Ungheria, Argentina, Usa, Italia: anarco-capitalisti e tecno-fascisti contro l’ultimo bastione dell’intelligenza collettiva
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img generata da IA – dominio pubblico
di S. Simoncini
Javier Milei, attuale presidente anarco-capitalista argentino, ha attaccato fin dall’inizio del suo mandato il sistema della formazione superiore pubblica. In realtà già diversi anni prima della sua elezione, e poi soprattutto nella campagna elettorale del 2022, fino al suo recente discorso anti woke a Davos, ha continuato a reiterare l’idea che le università pubbliche sono “Centros de adoctrinamiento marxista”, bastioni della “wokeness” e dell’elitismo che sottraggono soldi ai poveri per darli ai ricchi. In linea con la sua missione di marvelliano eradicatore di sprechi e privilegi pubblici, ha conseguentemente adottato da presidente politiche di austerità contro le università, tagliando stipendi e borse di studio, e congelando il finanziamento annuale nonostante l’inflazione al 288%. Le sue misure hanno fatto divampare quella che a tutt’oggi è stata l’unica vera protesta di massa nel paese contro il governo Milei, con la più grande “marcha federal” dell’ultimo ventennio, tra 400 e 800 mila persone che si sono riversate in Avenida de Mayo “en defensa de la universidad pública“, e poi con 65 facoltà occupate, scioperi, lezioni in piazza, blocchi stradali e cacerolazos. Ad oggi si protrae un braccio di ferro che ha visto Milei da un lato porre il veto a una legge votata dal Congresso per adeguare il bilancio annuale all’inflazione, dall’altro provare a fare qualche limitata concessione e rassicurazione per smorzare le proteste, che hanno poi subito una flessione per la pausa estiva.
Non sorprende che si sia espresso in modo molto simile a Milei anche Donald Trump, affermando già in avvio della campagna elettorale per le ultime presidenziali, in un video del luglio 2023, che la sinistra radicale “have allowed our colleges to become dominated by Marxist Maniacs and lunatics”. In un altro video del novembre 23, aveva rilasciato altre dichiarazioni di fuoco: “We spend more money on higher education than any other country, and yet they’re turning our students into communists and terrorists and sympathisers of many, many different dimensions”. Nello stesso video annunciava inoltre di voler tassare i patrimoni delle grandi università del paese per creare l’American Academy, una università online pubblica e gratuita di diretta emanazione del governo federale che, in modo alquanto contraddittorio, “It will be strictly non-political, and there will be no wokeness or jihadism allowed”. Peccato che questa si sia infine convertita nella gratuita, ancorché privatissima università online della Presidential Administration Academy legata al Project 2025, ovvero il centro di reclutamento e formazione della futura classe dirigente ultra-conservatrice che dovrà abbattere definitivamente l’assetto costituzionale Usa.
Alle parole sono infine seguiti i fatti, anche se come negli altri ambiti c’è una certa distanza tra i suoi annunci e le misure effettivamente intraprese da Trump.
The Donald ha effettivamente alzato le tasse sui patrimoni degli atenei e, solleticando la pancia antiscientista del suo elettorato, ha tagliato i fondi dei National Institutes of Health (NIH), agenzia che sostiene la ricerca biomedica e comportamentale di 2500 istituti USA, per la maggior parte universitari, con quasi 47 miliardi all’anno. I tagli, che dovrebbero corrispondere a circa il 15% del finanziamento complessivo sono stati al momento sospesi dai tribunali federali, ma se dovessero passare, oltre a colpire, come afferma il The Guardian, una “unimaginable range of investigations”, che vanno dalle principali cause di morte come il cancro e le malattie cardiache alla salute pediatrica, avrebbero un impatto economico complessivo su college e università, in quanto intaccherebbe le spese generali, penalizzando anche discipline umanistiche e scienze sociali. A questo si aggiunge la nomina da parte di Trump a capo delle NIH di un docente di Stanford noto per le sue posizioni No-vax durante la pandemia, un ulteriore chiaro segnale delle valenze antiscientifiche dell’attacco all’università, insieme ad altre iniziative che vengono ormai interpretate senza mezzi termini dalla stampa, anche da riviste come Nature o Science, come un “assedio alla scienza” – evidentemente a sostegno di scelte politiche come il ritiro degli Usa dagli accordi di Parigi o il ritorno alle fonti fossili. L’obiettivo dell’attuale governo, secondo i vertici delle istituzioni universitarie interpellate dall’articolo citato del The Guardian, è quello di “‘dismantle’ higher education”. Non si tratta infatti di misure improvvisate. Le stesse misure Trump aveva cercato senza successo di introdurle nel 2017 durante il primo mandato, quando il suo governo era più debole e il congresso più capace di contrastarlo, ma soprattutto il senso di queste misure si trova descritto compiutamente nel famigerato “Project 2025”, il programma di ultra-destra della Heritage Foundation che è stato abbracciato da Trump fin dal suo primo mandato. La versione aggiornata del Progetto, realizzata a sostegno della candidatura di Trump, descrive in modo molto chiaro il disegno di smantellamento dell’istruzione superiore pubblica, rispolverando apertamente il modello ultraliberista di Milton Friedman per una educazione secondaria privatizzata e del tutto subordinata alle leggi di mercato. Questa è il passaggio decisivo:
La politica federale per l’istruzione superiore dovrebbe andare oltre i sussidi massicci, inefficienti e illimitati a college e università “tradizionali”. Dovrebbe essere riequilibrata per concentrarsi molto di più sul rafforzamento delle competenze della forza lavoro degli americani che non hanno alcun interesse a conseguire una laurea quadriennale. Dovrebbe riflettere un quadro più completo dell’apprendimento dopo la scuola superiore, ponendo programmi di apprendistato di tutti i tipi e istruzione professionale e tecnica su un piano di parità con le lauree di college e università. Invece di continuare a sostenere un istituto di istruzione superiore ostaggio dei woke “diversicrati” [diversicrats] e il monopolio di fatto imposto dal cartello di accreditamento federale, la politica federale per gli studi superiori dovrebbe preparare gli studenti a inserirsi in un’economia dinamica, coltivare la diversità istituzionale ed esporre le scuole a maggiori forze di mercato. (1)
La visione è chiara, gli obiettivi altrettanto: smantellare l’istruzione superiore pubblica e di massa, affermando una visione privatistica, mercatista e fondamentalmente classista della formazione superiore. Certamente quello universitario negli Stati Uniti è un sistema già ampiamente privatizzato e segmentato tra atenei pubblici e privati, college e università, campus Ivy League, Ivy plus, New Ivies, Little Ivies. Ma insieme ai costi medi esorbitanti ci sono anche molti strumenti governativi che garantiscono sussidi per studenti e finanziamenti per i giovani ricercatori, in genere erogati da agenzie che, come i National Institutes of Health (NIH), godono di una certa autonomia dal governo federale. Perciò, gli obiettivi fondamentali di questo piano ultra-conservatore e ultra-liberista sono fondamentalmente due, quello di smantellare l’università come luogo di formazione di coscienza critica e di socializzazione del sapere scientifico, così come quello di tornare a innalzare steccati di classe invalicabili in una società profondamente polarizzata.
Tutto ciò emerge con ancora maggiore chiarezza se da Trump ci spostiamo al suo principale cane da guardia, il vicepresidente J.D. Vance, il quale in una intervista di un anno fa, oltre a dichiarare di voler cancellare le esenzioni fiscali alle università e contrastare la “burocrazia universitaria focalizzata su diversità, equità e inclusione”, ha elogiato il primo ministro ungherese Viktor Orbán per aver spezzato il “dominio della sinistra nelle università” prendendo il controllo degli atenei statali. Secondo Vance, per questo motivo Orban dovrebbe essere preso a modello dai conservatori negli Stati Uniti. Ma il suo attacco all’università Vance l’ha lanciato qualche anno prima, nel novembre del 2021, durante la campagna elettorale che lo ha condotto a essere eletto come senatore. Nel suo discorso intitolato “The universities are the enemy”, Vance ha affermato:
Molto di ciò che vogliamo fare in questo movimento e in questo paese, penso, dipenda fondamentalmente dal passare attraverso una serie di istituzioni molto ostili, e in particolare le università, che controllano la conoscenza nella nostra società, che controllano ciò che chiamiamo verità e ciò che chiamiamo falsità, che forniscono ricerche che danno credibilità ad alcune delle idee più ridicole che esistono nel nostro paese. Se qualcuno di noi vuole fare le cose che vuole fare per il nostro paese e per le persone che ci vivono, dobbiamo attaccare onestamente e aggressivamente le università di questo paese.
Il modello Orban è stato sinteticamente descritto da Tomaso Montanari nel suo recente discorso per gli Stati di agitazione, una mobilitazione nata in risposta ai piani di riforma dell’università, altrettanto ultraconservatori di quelli statunitensi, dell’attuale governo Meloni. Montanari spiega come nell’Ungheria di Orban “nel 2014 è stata imposta ad ogni ateneo la figura del ‘cancelliere’ di nomina governativa, che ridimensionava l’autorità del rettore eletto dalla comunità, assumendo pieni poteri su bilancio e personale; l’anno dopo, i consigli d’amministrazione universitari sono stati sostituiti da ‘concistori’ composti dal rettore, dal cancelliere e da tre personalità nominate dal governo su indicazione di organizzazioni professionali: già così l’autonomia universitaria era di fatto cessata”. Ma il colpo di grazia al sistema delle università pubbliche è arrivato nel 2019: “ventuno università sono state affidate a fondazioni istituite per legge, sottoposte a un ferreo controllo governativo (i loro organi direttivi sono stati riempiti di politici del partito al governo, in un primo momento nominati a vita…) e finanziate da fondi fiduciari aperti a capitali privati, mentre solo sei sono rimaste pubbliche: oggi il 64% degli studenti ungheresi si trova nelle università-fondazioni dirette sostanzialmente da Orbán”.
Occorre infatti sapere che anche in Italia si sta cercando di mettere in atto un disegno di riforma dell’università riconducibile, per finalità e modalità, alla linea dell’internazionale nera di Orban, Milei, Trump. La sequenza di questo disegno è stata finora la seguente, meno lineare per fortuna di quella di Orban, e meno esplicita di quella di Trump. Se vogliamo più simile a quella a singhiozzo di Milei. Prima sono venuti i consistenti tagli al Fondo di Finanziamento ordinario già approvati – nonostante la ministra dell’Università Anna Maria Bernini affermi il contrario – ma la matematica non è un’opinione per chi sa fare di conto. Poi si è puntato alla precarizzazione della forza lavoro per sostenere i tagli e indebolire il dissenso tramite il Ddl 1240, in una situazione dove in Italia, come negli Usa, già la metà della forza lavoro impiegata tra ricerca e docenza, è precaria: più di 30.000 ricercatori giovani e meno giovani. Il Ddl prevedeva infatti un’ulteriore moltiplicazione di figure precarie prive di tutele, e un’estensione della durata complessiva del lavoro precario per il singolo ricercatore. A seguito della composita e crescente mobilitazione che si è sviluppata, non così dispiegata come in Argentina ma sicuramente più forte e decisa che negli Usa, grazie al moltiplicarsi di “assemblee precarie” e mobilitazioni in moltissimi atenei, pochi giorni fa la Ministra ha annunciato di voler ritirare il disegno di legge che stava seguendo l’iter parlamentare. Probabilmente sta cercando di puntare su una riforma più complessiva, quella annunciata attraverso la legge delega A.S. 1192 che, come spiega un articolo della Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC) della CGIL, “propone una delega in bianco al governo per intervenire su governance degli atenei, principi dell’autonomia didattica, stato giuridico della docenza (orari e impegni), ASN, chiamate e VQR, oltre che su AFAM e Enti di Ricerca”. Il DdL giace per ora al Senato, ma con uno specifico decreto ministeriale, il n. 1591 è stato istituito un gruppo di lavoro che sta definendo interventi su questioni fondamentali come la riforma dell’FFO, ovvero proprio il Fondo di Finanziamento Ordinario che sostiene i costi di personale e delle infrastrutture delle università pubbliche. Da quanto si è capito da alcuni interventi sui giornali di alcuni componenti del gruppo di lavoro, come Andrea Graziosi o Stefano Paleari, ma anche di altri docenti vicini al governo e ispiratori delle riforme in cantiere, come Ernesto Galli della Loggia, la riforma sta assumendo contorni inquietanti. A parte la considerazione che siano proprio due storici tra i maggiori alfieri di questa riforma, mentre Galli della Loggia reitera attacchi all’autonomia universitaria, Andrea Graziosi si candida al ruolo di becchino dell’università pubblica di massa, sostenendo in diversi articoli diffusi dal megafono governativo del quotidiano Il Foglio, che in considerazione delle trasformazioni in atto, tra inverno demografico e contrazione del mercato del lavoro, l’istruzione superiore ha esaurito il suo ruolo culturale e sociale (2). Non serve più ad alimentare coscienza critica, per questo basta e avanza la scuola secondaria. E soprattutto è una balla che l’università serva ad appianare le differenze e favorire la coesione sociale. Perché l’università è al contrario un formidabile strumento di produzione di differenze e quindi di riproduzione delle disuguaglianze. A seguito di questi luminosissimi ragionamenti la sua conclusione è che occorre restringere il perimetro dell’università pubblica, concentrando le risorse sulle eccellenze, perché è ncessario “aiutare i forti per poter continuare ad aiutare i deboli”.
Insieme ad altre indicazioni ministeriali emerse negli ultimi giorni, si comprende come si voglia arrivare a una situazione di ridotta autonomia finanziaria degli atenei, con un controllo politico diretto dei conti con il pretesto della razionalizzazione, ma soprattutto a una segmentazione sul modello americano tra università di serie A, centri di eccellenza per didattica e ricerca, e “college” di serie B, concentrati nel centro-sud, prevalentemente orientati alla didattica su pochi settori disciplinari. La parola d’ordine è sfrondare i rami secchi, in termini settoriali, ovvero i corsi con pochi studenti e le discipline che sono giudicate poco produttive per il complesso militare-industriale, e in termini geografici, sacrificando o accorpando università in territori in cui c’è poco potere di acquisto e poca offerta di lavoro.
In questi deserti formativi può essere sufficiente, per chi proprio volesse, affidarsi alle università telematiche che possono essere considerate l’“avanguardia della privatizzazione”.
Questa è l’università nera promossa dall’internazionale anarco-tecno-capitalista, un’università privatizzata e segmentata, per lo più riservata alla classe dominante e controllata dal potere esecutivo, sia con strumenti finanziari che di controllo diretto. Su quest’ultimo punto in Italia si sta inserendo nel mosaico finora descritto un altro tassello “orbaniano”, con il cosiddetto Ddl sicurezza (S.1236) (“disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”), che estende i poteri delle agenzie di intelligence verso università ed enti di ricerca, introducendo obblighi di collaborazione e deroghe alla riservatezza.
Questo disegno di università nera è già stato ampiamente analizzato e descritto in un libro non recentissimo curato dallo scienziato politico John Aubrey Douglass, docente della University of California – Berkeley (3). Il quadro che ne emerge, ancor prima del secondo mandato Trump e dell’ascesa di Milei e Meloni, è impietoso, e dimostra come ascesa di regimi autoritari e declino dell’università pubblica procedano di pari passo a livello globale. Il quadro interpretativo del libro evidenzia come l’università pubblica possa essere uno strumento dei poteri autoritari, ovvero un argine agli stessi e grande motore di cambiamento sociale: in alcuni contesti e fasi si fa spazio di elaborazione collettiva per l’allargamento della base democratica e dei diritti degli stati, in altri diventa il terreno principale in cui si gioca l’involuzione democratica. Al contrario di quanto afferma lo storico più miope della storia Andrea Graziosi, Douglass dimostra come le università possano essere “agenti di cambiamento sociale ed economico o agenti che rafforzano e supportano un ordine sociale e politico esistente” (p. XII). Ma possono anche mantenere una posizione intermedia, a volte resistendo agli aspetti peggiori del nazionalismo attraverso una sorta di inerzia, aspettando un momento successivo per emergere come agenti socialmente trainanti. In questa visione c’è chiaramente la memoria di cosa sia stata Berkley a partire dal 1964 per il Free Speech Movement (FSM), animato tra gli altri dall’oriundo siciliano Mario Savio.
Eppure oggi i campus Usa restano più o meno silenti, dopo la fiammata antisionista contro l’osceno genocidio del popolo palestinese, che non ha retto nell’ondata repressiva efficacemente descritta in un ottimo articolo di Stefano Rizzo, con i campus militarizzati e gli atenei che sono arrivati alla richieste di abiure da inquisizione maccartista agli studenti.
Al contrario, in Italia sta crescendo, come si è accennato, un movimento che si sta opponendo a questo progetto di smantellamento dell’università pubblica da parte dell’internazionale nera. È, si diceva, un movimento ancora giovane e composito, e non dispiegato come in Argentina, ma che sta dando grandi prove di maturità nelle sue due anime fondamentali, una più movimentista (la rete di 14 assemblee precarie in altrettanti atenei del paese) e una più sindacale che riunisce moltissime sigle di associazioni, sindacati, coordinamenti e reti nella sigla di Stati di agitazione.
Si tratta di un movimento maturo perché ha compreso il suo ruolo decisivo, che va ben oltre i confini nazionali, che vede nella resistenza dell’università il terreno decisivo di una sfida che si gioca sul terreno della conoscenza.
A fronte del tecno-capitalismo che intende cooptare tutta l’intelligenza collettiva nelle macchine di proprietà delle oligarchie anarco-capitaliste big tech, e subordinarla sempre più a un’economia di guerra, si stanno alzando dal basso le barricate intorno agli ultimi bastioni del “general intellect” diffuso e non macchinico. I bastioni ancora fragili ma decisivi dell’università pubblica.
Note
1. Si veda P. Dans & S. Groves (edited by), Mandate for leadership. The conservative promise, The Heritage Foundation, p. 320. Consultato a:
https://whatisproject2025.net/wp-content/uploads/2024/06/2025_MandateForLeadership_FULL.pdf. Il capitolo sull’educazione lo ha scritto Lindsey M. Burke, che fa parte della Fondazione edChoice fondata dai coniugi Friedman, e cita esplicitamente un saggio del 1955 di Milton Friedman, “The Role of Government in Education” (https://la.utexas.edu/users/hcleaver/330T/350kPEEFriedmanRoleOfGovttable.pdf).
2. Andrea Graziosi, Università, questione di interesse nazionale, “Il Foglio”, 6 gennaio 2025.
3. Douglass J. A. (2021), Neo-nationalism and Universities: Populists, Autocrats, and the Future of Higher Education, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD).