità dei flussi di informazione di piegare tutte le “durate” locali a un’unica temporalità indifferenziata, cioè a un unico spazio e a un unico tempo (“timeless time”): una forza corrosiva in grado di annichilire la materialità dello spazio-tempo. Un esempio significativo è l’idea della Guerra del Golfo come Guerra Mondiale: non perché avvenuta in uno spazio mondiale: non è stata una guerra localizzata in più luoghi in tutto il mondo, ma è avvenuta in un tempo globale, in “real time”, grazie ai flussi di informazione televisivi e informatici che hanno permesso l’uniformazione di un tempo singolare per tutte le varie zone del globo. Geert Lovink (2002) individua un esempio del mutamento di paradigma temporale analogo nell’ideazione dell’“Internet time” da parte della Swatch nel 1998. Si tratta di un sistema decimale alternativo per misurare il tempo che comporta l’eliminazione dei fusi orari, dividendo il giorno di 24 ore in 1000 beats, nuova unità di tempo pari a 1 minuto e 28 secondi, uguali in tutto il mondo. È interessante come tentativo, nonostante il mancato successo – per ovvi motivi – e può essere considerato come emblematico della figurazione temporale (e quindi spaziale) del terzo millennio. Un tempo slegato dalla collocazione spaziale, da Greenwich o dalla segmentazione in 24 zone del pianeta, in favore di una nuova percezione globale del tempo. Sempre Tiziana Terranova lega brillantemente queste concezioni temporali alla questione della sostituzione e contrapposizione operata grazie agli sviluppi delle ICT dello spazio materico e spazio virtuale:

Le tecnologie della comunicazione non si limitano a collegare tra loro le diverse località. Vie e strade, canali e ferrovie, telegrafi e satelliti modificano la velocità con cui merci, idee, microrganismi, animali e persone si incontrano e si trasformano a vicenda. Modellano attivamente ciò che collegano creando nuove configurazioni topologiche e contribuendo effettivamente alla costituzione di entità geopolitiche come città e regioni, o nazioni e imperi.” (Terranova 2004, p.40)

Anche Doreen Massey (2003) argomenta contro l’idea di uno spazio annichilito dal tempo. Secondo la geografa statunitense la teoria di Virilio conterrebbe una confusione di fondo: ciò che sembrerebbe essere ridotto dall’istantaneità dello schermo attraverso il quale comunichiamo è proprio il tempo, mentre ciò che risulta espanso è lo spazio. Infatti la proliferazione di network non fa altro che creare nuove relazioni sociali e dunque nuovi spazi. Se lo spazio non si riduce alla distanza, ma è invece la sfera della molteplicità, non è ridotto dal cyberspace, piuttosto ne risulta arricchito. Infatti, anche considerando lo spazio virtuale come uno spazio di altro tipo, non si può negare che anch’esso da luogo a molteplici traiettorie e relazioni. Massey organizza la sua argomentazione partendo dagli assunti di Bauman (2000) sulle conseguenze di quelli che chiama “software capitalism” e “light modernity”. Bauman qui sostiene l’irrilevanza dello spazio dal momento in cui ogni spazio può essere raggiunto nello stesso intervallo temporale, ogni luogo può essere visitato-visto se lo si desidera, nessuna parte dello spazio ha più una specificità dovuta alla distanza-durata del movimento necessario per raggiungerla. Massey ribadisce come lo spazio sia qui ridotto a pura estensione, alle assi cartesiane xy: in questo senso quindi se visitare un luogo comprende le relazioni che si costruiscono durante la visita, l’analisi dei mutamenti introdotti del cyberspace, dall’accelerazione, dalla rivoluzione delle ICT, è piuttosto da spostare sulle nuove forme relazionali che creano, chiedendosi “quali tipi di molteplicità (pattern di unicità) e relazioni saranno co-costruiti attraverso queste nuove configurazioni spaziali” (Massey 2003, p.91).

In questo senso anche la temporalità è più complessa: eventi e processi si intrecciano attraverso lo spazio e il tempo diventa una struttura multipla, composta da traiettorie che si incrociano. La simultaneità fa venire meno la distanza spaziale e la successione temporale, complicando il quadro relazionale che diventa un vero e proprio network che attraversa il network. Luoghi e momenti si sovrappongono in modo indeterminato, viene meno l’idea di uno spazio-tempo consono per ogni cosa: “la pratica della condivisione del tempo ha prodotto una ulteriore elisione. L’antico, apparentemente non problematico concetto di hic et nunch – ciò che è qui e ora – inizia a logorarsi” (Mitchell 2003, p.13). In questo quadro i processi di deteritorializzazione e riteritorializzazione della globalizzazione sono essenziali per comprendere l’inter-relazione e la co-costruzione dello spazio-tempo. Apertura e chiusura, dislocamento e creazione di nuovi confini, smaterializzazione e controllo dei corpi: è necessario adottare una visione relazione e co-evoluzionista proprio per far cadere gli schemi dicotomici che dividono e dominano l’ordine del discorso spaziale, comprendere i concatenamenti in atto e proporre vie di fuga. Per questo Massey si propone di ricostruire una narrativa “genuinamente spaziale” e che offra un altro punto di vista sulla globalizzazione, che non sia unilaterale e teleologica, ma che possa ricontestualizzare e riconcettualizzare lo spazio e il tempo insieme.

Ricorrendo alla metafora da cartone animato del mondo che si “restringe”, perdiamo di vista le complesse relazioni tra capitale, tecnologia e spazio, per le quali lo spazio non si sta “restringendo” ma piuttosto deve essere continuamente rielaborato” (Graham 1998, p.175)

 

Agenti

Caratteristica del “villaggio globale” è la possibilità di svolgere molte attività, lavori, relazioni, a prescindere dal luogo in cui avvengono, cioè dai luoghi da cui ci si connette. Secondo Mitchell (1996) verrebbe meno anche la dimensione tradizionale di leggibilità civica: se la geografia costruisce rappresentazioni chiare (nelle interazioni umane ci sarebbe una sorta di “geocode’s key”), il Net despazializzato sembrerebbe far venire meno questo limite: “non c’è qualcosa come un indirizzo migliore e non puoi tentare di definire te stesso facendoti vedere nei posti giusti e con le giuste persone”. Assistiamo anche un’alterazione della rappresentazione architettonica della città: un’ambiguità data dal sovrapporsi e dalla compresenza di luoghi fisici e analoghi digitali; alcuni movimenti fisici che corrispondono a una divisione sociale sono stati sostituiti da corrispettivi s-corporati. Mitchell insiste sulla funzione della distinzione nella costruzione degli edifici: una diversa rappresentazione corrisponde a una diversa divisione sociale, l’idea vitruviana del decoro architettonico. La strutturazione di un edificio o di una città riflette la gerarchia sociale dell’istituzione che ospita – Mitchell cita la famosa frase di Churchill “we make our buildings and our builings make us”. Dunque se si estende quest’idea alla città digitale (telepolis), lo spazio costruito sarebbero le reti, le connessioni, le interfacce d’accesso: ci sarebbe una significativa differenza ideologica in questa forma architettonica, che dissolve le costruzioni tradizionali e i pattern spazio-temporali. Qual è poi la gerarchia sociale di uno spazio articolato reticolarmente? Che tessuto sociale creano le techno-circostanze del terzo ambiente? Non si tratta di una orizzontalizzazione dello spazio grazie alla proliferazione di reti; piuttosto sembrerebbe rompere la corrispondenza tra organizzazione spaziale e soggettività o, meglio, sembrerebbe svelare l’ambiguità e lo s-confinamento dello spazio cioè la sua impossibilità di definirlo in base ai limiti che lo confinano. Non c’è un rapporto di contrapposizione tra flussi e luoghi, la loro consistenza è antecedente alla rete digitale – le città sono già strutturalmente reticolari. (3)

Questo è ovviamente solo una problematica tra le tante chiamate in causa dal rapporto tra costruzione fisica e digitale, ma quello che è sotteso in vari autori degli anni novanta è proprio un principio di sostituzione: l’universalizzarsi delle telecomunicazioni renderebbe obsoleta la rete delle grandi metropoli poiché: “la vicinanza, la concentrazione, le relazioni localizzate e i flussi di trasporto sono gradualmente sostituiti da un mezzo di comunicazione a banda larga, universalizzato e interattivo” (Graham, 1998, p.168). Effettivamente parte delle recenti scoperte tecnologiche sono avvenute all’interno di un paradigma determinista e progressista, atto a mediare e “adattare” sempre più l’uomo e i suoi bisogni. Si pensi alle macchine con il pilota automatico o alle case popolate da assistenti vocali, o ancora più esplicitamente all’internet of things; nello stesso orizzonte sono anche parte dei progressi nell’automazione del lavoro o nello smart working. È allora necessario non leggere una contrapposizione ma cercare un altro modo di relazionarsi alla pervasività tecnologica nello spazio. La prospettiva di co-evoluzione offre un efficace smascheramento, cercando di comprendere la contestualizzazione e localizzazione dell’ambiente digitale, di mostrarne le relazioni di potere e l’intersezione con il corpo e l’ambiente fisico. E sempre in questa direzione alcune teorie dell’assemblaggio possono essere utili per far venire meno la distinzione tra i vari enti e attori sociali, proponendo una cooperazione nella costruzione della realtà sociale che operi su più strati. Graham, nella sua ricognizione delle diverse prospettive, presenta l’approccio relazionale come un processo di agency condivisa, che cambia profondamente il modo in cui intendiamo lo spazio:

Spazi e tempi assoluti non hanno senso. L’agency è un processo puramente relazionale. Le tecnologie hanno effetti contingenti e diversi a seconda dei modi in cui vengono messe in relazione, dall’agency umana e tecnologica connessa, in specifici contesti sociali (…) Il cyberspazio deve essere quindi considerato come una molteplicità frammentata, divisa e messa in discussione da infrastrutture e actor-networks eterogenei.” (Graham, 1998,p.178)

In questo senso anche l’opposizione tra flussi accelerati e luoghi chiusi viene meno. Mobilità e fissità sono i presupposti l’uno dell’altro, non è possibilità polarizzarli in maniera esclusiva, c’è una articolazione reciproca tra locale e telemediato. Questo diverso approccio comporta la demistificazione dei rapporti di potere e dei processi di produzione dello spazio: nell’apparente aspazialità della globalizzazione e del Net ci sono precise geometrie di potere, che creano parallelamente forme di marginalizzazione ed esclusioni. Nella dissoluzione della distanza assistiamo dunque a una estensione del potere: forme di esclusione che non si limitano alla creazione di nuovi paesaggi urbani tagliati fuori dalla rete, all’egemonia della banda larga. In sostanza una prospettiva coevoluzionista fa emergere come le “nuove tecnologie sono inevitabilmente iscritte in complesse lotte di potere sociale, entro le quali si producono sia nuovi sistemi tecnologici sia i nuovi paesaggi geografici materiali” (Graham 1998, p.181). Un doppio movimento che mentre da un lato estende su scala “globale” il mercato e la comunicazione, dall’altro crea punti di connessione immobili, siti di produzione, zone urbane tagliate fuori da questo processo, nuove forme di lavoro assoggettate.

Mettendo in rapporto i due termini ci si rende conto dell’intreccio causale che li lega: il diagramma della rete ha messo in connessione causale luoghi distanti, flussi digitali su corpi materiali, azioni virtuali su relazioni materiali, mostrando quanto siano labili i confini. L’idea di una sostituzione, come si è visto, è profondamente segnata da una costruzione trascendentale, è però innegabile un continuo scambio tra corpo umano e mediazione tecnologica, una crescente pervasività dell’ambiente digitale in quello fisico. Nei giorni in cui scrivo la quarantena imposta a seguito dell’emergenza – irruzione dell’imprevedibile? – che stiamo vivendo mostra il carattere ambivalente della spazialità: da un lato l’apertura dei confini della globalizzazione, la libertà di spostamento, la circolazione, non solo si trova improvvisamente arrestata, ma si è dimostrata vettore di trasmissione di un virus che ha reimposto nuove delimitazioni e chiusure. Dall’altro questo “confinamento” ha incentivato l’utilizzo della mediazione digitale nella comunicazione, nel lavoro, l’istruzione e quant’altro, comportando un ulteriore s-confinamento e ricollocamento degli ambienti domestici in cui siamo costretti. Franco ‘Bifo’ Berardi, in un recente articolo, analizzando questa migrazione di funzioni e attività mette in luce un aspetto essenziale nella composizione del nostro rapporto con il digitale:

Rifletto sul modo in cui sta mutando il rapporto tra offline e online durante il diffondersi della pandemia. E provo a immaginare il dopo. Negli ultimi trent’anni l’attività umana ha cambiato profondamente la sua natura relazionale, prossemica, cognitiva: un numero crescente di interazioni si è spostato dalla dimensione fisica, congiuntiva – in cui gli scambi linguistici sono imprecisi e ambigui (e quindi infinitamente interpretabili), in cui l’azione produttiva impegna energie fisiche, e i corpi si sfiorano e toccano in un flusso di congiunzioni – alla dimensione connettiva, nella quale le operazioni linguistiche sono mediate da macchine informatiche, e quindi rispondono a formati digitali, l’attività produttiva è parzialmente mediata da automatismi, e le persone interagiscono sempre più densamente senza che i loro corpi si incontrino. L’esistenza quotidiana delle popolazioni è stata sempre più concatenata da congegni elettronici correlati a enormi masse di dati. La persuasione è stata sostituita dalla pervasione, la psicosfera innervata dai flussi dell’infosfera. La connessione presuppone un’esattezza glabra, senza peli e senza polvere, un’esattezza che i virus informatici possono interrompere, deviare, ma che non conosce l’ambiguità dei corpi fisici né gode dell’inesattezza come possibilità.” (4)

In modo simile alla variabilità locale richiamata da Massey e l’accident-form di Massumi, anche in questo caso la differenza, l’ambiguità, l’imprevidibilità non invocano un romantico rimpianto della corporeità, di una prerogativa umana, ma piuttosto mettono in luce il tipo di concatenamento che costruiamo con le mediazioni tecnologiche che adoperiamo. Nel terzo ambiente e nella globalizzazione vi sono continui tentativi di purificazione dello spazio, di creazione di comunità contigue e omologate, cercando di ridurre una caratteristica irriducibile della spazialità fisica: l’imprevisto, la novità, l’evento. Ridurre lo spazio a una questione di distanza mira a semplificarne le strutture relazionali, a evitare i suoi elementi più distruttivi/produttivi, che consistono proprio nella presenza dell’accidentale, del non-determinato. Un aspetto essenziale della macchina invece è proprio il suo automatismo, il suo tentativo di approssimarsi all’esattezza e di evitare l’accidentale.

La modificazione reciproca che intercorre tra corpo fisico e sé digitale, tra spazio materiale e spazio virtuale, non è solamente su un piano percettivo e semiotico. In questo senso l’idea di una coevoluzione implica uno sviluppo parallelo, sconfinante. Tante articolazioni quante sono le diverse relazioni che si instaurano: in questo senso quindi vi è una contiguità e compenetrazione maggiore non solo tra i vari soggetti ma anche tra oggetti e spazi mediatori. Mentre da un lato si smaterializza attraverso un marketplace l’azione corporea dell’acquisto, dall’altro l’ambiente digitale dei “grande magazzino” online ha le sua materializzazione su luoghi di smistamento fisici, sui corpi affaticati dei corrieri che compiono le consegne. Non solo è necessario comprendere le traiettorie messe in gioco dalle varie techno-circostanze, ma analizzare come l’uomo, compensando il suo dis-adattamento, abbia sviluppato una tendenza comune a tutte e tre gli ambienti tracciati da Echeverria (naturale, urbano, digitale). Attraverso la spaccatura trascendentale di questi ambienti, il loro allontanamento attraverso processi di oggettivazione-reificazione, il soggetto occidentale attua una feroce tendenza proprietaria ed estrattiva. È essenziale non vedere lo spazio digitale non esente da questa attitudine: l’implicazione non è solo nell’inevitabile e continuo legame con gli altri due ambienti, ma è interno ad esso. Il capitalismo estrattivo ha una sua politica spaziale, rintracciabile ad esempio nelle pratiche di profilazione e data mining; la proprietà monopolitistica dei server; la strutturazione dell’ambiente digitale come luogo chiuso e individualizzato secondo finalità di profitto e la marginalizzazione di fasce sociali attraverso l’utilizzo dei dati. Ripercorrere le pratiche di soggettivazione interne al terzo ambiente, il modo in cui s-sconfinano negli altri due e si condizionano reciprocamente deve allora condurre a una trasvalutazione e un ri-assemblaggio che trasformi questi processi di verticalizzazione e assoggettamento in linee di fuga sostanziali e sovversive. In altri termini: proliferano i processi di astrazione e oggettivazione dello spazio, i tentativi attraverso il digitale e lo globalizzazione di aprire senza confini pratiche di confinamento: predizione, automatizzazione, dis-incarnamento dei corpi, divisioni e marginalizzazioni. Altrettante però possono essere le linee che spezzano questi meccanismi, ricollocando lo spazio nell’orizzonte del possibile, della potenza delle congiunzioni: non il dominio sull’accidentale ma l’imprevedibile dello spazio in divenire.

Note

(1) Sulla dicotomia del cyberspace: dall’utopia hippie 2.0 alla sovversione cyber punk, da sogno collettivo a incubo solipsistico. Kevin Robins (1995) definisce l’approccio alle teorie sul cyberspace una “tunnel vision”, quella situazione medica che porta qualcuno a vedere solamente ciò che è davanti a sé: trasponendo la “realtà virtuale” in uno spazio-tempo migliore, desiderabile, in un futuro prossimo contrapposto al presente della “realtà”. Nell’immaginario anni ’90 il cyberspace era per molti una eutopia e outtopia, come qualcosa di positivo che non è qui. Il cyberspace è in ogni luogo e dovunque. Nei suoi aspetti svincolati è stato immaginato come “una comunità virtuale consensuale” (Stone 1990). Di rovescio, com’è noto, William Gibson l’ha definito invece come una “allucinazione consensuale vissuta quotidianamente da miliardi di persone… una complessità impensabile” (1986): un eccesso di connessione, di relazione, di complessità.

(2) Questa prospettiva, mutuata da Ortega, sembrerebbe associabile a una particolare antropologia negativa che percepisce l’uomo come animale dis-adattato, strutturalmente inappropriato per il mondo nel quale nasce e quindi ne cessariamente intento a costruire mediazioni per creare un ambiente il più possibile soddisfacente. Per forza di cosa è intento a creare delle circostanze, a differenza degli altri animali che vengono al mondo accompagnati da un ambiente tendenzialmente coerente in maniera immediata, che si con fa alle inclinazioni prederminate. La teoria del dis-adattamento dell’uomo è stata formulata dal biologo Jakob Johann von Uexküll; ripresa nel ‘900, tra gli altri, da Gunther Anders e da Deleuze e Guattari.

(3) La città è creata e crea a partire dalla sua circolazione, dalle articolazioni e dai circuiti che connette, “è un fenomeno di transconsistenza, una rete, perché è fondamentalmente in rapporto con altre città. (…) Le città sono punti-circuiti di ogni natura ” (Deleuze e Guattari 1980, p.594).

(4) F. Berardi, “Reset – cronaca della psicodeflazione, parte seconda”, Not, 26 marzo 2020.

Bibliografia

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