Fine dell’antropocentrismo e futuro della Terra
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di V. Pellegrino
«L’animismo è l’unica versione sensata del materialismo.»
Vìveiros de Castro
Proseguendo nel lavoro di analisi dello stato di fatto presente e di elaborazione di conseguenti, concrete proposte di azione politica intrapreso nei miei precedenti articoli comparsi su Rizomatica, con il presente contributo mi prefiggo lo scopo di mettere in luce l’imprescindibile necessità di operare un radicale cambio di prospettiva con cui guardare ai problemi presenti, proprio al fine, in un’ottica di cambio di paradigma, di suggerire percorsi volti a un cambiamento radicale e, al contempo, praticabile. In questo proposito, l’utopia resta a fare da sfondo e da orientamento ma non costituisce il punto d’approdo della riflessione.
La miseria del quadro politico
Che la politica istituzionale sia del tutto inadeguata a fungere da traino a questo cambiamento e che, al contrario, rappresenti una parte non indifferente del problema, è più che mai evidente: i partiti politici, tenuti a rappresentare gli interessi dei loro elettori e ad attuare la loro volontà secondo la logica del mandato rappresentativo propria di questo metodo, non solo risultano indifferenti ai sempre più pressanti problemi delle persone, della società e dell’ambiente ma, a causa del loro asservimento agli interessi dominanti, divengono agenti di attuazione di questi stessi interessi, contribuendo ad aggravare i problemi che ci assillano.
Così come le dottrine economiche dominanti non sono quelle scientificamente accreditate ai fini del conseguimento del bene generale bensì quelle più funzionali al perpetuarsi degli interessi economici della classe dominante, analogamente la selezione e l’orientamento operativo del ceto politico professionalizzato rispondono ai medesimi interessi: non è pertanto sensato disquisire sulle diverse sfumature che distinguono un partito dall’altro in quanto ai soggetti che ne orientano l’azione non può essere riconosciuto il requisito, imprescindibile in ogni reale confronto politico, dell’onestà intellettuale. Il mondo dei partiti, nel quadro della politica istituzionale, risponde alla logica di mettere in scena un simulacro di confronto/scontro privo in realtà di una reale posta in gioco e finalizzato a turlupinare masse popolari sempre più ignoranti e incattivite.
Il metodo rappresentativo nella forma del partito politico costringe l’elettore-sovrano a scelte omologanti in quanto, dovendo scegliere un partito sulla scena dell’offerta politica, è costretto a aderirvi così come esso si propone, accettando in blocco le sue posizioni, anche quelle che, su determinati temi, non condivide. Chiusa, alla fine degli anni ’70, l’epoca delle ideologie totalizzanti e dei partiti di massa di ispirazione ideologica, scomparsa definitivamente, a seguito (ma non a causa) della caduta del blocco sovietico, l’opzione socialista/comunista dalla proposta politica partitica, gli elettori-sovrani si sono trovati davanti una serie di partiti personalistici e mediatici, il partito dei notabili, secondo la definizione che ne dà Max Weber nel suo “la Politica come professione”, o il partito pigliatutto, in base alla descrizione che ne fa Otto Kirchheimer. L’intero processo risponde comunque alla ferrea legge dell’oligarchia delineata da Robert Michels nel suo “Sociologia del partito politico”, legge che individua nei dirigenti di partito i veri dominus delle decisioni e delle scelte e che pone in evidenza come l’obiettivo fondamentale della loro azione sia la sopravvivenza dell’organizzazione, e non la realizzazione del suo programma. Rispetto a questo quadro già poco edificante, tracciato da Michels oltre un secolo fa, la situazione del contesto politico presente risulta enormemente degenerata, con il venir meno persino di una decenza formale degli attori in campo e delle dinamiche in atto.
A chiosa di tutto ciò, si deve mettere in evidenza come tutti i partiti “legittimati” a governare, perlomeno nel cosiddetto mondo occidentale, debbano garantire la piena compatibilità della loro azione politica e vieppiù dei loro obbiettivi con gli interessi capitalistici egemoni e con il dominio geopolitico americano. In questo quadro, la sola vera opzione che in qualche modo resta aperta nelle tornate elettorali è la scelta tra liberismo e fascismo, due ideologie che, non solo oggi nel trumpismo ma da sempre, mostrano grande affinità e la capacità di fondersi sotto la medesima bandiera del filocapitalismo. Conseguenza di tutto ciò è l’ormai totale delegittimazione dell’intero sistema della così detta “democrazia rappresentativa”, con dati di partecipazione al voto ridotti a percentuali sempre più esigue, paradossalmente non-rappresentative del corpo elettorale.
Ma, nell’attuale quadro politico complessivo, ciò che è decisamente più grave e preoccupante è che anche il mondo politico dei movimenti, dell’antagonismo, dell’autonomia del sociale e in termini più generali, dell’anticapitalismo, è muto e disperso. È ovviamente verso questo “fronte interno” che si appunta il mio sforzo propositivo di autore.
L’analisi e la critica del presente non bastano
Vi è da dire che, sul piano dell’analisi e della critica del presente, il lavoro non si è mai fermato, grazie in particolare all’opera di alcuni pensatori di riferimento che hanno saputo tenere la propria opera al passo con le trasformazioni sempre più rapide e profonde intervenute negli ultimi decenni, in particolare sul piano scientifico-tecnico-tecnologico, trasformazioni che riverberano sul mondo, sulla società e sui suoi componenti individuali. Per sommi capi e senza alcuna pretesa di esaustività, ecco alcuni temi di rilievo e gli autori che più li hanno sviluppati: Sul passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo in Occidente, è imprescindibile, in campo economico, il lavoro di Andrea Fumagalli e Carlo Vercellone nonché, sul piano più prettamente monetaristico, quello di Christian Marazzi. Sui processi di automatizzazione sempre più spinta non solo dei sistemi produttivi ma dell’intera società, è di grandissima rilevanza l’opera di Bernard Stiegler, anche sulla scorta della produzione dei giuristi e filosofi del diritto Antoinette Rouvroy e Thomas Berns e della loro coniazione del concetto di “governamentalità algoritmica”1. Per una critica dei “nuovi media”, è essenziale, in Italia, il lavoro di Bida, per quanto riguarda in particolare lo sviluppo di un fediverso, e del Gruppo Ippolita. Sul piano della linguistica e della filosofia del linguaggio, un costante contributo allo studio delle trasformazioni in atto è stato fornito dall’opera di Paolo Virno. Un grande e inedito lavoro di analisi dell’ecosistema planetario è stato anche recentemente sviluppato da autori come Bruno Latour, Donna Haraway, Isabelle Stengers, a partire da precedenti intuizioni come quelle di James Lovelock e Lynn Margulis, con l’elaborazione della così detta “Ipotesi Gaia” che si spinge a vedere la Terra come un’unica entità vivente. È a questo specifico filone di pensiero che dedicherò il nucleo del presente articolo.
Sul piano invece della concreta proposta politica indirizzata a uscire dalla terribile impasse che ci vede impotenti difronte a una serie di crisi senza precedenti dopo la Seconda guerra mondiale, lo scenario e desertico. Sullo status politico delle così dette democrazie liberali, il frangente storico che ci troviamo a vivere scopre tutte le carte e ci mostra impietosamente quale sia la cruda realtà dei fatti: lo stato sionista e confessionale di Israele, con il pieno appoggio della superpotenza vincitrice della Guerra fredda e dello zerbino ai suoi piedi rappresentato dall’Unione europea, sta attuando in modo consapevole e sistematico, contro la volontà della maggior parte dei suoi stessi cittadini, lo sterminio del popolo palestinese, con il massacro degli abitanti della Striscia di Gaza e il sopruso, l’arbitrio e la sistematica violenza dei coloni in Cisgiordania. Paradossalmente, il fascismo dilagante in tutto l’Occidente sotto le spoglie del suprematismo bianco e della criminalizzazione delle minoranze e dei migranti si fa vera e propria riedizione del nazismo proprio ad opera della nazione nata dalle ceneri della Shoa2.
In mancanza di una concreta proposta politica alternativa, la consapevolezza politica, bene peraltro sempre più raro nella società della mistificazione mediatica, si limita a produrre resistenza e opposizione ai processi di devastazione ambientale e disumanizzazione sociale in atto, ma resistenza e opposizione sono, per definizione, posture regressive e arretranti, meramente difensive, limitandosi a rallentare questo arretramento senza impedirlo.
In tutti i paesi occidentali le manifestazioni, le lotte, le proteste delle nuove generazioni per cercare di fermare la devastazione del pianeta non solo non raggiungono i risultati che si prefiggono e rimangono del tutto inascoltate dalle istituzioni ma vengono represse con la violenza e il carcere3. La bocciatura senza appello del sistema politico delle “democrazie rappresentative” viene direttamente dalla storia. Ma l’esaurirsi del “paradigma occidentale” non è prodotto solo dal suo modello di governance: esso affonda le sue radici nella cultura profonda e nella mentalità proprie dell’Occidente.
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Img – Shoshanah Dubiner
Il Riduzionismo come vizio originario del pensiero occidentale
Non v’è dubbio che uno dei caratteri distintivi del pensiero occidentale, in primo luogo nella sua matrice greco-latina, sia la razionalizzazione dei fenomeni naturali, già molto ben connotata nel pensiero dei primi “filosofi”, forse più “geografi” e “fisici”, “proto-scienziati” (come Anassimandro e Anassimene, poi Pitagora, Leucippo, Democrito), che pensatori dell’universo-mondo nella sua totalità, propri dei contesti filosofici orientali.
Questa impostazione della direzione e del metodo del pensiero occidentale ha favorito una potentissima capacità di analisi di specifici, ben circoscritti, elementi della realtà. Una capacità di “scavo” che, oltre ad aver favorito la nascita e lo sviluppo della scienza, antica e moderna, è alla base della filosofia analitica, quella che caratterizza in particolar modo il mondo anglosassone e che si fonda sul “positivismo logico”.
Questo metodo di approccio al reale fa ricorso al riduzionismo, filosofico, fisico e matematico. Tipica di questo approccio è la tendenza a scomporre un insieme nelle sue singole componenti e ad applicare gli strumenti conoscitivi, separatamente, su ciascuna di esse. Se, in termini di dettaglio, questo metodo ha consentito di conoscere aspetti particolarmente sottili e minuti del reale (si pensi allo studio dell’infinitamente piccolo attraverso la “scoperta-invenzione” delle particelle subatomiche e delle loro interazioni nella meccanica quantistica), esso porta con sé l’inesorabile tendenza alla riduzione della complessità del mondo reale, delle sue componenti, variabili e dinamiche e alla semplificazione. Il metodo riduzionista ha reso possibile una presa sulla realtà materiale del mondo senza uguali in altre civiltà, consentendo all’Occidente, attraverso il colonialismo e il neocolonialismo, di imporre il suo dominio sul mondo intero, o quasi (la Cina e la Russia, per fattori diversi, hanno potuto e saputo impedire questo assoggettamento).
Nell’approccio occidentale alla conoscenza della realtà, al riduzionismo si è associato il determinismo, proprio di tutte le visioni meccanicistiche, con la sua pretesa di conoscere con esattezza lo stato futuro di un sistema a partire dal suo stato attuale e dalla conoscenza delle leggi che ne governano la dinamica. Laplace ha formulato questo assunto attraverso la formula: «Possiamo considerare lo stato attuale dell’universo come l’effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che ad un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi.» (Essai philosophique sur les probabilités, Laplace).
Il determinismo, su cui poggiava a sua volta il positivismo filosofico e culturale, è stato letteralmente smontato alla sua base, cioè sul piano propriamente fisico, dal Principio di indeterminazione di Heisenberg in base al quale «Nell’ambito della realtà […] le leggi naturali non conducono quindi a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere […] è piuttosto rimesso al gioco del caso» e da cui deriva, oltre che l’inconoscibilità intrinseca del futuro, il carattere probabilistico dei processi fisici in atto nell’universo.
Se il metodo analitico-riduzionista è imbattibile nella produzione di merci e di armi sempre più devastanti e nell’estrazione sempre più efficace ed efficiente di risorse, naturali e umane, esso è del tutto inadeguato a favorire uno “stato di salute” in un sistema complesso come possono essere un organismo biologico, la società umana o un ecosistema. Non solo non può aiutarci ma si rivela dannoso se applicato ai contesti intrinsecamente complessi quali sono quelli che caratterizzano la vita sulla Terra.
La “minorità” degli scienziati
La scienza classica e moderna, quella fiorita a seguito dell’Illuminismo e, attraverso il progetto enciclopedico, direttasi verso tutte le branche del sapere umano, si fondava su di una figura di scienziato inteso come “genio individuale” in grado di apportare un incremento personale, con una scoperta o un’invenzione, al sapere complessivo. Maxwell o Planck, Einstein o Bohr, Oppenheimer, per rievocare una figura di scienziato estremamente complessa e controversa soggetto di un recente film hollywoodiano, incarnano questo tipo di scienziato: alti profili che mostravano uno “spessore” umano e politico (anche se non sempre positivo) oltre che meramente professionale.
La scienza contemporanea, iper-specialistica, pare non avere più bisogno di figure a “tutto tondo” come sono state quelle che hanno caratterizzato la fase precedente, per certi versi ancora pionieristica, della scienza. Essa è totalmente dominata dai fini puramente speculativi del grande Capitale finanziario che la usa, in connubio con la tecnica e la tecnologia, non solo per massimizzare rendite e profitti ma anche per dominare politicamente l’umanità. Dal punto di vista politico, l’apparato tecnico-scientifico-tecnologico si trova incorporato in un vasto e articolato sistema di governance e controllo fortemente automatizzato che possiamo definire come “Governamentalità algoritmica”4.
In questa logica ed entro questo schema, lo scienziato è un semplice lavoratore salariato, per quanto iperspecializzato e, come tale, normalmente meglio pagato del semplice operaio5. A sovrintendere l’attività dei laboratori di ricerca pubblici e privati sono sempre più spesso figure manageriali, vincolate all’imperativo di garantire lauti e crescenti dividendi agli azionisti delle grandi aziende multinazionali da cui dipendono.
Spesso l’iperspecializzazione, che caratterizza oggi la professione dello scienziato e del ricercatore scientifico, impedisce loro di avere un quadro generale dello stesso campo di ricerca in qui si trovano ad operare, per non parlare delle finalità che indirizzano la ricerca stessa in una direzione piuttosto che in un’altra: sono cioè delle pedine utili ma politicamente inconsapevoli. Il rilevante ruolo sociale ed economico che scienziati e ricercatori rivestono è del tutto misconosciuto sul piano politico rendendoli strumenti ignari dei disegni strategici che orientano la direzione e l’intensità del lavoro scientifico6. Considerazioni del tutto analoghe possono essere svolte per l’ambito tecnico-tecnologico.
La capacità del Capitale di sfruttare appieno tutte le risorse del General Intellect passa attraverso la “neutralizzazione politica” di coloro che animano, alimentano e fanno crescere lo stesso G.I., cioè, in misura più o meno grande, tutti noi e massimamente gli scienziati come “primo anello” della lunga catena dell’informazione, la nuova materia prima del capitalismo, la materia prima propria del capitalismo cognitivo. Entro questa logica, tanto il lavoro di ricerca scientifica in senso stretto quanto quello di sviluppo tecnico e tecnologico che vi si basa sono appropriati alla fonte dal capitale, sussunti in esso senza resti a partire dai quali la moltitudine possa intraprendere un percorso di (ri)appropriazione e autorappresentazione. Al contrario, l’enorme potenza tecnologica è usata a fini di manipolazione, controllo e repressione nei confronti di chi questa potenza l’ha prodotta.
Conseguenze dell’approccio riduzionista e utilitarista
Insieme al vizio originario rappresentato dal principio di astrazione che sta alla base del vivere nel capitalismo, principio più profondo e determinante dello stesso impulso alla razionalizzazione che, sulla scorta di Max Weber, è alle origini dello spirito del capitalismo7, il riduzionismo dominante nei nostri apparati di pensiero, mutuato dal metodo scientifico, porta con sé una serie di drammatiche conseguenze.
Premesso che il disastroso stato di cose in cui ci troviamo a vivere dipende in modo preponderante dal perverso “meccanismo del potere” che perpetua il dominio capitalistico in una spirale tecnica/scienza/tecnica sempre più stretta, potente e pervasiva, è indubbio che tra le prime cause della difficoltà di vedere le conseguenze non immediate del nostro agire immediato vi è proprio questa tendenza al riduzionismo che accompagna e connota la cultura dominante (e, purtroppo, in buona parte, anche quella che si ritiene “antagonista”) di questa parte di mondo; tendenza che contribuisce in modo significativo a fondare il presupposto logico e ontologico che è causa della gravissima crisi ecologica in atto: “il considerare tutto ciò che non è umano come un qualcosa di estraneo e sfruttabile – un “fondo disponibile” lo aveva definito Martin Heidegger in tempi non sospetti – che appartiene al regno del non-essere (in senso proprio). Lo sfruttamento del mondo non-umano (oltre che di quello umano, naturalmente) così espulso dalle categorie logico-ontologiche della Modernità occidentale è il frutto dell’azione politica del capitalismo industriale, secondo [Ulrich] Beck, che si è incarnato in politiche statali chiuse su sé stesse e incapaci di pensare globalmente.”8 Sulla questione dello specismo e dell’antropocentrismo torneremo più avanti.
Analogamente, tutta la dottrina utilitaristica si fonda sull’assunto per cui il bene si identifica con l’utile e il bene della collettività non è altro che la somma dell’utile dei singoli; quindi, l’utile individuale diviene l’indicatore fondamentale per orientare le scelte economiche e i comportamenti sociali. Oltre al fatto che, nelle sue estreme conseguenze, questa dottrina giunge a valutare come positiva la morte di uno o più individui se questa può determinare un aumento della felicità complessiva (è la logica secondo la quale l’Europa ha colonizzato il sud del mondo e oggi Israele sta attuando il genocidio premeditato del popolo palestinese), essa vede la società come una semplice sommatoria di individui singoli, con interessi tra loro diversi e spesso contrastanti, rifiutando di vedere nell’insieme della società un organismo unitario che travalica la semplice sommatoria delle sue componenti individuali e, attraverso la relazione, ne consente la realizzazione e ne dispiega la piena potenza.
L’utilitarismo all’epoca del capitalismo cognitivo configura la logica strumentale secondo la quale ogni gesto umano è finalizzato a un vantaggio individualistico e le stesse relazioni umane altro non sono che uno strumento per ottenere e incrementare questo vantaggio: sono i rapporti di produzione capitalistici che colonizzano, dopo la sfera produttiva, quella riproduttiva. È la definitiva disumanizzazione dei rapporti interumani che il postumanesimo mette in conto.
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Trasformazione strutturale dell’economia capitalistica
Non è questo il contesto per svolgere un’analisi approfondita della struttura economica che caratterizza le società capitalistiche attuali. È tuttavia utile ripassare alcuni elementi chiave della sua evoluzione negli ultimi cinquant’anni. È questo il lasso di tempo che ha visto il progressivo passaggio da un’economia centrata sull’industria, il così detto settore secondario, ad una basata sulla produzione e lo scambio di informazione, cioè sui servizi alla persona e alle aziende, definito come settore terziario. A completamento del quadro, il settore primario è invece quello che garantisce le fonti materiali di sostentamento organico dell’umanità, cioè l’agricoltura, per i fisiocratici la sola effettiva base economica davvero necessaria ad assicurare la vita umana su questo pianeta.
Sino agli anni Settanta del secolo scorso, la produzione di beni materiali non alimentari si fondava sulla catena di montaggio e la standardizzazione dei processi e dei tempi di lavoro informata al metodo fordista-taylorista. Rispetto ai tempi della primissima industrializzazione, basata sull’operaio-artigiano specializzato, portatore del sapere tecnico, che disponeva di strumenti semplici e dettava i tempi e le forme del processo produttivo, la catena di montaggio e il sistema delle grandi macchine imponevano in modo serrato i ritmi di produzione, scomponendo l’attività produttiva, attraverso la nuova scienza dell’ergonomia, in gesti semplici e ripetitivi, consentendo così una dequalificazione della manodopera impiegata. Nascevano così l’operaio-massa e il lavoro astratto, cioè standardizzato, omologato e fungibile. Il General Intellect si trova direttamente incorporato nella macchina mentre la funzione operaia, quando prevista, è ridotta a supporto e ausilio secondario9.
Il passaggio dall’industria “artigianale” degli opifici alla grande fabbrica di tipo fordista ha implicato un enorme aumento della produttività del lavoro, cioè della quantità di beni prodotta nell’unità di tempo dal singolo lavoratore. Nel regime capitalistico, il fine dell’attività economica non è il prodotto, per il suo valore d’uso, ma l’accumulazione del capitale attraverso l’incameramento del profitto, cioè la remunerazione dell’imprenditore per l’organizzazione del processo produttivo (pianificazione del ciclo produttivo, approvvigionamento delle materie prime, messa a disposizione degli immobili e allestimento del luogo di produzione, reclutamento e remunerazione della manodopera, commercializzazione del prodotto finito). Ciò che è determinante rispetto al fine dell’accumulazione capitalistica è unicamente il valore di scambio dei beni prodotti. Fa così la sua comparsa una pletora di prodotti privi di un’effettiva utilità ma che, attraverso la creazione di bisogni indotti e la sollecitazione al consumo attuate attraverso la pubblicità, trova uno sbocco commerciale. Nasce il consumismo come colonna portante e contropartita del produttivismo finalizzato al profitto.
Il profitto dell’imprenditore deriva fondamentalmente dall’appropriazione del plus-valore, cioè del valore prodotto dal plus-lavoro, la quota di lavoro eccedente quella necessaria alla remunerazione del lavoratore, quest’ultima a sua volta definita nella misura strettamente necessaria ad assicurare la sua mera riproduzione. Plus-lavoro e, quindi, plus-valore, in termini assoluti, sono in diretta proporzione con la quantità di lavoro, cioè con il numero di lavoratori impiegati e il tempo del loro utilizzo. In termini relativi, cioè di intensità (plus-valore prodotto nell’unità di tempo dal singolo lavoratore), il plus-valore, e quindi il profitto dell’imprenditore, dipendono dalla produttività del lavoro, di cui si è data sopra una definizione essenziale.
La produttività del lavoro, a sua volta, dipende in modo diretto dall’organizzazione del processo produttivo, che con il taylorismo si fa scientifica, e dalle tecnologie in esso implementate. Con la nascita della grande industria fordista, di cui Marx dà un’anticipazione straordinariamente pregnante nel cosiddetto “Frammento sulle macchine” contenuto nei Grundrisse10, sono l’alto numero degli addetti, lo sfruttamento tayloristico del lavoro e le economie di scala a produrre un enorme incremento dei profitti e, con essi, dello stock di capitale. L’applicazione dei frutti del General Intellect, in primo luogo della scienza e della tecnologia, al processo produttivo, che viene così sempre più automatizzato attraverso macchine via via più complesse e articolate, porta a un formidabile aumento della produttività: un singolo lavoratore, attraverso la mediazione di tali megamacchine, è in grado di produrre quanto migliaia di lavoratori dotati di soli attrezzi semplici. Data la funzione di semplice ausilio alla macchina che, nell’epoca dell’automazione, è riservata al lavoratore, è più corretto dire che oggi è sofficiente un solo lavoratore per conseguire la stessa produzione per la quale in passato ne servivano migliaia.
A partire dalla fine degli anni Settanta del ‘900, in tutti i paesi occidentali, l’attività produttiva si sposta progressivamente dal settore industriale a quello dei servizi, si assiste cioè ad una sua progressiva dematerializzazione11. La produzione industriale di massa si decentra verso paesi a basso costo della manodopera, la Cina e il sudest asiatico in particolare, e nello stesso tempo si automatizza sempre più grazie all’implementazione di tecnologie basate sull’elettronica e l’informatica.
In Occidente, il lavoro si sposta dalla produzione di beni materiali verso quella di servizi: l’informazione diviene la materia prima per antonomasia e il software, attraverso il quale l’informazione viene lavorata, diviene la nuova “macchina” per eccellenza. Parallelamente, il comando capitalistico, che prima si esercitava sui corpi dei lavoratori, ora si concentra sulle loro menti, agendo ad un livello che sfugge alla coscienza e quindi alla consapevolezza politica di chi lavora. Si assiste così a una diretta implicazione del lavoratore nei fini dell’impresa12: questo diviene il requisito essenziale in base al quale le aziende reclutano il proprio personale su di un mercato del lavoro selvaggio, lasciato privo di regole e nel quale l’offerta è enormemente maggiore della domanda. La crisi verticale dell’efficacia dell’azione sindacale, l’abbandono dei lavoratori alle proprie sorti da parte dei partiti della sinistra che avrebbero avuto il compito politico e istituzionale di tutelarli è l’ennesimo specchio in cui si riflette la crisi della rappresentanza.
Anche se i prodotti si fanno immateriali e quindi riproducibili a un costo marginale tendente a zero, essi risultano di proprietà del capitalista, protetti come sono da dispositivi giuridici, come il copyright e i brevetti, o economici, come monopoli, oligopoli e cartelli, e vengono venduti sul mercato ad un prezzo fittizio, determinato in base a fattori psicologici dipendenti da quanto è disposto a pagarli il fruitore-consumatore, secondo la logica economica propria del marginalismo.
Ciò che rileva ai fini della riflessione politica è come, nonostante questa grande trasformazione formale e sostanziale dei processi produttivi, i fattori politici che li sovrintendono risultino immutati, con il capitale a fare da dominus assoluto della situazione grazie all’annullamento del ruolo della funzione politica, sostituita da forme di governamentalità automatica basate sui processi algoritmici che strutturano oggi le relazioni sociali e le sempre più lunghe filiere economiche e finanziarie13.
Sempre sotto il profilo politico, è importante sottolineare come, da un lato, le nuove tecnologie applicate alla produzione siano frutto della produzione sociale e, in particolare, dell’espansione del General Intellect e, dall’altro, per converso, come tutti gli aumenti di produttività legati all’introduzione di nuove tecnologie, siano stati interamente appropriati dal capitale e come nulla dei suoi benefici sia stato redistribuito alla società sotto forma di generalizzata riduzione del tempo di lavoro14. Pur assistendo all’espandersi della funzione manageriale quale polo organizzativo della produzione, resta concentrato nella proprietà dei mezzi di produzione il controllo delle scelte economiche, con tutte le loro dirette ricadute sul piano sociale ma anche esistenziale dei soggetti individuali.
L’attuale approdo di questo processo di trasformazione dell’economia occidentale è rappresentato dalla nascita del così detto “capitalismo delle piattaforme” che fa dell’estrattivismo attenzionale e della profilazione, non solo economica ma anche comunicativa e affettiva, degli individui e della conseguente formazione dei big data, la nuova fonte del valore. Pochissime aziende digitali globali, quasi tutte con base negli Stati Uniti, rastrellano la ricchezza sociale per consegnarla nelle mani di un manipolo di tecno-plutocrati malati di egotismo a cui il sistema massmediatico e buona parte della società si inchinano con riverenza e ammirazione. La somministrazione dall’alto dell’intelligenza artificiale nel vigente quadro dei rapporti di potere porterà in un brevissimo arco temporale all’esasperazione delle già enormi disuguaglianze e, per effetto della disoccupazione tecnologica, al definitivo disfacimento dei pur precari equilibri propri della fase culminante della modernità. In parallelo a questo imponente processo di trasformazione della produzione (tanto del suo metodo che del suo fine), si assiste alla finanziarizzazione dell’economia globale: il capitale da industriale si fa finanziario e la nota formula marxiana Denaro = Merce = Denaro’ si muta nel paradosso Denaro = Denaro’: ai fini della profittabilità del capitale, è più conveniente e sicuro investire sui mercati finanziari piuttosto che nell’economia reale. La scissione tra finanza ed economia reale, l’insensatezza della formula D = D’, si riflette nella progressiva divergenza quantitativa tra lo stock finanziario globale (D’) e il valore complessivo dei beni e servizi (D), tra Wall Street e Main Street15.
Fine della Politica rappresentativa e futuro dell’umanità
In un tale stato di cose, dove la funzione politica tradizionalmente intesa, cioè quella basata sul metodo rappresentativo (applicato in modo formale nelle istituzioni e attuato in modo informale nei movimenti), è azzerata da processi automatici sempre più estesi, diramati, interconnessi, emerge la necessità di individuare forme altre di espressione della volontà politica collettiva, al contempo legittime ed efficaci, nel tentativo di evitare il caos sistemico verso il quale questo mondo sta rapidamente precipitando.
Il metodo rappresentativo in politica nasce, in seguito ai grandi sommovimenti conseguenti alla Rivoluzione francese e ai moti sociali e politici europei del 1848, con i primi parlamenti operanti in seno alle monarchie costituzionali per dare voce a nobili e possidenti in contrapposizione con il potere assoluto del monarca. In seguito, questo metodo diverrà quello proprio delle così dette democrazie liberali, presentandosi tuttavia, già dalla sua origine, come forma spuria, approssimata, necessitata, di espressione della volontà popolare. Forme di democrazia partecipata e/o diretta, proprie dell’assemblearismo e dei sistemi consigliari, rimasero confinate in ambiti ristretti, come le valli montane della Federazione Svizzera o altri contesti isolati di ridotte dimensioni.
Da un lato, il metodo rappresentativo era motivato da ragioni tecniche e pragmatiche: l’impossibilità pratica di dare espressione diretta alla volontà politica del singolo cittadino in contesti di grandi dimensioni come gli stati nazionali; dall’altro, esso fondava la sua legittimità sull’assunto, profondamente paternalistico, che il popolo fosse incapace, per ragioni di ordine storico e culturale, di autogovernarsi e che perciò avesse la necessità di “appoggiarsi” a dei rappresentanti in grado di tutelarlo e guidarlo. Questo metodo, alla prova della storia, ha miseramente fallito. A livello nazionale, pur in un sistema di tipo parlamentare come quello italiano e nel clima relativamente favorevole all’affermarsi di interessi popolari del secondo dopoguerra, la Costituzione non è stata attuata. Gli interessi particolari hanno fin da subito prevalso su quelli generali e i partiti politici, i veri dominatori del processo, si sono progressivamente trasformati in veri e propri “comitati d’affari”, in grado di vendere i propri servizi (emanazione di leggi ed esercizio del governo) ai diversi gruppi d’interesse. Inoltre, l’appartenenza geostrategica dell’Italia al blocco occidentale si è rivelata un vincolo imprescindibile a cui l’effettiva sovranità nazionale è stata sacrificata senza alcun indugio. Vicende analoghe ha seguito la storia politica degli altri paesi occidentali, europei e non europei. L’Unione Europea si è poi rivelata un’importante struttura sovrannazionale in grado di garantire nel vecchio continente gli interessi del grande capitale finanziario globalizzato e l’espansione verso Est della NATO.
Oggi, la disfatta etica, ancor prima che politica, del mondo occidentale è mostrata in tutta la sua brutalità dalla “guerra per procura” combattuta in Ucraina per conto degli USA contro la Russia ma a discapito dell’Europa e allo scopo di mandare un chiaro messaggio bellicista alla Cina, e dal genocidio che lo stato sionista di Israele sta perpetrando, con le armi e il pieno sostegno americano ed europeo (la sedicente, indecente comunità internazionale), nei confronti del popolo palestinese, plateale ed emblematica rappresentazione di quello che è oggi il rapporto tra il Nord e il Sud del mondo.
Questa è l’attuale condizione dell’Occidente, un mondo in balia di un capitalismo non solo predatorio nei confronti delle risorse naturali del pianeta ma criminale nei confronti dei popoli, assassino al Sud e produttore di miseria artificiale al Nord. A fronte di ciò, i media di regime continuano imperterriti nella loro retorica che definisce come “democrazia” questo stato di cose.
Non saranno di certo le élite dominanti a salvarci dalla deriva in atto essendo esse, al contrario, il ceto a vantaggio del quale questo dissesto è stato attuato. È la moltitudine – nel significato che assume questo termine nella linea di pensiero che va da Macchiavelli a Negri passando per Spinoza e Marx – il solo soggetto, in quanto titolare della sovranità, legittimato e in grado di farsi carico della radicale trasformazione metodologica di cui ha bisogno la dimensione politica per riacquisire le proprie irrinunciabili funzioni di mediazione pacifica dei rapporti tra individui.
Superare l’antropocentrismo
Sulla base delle precedenti considerazioni ma anche al di là e oltre a esse, è su di un piano molto più basilare, radicale e profondo che il concetto di Politica va sottoposto a critica: non è sufficiente superare la visione che pone l’Occidente al centro di tutte le dinamiche e i processi attraverso cui guardiamo alle cose del mondo; se questo passaggio è determinante per “smontare” le politiche neocolonialiste e neoimperialiste con cui gli Stati Uniti, con alla sua ruota l’Europa, impongono gli interessi delle proprie classi dominanti al resto del mondo, esso non è tuttavia sufficiente a farsi carico e a rispondere agli enormi problemi ecosistemici e climatici in cui la vita sulla Terra si trova oggi implicata e compromessa. Per fare ciò, serve rivoluzionare a fondo la stessa prospettiva metafisica con cui osserviamo e interpretiamo il mondo, un mondo popolato sì dall’umanità, ma anche da milioni di altre specie in stretta interazione tra loro, in un ambiente delimitato e dalle risorse finite e in buona parte già compromesse proprio dalla sconsiderata attuazione dei fini capitalistici.
Ecologismo scientifico radicale
Con “Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene”16 Donna Haraway, a distanza di quarant’anni dal suo fondamentale “Manifesto Cyborg” uscito nel lontano 1985, torna a denunciare il delirio antropocentrista e ad alludere al “altri mondi possibili (e auspicabili)”. Sulla scorta dell’opera della biologa controcorrente Lynn Margulis17 e della filosofa Isabelle Stangers18, ma anche di altri pensatori della complessità come James Lovelock19 e Bruno Latour20, Haraway ci mostra come sul nostro piccolo pianeta, tutto, vivente e non vivente, sia strettamente e indistricabilmente interconnesso, e come la salute e il benessere di ogni singola componente dipenda inesorabilmente dalla salute e dal benessere dell’intero insieme. È a un pensiero antiriduzionista ma anche antispecista, olistico, che ci richiama la pensatrice americana. La sua formazione da biologa emerge molto chiaramente dal tipo di contenuti che danno sostanza a questa sua nuova opera, come peraltro a molti suoi lavori precedenti.
Al centro del discorso di Haraway è la consapevolezza che nessun essere è a sé stante, che tutte le forme viventi dipendono da altre a sé prossime e che la simpoiesi è la principale forma attraverso la quale i processi evolutivi si sono sviluppati su questo pianeta. Essa conseguentemente scrive: “… l’individualismo nelle sue varie forme scientifiche, politiche e filosofiche è finalmente diventato impensabile da pensare: non è più una risorsa, né sul piano tecnico né su qualsiasi altro piano. La simpoiesi – il con-fare – è una parola chiave … per permetterci di pensare un pensiero indispensabile”. Sono queste le conseguenze “politiche” che Haraway trae dalle più rilevanti risultanze della ricerca biologica e scientifica più in generale. Dopo le lunghe e ostinate lotte condotte nella comunità scientifica dei biologi da Lynn Margulis, ormai da tempo la teoria endosimbiotica (vedi nota 17) è riconosciuta come la più accreditata per spiegare l’evoluzione cellulare, cioè dei “mattoni della vita”, e con essa quella dell’intera vita sulla Terra.Haraway indica le due risposte inaccettabili difronte agli orrori del Capitalocene: da un lato
“la fede comica nella tecnologia riparatrice”, dall’altro “la posizione, sempre più diffusa, secondo la quale i giochi sono già fatti, è troppo tardi, non ha alcun senso cercare di migliorare le cose adesso”. Rispetto a quest’ultima, essa scrive: “sto parlando di quella posizione secondo la quale i giochi sono già fatti, è troppo tardi, non ha alcun senso cercare di migliorare le cose adesso, o quantomeno non ha senso avere una fiducia attiva l’uno nell’altro, soprattutto nella nostra capacità di lavorare e giocare in favore di un mondo che rinasce. Alcuni scienziati che conosco hanno la tendenza a esprimere questo amaro cinismo, anche se lavorano sodo per fare la differenza e migliorare le condizioni di vita delle persone e delle altre creature. Persone che si descrivono come teorici e critici culturali o politici progressisti condividono la stessa idea. Penso che questa strana commistione tra il tenace impegno di energie e capacità finalizzato al prosperare multispecie da un lato e un esplicito atteggiamento disfattista da fine dei giochi che scoraggia tutti, compresi gli studenti, sia favorita da diversi tipi di approccio al futuro. Uno di questi sembra basarsi sull’idea che solo le cose che funzionano sono importanti; o peggio, sull’idea che solo ciò che io e i miei colleghi esperti facciamo per aggiustare le cose se funziona è importante. Volendo essere più generosi, a volte gli scienziati e gli altri pensatori che si dedicano a leggere e a studiare, gli studiosi che rimestano le acque del pensiero e sono devoti ai problemi che trattano, sanno troppo, e questa conoscenza è ingombrante. O almeno pensiamo di saperne abbastanza da giungere alla conclusione che una vita sulla Terra capace di includere gli esseri umani in maniera sostenibile non sia più possibile, che l’apocalisse sia davvero vicina.”
Haraway ci invita a non cadere nel disfattismo, quell’atteggiamento mentale che ha sempre pervaso e predominato nelle epoche di decadenza e di passaggio da un precedente a un successivo paradigma, periodi tremendi rispetto ai quali Gramsci ha scritto: “Il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Eppure, Gramsci ha espresso l’apice della sua opera intellettuale dalle celle del carcere fascista!
Scrive ancora Haraway: “Questo atteggiamento è comprensibilissimo nel bel mezzo della sesta estinzione di massa sperimentata dal pianeta Terra, mentre le guerre ci divorano, l’estrazione delle risorse procede in maniera sconsiderata e miliardi di persone e altre creature soccombono alla povertà a causa di una cosa chiamata «profitto», «potere» o «Dio». Un disfattismo da fine dei giochi si impone nella burrasca suscitata dal sentimento profondo, e non soltanto dalla consapevolezza, che quasi sicuramente gli esseri umani diventeranno undici miliardi entro il 2100. Questo numero equivale a una crescita di nove miliardi di persone in 150 anni – dagli anni Cinquanta al 2100 – con delle conseguenze fortemente inique per i ricchi e i poveri – per non parlare dell’enorme disparità di fardelli imposti alla Terra dai ricchi rispetto ai poveri – e delle conseguenze ancora peggiori per tutti gli esseri non-umani in ogni luogo. Ci sono molti altri esempi di realtà disperate e urgenti; le Grandi Accelerazioni a partire dal secondo dopoguerra hanno lasciato il segno sulle rocce, nelle acque, nei cieli e su tutte le creature. C’è una sottile differenza tra riconoscere la portata e la serietà di questi problemi e soccombere a una futuribilità astratta, con la sua inclinazione alla disperazione suprema e le sue politiche di estrema indifferenza.” Quindi “un altro mondo non solo è urgente, è anche possibile, ma non se ci facciamo ammaliare dalla disperazione, dal cinismo o dall’ottimismo, e dal discorso fideistico/scettico sul Progresso.”
La sua critica scava a fondo e proprio laddove, per quanto ci riguarda, ve n’è più bisogno: “Finché il Capitalocene verrà raccontato con il linguaggio del marxismo fondamentalista, con tutte le trappole rappresentate dalla Modernità, dal Progresso e dalla Storia, questo termine sarà sempre soggetto alle stesse critiche, se non ad altre ancora più aggressive. Le storie dell’Antropocene e del Capitalocene corrono sempre il rischio di diventare troppo grandi. Marx è stato più bravo, e anche Darwin. Possiamo ereditare il loro coraggio e la loro capacità di raccontare storie sufficientemente grandi senza scadere nel determinismo, nella teleologia e nella pianificazione.”
Un intero capitolo del libro è dedicato a scandagliare i possibili significati di due termini estremamente centrali per la lettura del nostro presente, Antropocene e Capitalocene21, proponendone un terzo, Chthulucene (dal nome del ragno californiano Pimoa cthulhu, una creatura ctonia), come quel tempo in grado di farsi carico di una necessaria opera (ri)costruttiva, rigenerativa. L’autrice propone:
“… lo Chthulucene come una storia terza e necessaria, una terza sporta per raccogliere tutto ciò che ci serve per andare avanti e restare a contatto con il problema. Le creature ctonie non sono confinate in un passato svanito. Sono uno sciame che pulsa, punge e succhia adesso, e gli esseri umani non si trovano in un cumulo di compost separato. Siamo humus, non Homo, non Antropos; siamo compost, non postumani. In quanto suffisso, la parola kainos («-cene») indica le nuove epoche appena create del denso presente. Rigenerare i poteri biodiversi della Terra è il lavoro e il gioco simpoietico dello Chthulucene. Nello specifico, a differenza dell’Antropocene e del Capitalocene, lo Chthulucene è fatto di storie multispecie in via di svolgimento, di pratiche del con-divenire in tempi che restano aperti, tempi precari, tempi in cui il mondo non è finito e il cielo non è ancora crollato. Siamo la posta in gioco gli uni degli altri. A differenza del dramma che domina il discorso dell’Antropocene e del Capitalocene, nello Chthulucene gli esseri umani non sono gli unici attori rilevanti; gli altri esseri non sono mere comparse che si limitano a reagire. L’ordine viene rielaborato, si disfa una maglia per crearne un’altra; gli esseri umani sono della Terra e con la Terra, e i poteri biotici e abiotici di questa Terra sono la trama principale del racconto.”
Haraway ci spinge nella direzione difficilissima non solo del cambio di prospettiva ma del cambio dei nostri stessi occhi, della trasformazione di noi stessi e della “nostra” cultura profonda: “Troppo volentieri sia l’Antropocene che il Capitalocene si lasciano andare al cinismo, al disfattismo, alle previsioni autoassertive e autoriferite del tipo «è troppo tardi, i giochi sono fatti» – discorsi che in questo periodo sento ovunque attorno a me, nelle dichiarazioni degli esperti e nelle parole della gente comune. Sono discorsi in cui sia l’autocommiserazione disperata che i punti fermi tecno-teocratici della geoingegneria sembrano contagiare ogni immaginazione condivisa possibile.”
L’invito a pensare la specie umana insieme alle altre, a tutte le altre specie che popolano il pianeta e nel contesto reale e limitato delle sue componenti abiotiche (non viventi), facendosi carico della complessità di questo insieme, rimanendo a contatto con il problema, è la precondizione per affrontare il presente e inventare un futuro: “Ci relazioniamo, conosciamo, pensiamo e mondeggiamo, raccontiamo storie attraverso altre storie e insieme ad altre storie, altri mondi, altre conoscenze, altri pensieri, altri desideri. E così fanno tutte le creature della Terra, compresi noi, che per quanto siamo diversi ci sentiamo sempre sicuri di noi stessi e del mondo, in tutta la nostra esuberante diversità, le nostre speciazioni e i nostri intrecci che sfidano ogni categoria. Altre parole per definire queste cose potrebbero essere materialismo, evoluzione, ecologia, simpoiesi, storia, saperi situati, performance cosmologica, mondeggiamenti tra arte e scienza, animismo, insieme a tutte le contaminazioni e le infezioni evocate da ognuno di questi termini. Le creature si mettono in gioco e a rischio a vicenda ogni volta che viene rivoltata una zolla del compost terrestre. Siamo compost, non postumani; abitiamo l’humusità, non l’umanità. Filosoficamente e materialmente, io sono una compostista, non una postumanista. Le creature, che siano umane o meno, con-divengono insieme, si compongono e decompongono a vicenda, in ogni scala e registro di tempo o di sostanze, in nodi simpoietici, nel mondeggiare e demondeggiare ecologico ed evolutivo dello sviluppo terrestre.” Servono “… coalizioni coraggiose, intelligenti e generative di artisti/scienziati/attivisti attraverso pericolose divisioni storiche. Biologia, arte e politica hanno bisogno l’una dell’altra; attraverso il momento involutivo, si persuadono a vicenda a pensare/fare simpoiesi per quei mondi più vivibili che io chiamo Chthulucene.” Haraway ci sbatte in faccia una realtà in termini che l’umanità, nella sua autocontemplazione, ha sempre trasceso, come se avessimo sempre “volato alto” alla ricerca delle “divinità celesti”, troppo in alto per vedere le creature ctonie e le divinità sotterranee con le quali siamo letteralmente impastati. E ci dice che per vedere, comprendere e valorizzare questa realtà, tutte le discipline del sapere e dell’arte devono lavorare insieme, intrecciandosi, producendo un’epistemologia e una gnoseologia all’altezza delle responsabilità proprie della nostra specie.
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Img – Shoshanah Dubiner
Per un approccio Eco-Evo-Devo
In biologia, con il termine “Sintesi moderna” si intende l’integrazione della teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie per selezione naturale con la moderna teoria dell’ereditarietà genetica, alla luce degli studi della genetica delle popolazioni e delle evidenze della paleontologia. Essa si afferma intorno agli anni ’40 del secolo scorso e non ha mai cessato di arricchirsi ed evolversi.
Con il termine Eco-Evo-Devo (Ecological Evolutionary Developmental Biology) si fa riferimento a ciò che alcuni autori (S.F. Gilbert e D. Epel) definiscono come “Sintesi evoluzionistica estesa”, la branca di studi interdisciplinari che mira ad approfondire la conoscenza della vita nel suo complesso intreccio interiore e in relazione al contesto ambientale non-vivente (abiotico). In questo approccio all’insegna della complessità e della unitarietà del Sistema-Terra, Donna Haraway si spinge oltre il presente nel suo immaginare il futuro mondo dei “compostisti”, coloro che lei immagina come gli abitanti “umani” della Terra futura e la cui civiltà si fonda sul multiculturalismo, l’antispecismo e l’interdisciplinarità del sapere.
“Studi decoloniali multispecie (che includevano varie lingue multimodali umane e non-umane) e un approccio di transconoscenze espandibile all’infinito chiamato EcoEvoDevoStorioEtnoTecnoPsico (studi di biologia evoluzionistica dello sviluppo integrata nell’ecologia, nella storia, nell’etnografia, nella tecnologia, nella psicologia) erano indagini stratificate e cariche di nodi fondamentali per i compostisti.”
“I compostisti si divertivano a trovare tutto ciò che potevano sulle comunità e i movimenti sperimentali, intenzionali, utopici, distopici e rivoluzionari apparsi lungo la storia e i vari paesi della Terra. Una delle delusioni più grandi in quei resoconti fu che tanti di quei movimenti erano nati dalla premessa di ricominciare daccapo, di fare tabula rasa invece di imparare a ereditare ciò che è stato senza negarlo, restando così a contatto con il problema dei mondi danneggiati. L’humus più fertile per le loro indagini e per il loro progetto risultò essere tutto ciò che è FS: fantascienza e fantasy, fabula speculativa, femminismo speculativo e stringfigures, le figure di filo, per quanto anche all’interno di queste pratiche spesso si affacci l’idea di fare piazza pulita e sterilizzare il mondo con l’apocalisse o la salvezza. Bloccando le utopie totalizzanti, l’FS faceva sì che la politica restasse viva, concreta.”
“Vìveiros de Castro aveva studiato con gli amerindi brasiliani, dai quali aveva imparato a teorizzare un riallineamento concettuale radicale che aveva chiamato multinaturalismo e prospettivismo. «L’animismo è l’unica versione sensata del materialismo.» È importante sapere quali concetti concettualizzano concetti. L’animismo materialista e sperimentale non è un desiderio New Age né una fantasia neocoloniale, ma un potente proposito di ripensare la relazionalità, la prospettiva, il processo e la realtà senza le equivoche comodità offerte dalle categorie oppositive di moderno/tradizionale o religioso/secolare. Gli intrecci umano-animale producono qualcosa di diverso in questo mondo.”
Donna Haraway si pone una domanda fondamentale sul presente, su questo preciso presente, le cui possibili risposte aprono spiragli di possibilità insperate e spingono ad agire, a non arrendersi:
“Cosa succede quando l’eccezionalismo umano e l’individualismo utilitarista dell’economia politica classica diventano impensabili nelle discipline e interdiscipline scientifiche più avanzate? Impensabili davvero: con loro non è possibile pensare. Perché l’epocale nome dell’Antropos si è imposto proprio nel momento in cui le pratiche di conoscenza e le interpretazioni della simbiogenesi e della simpoiesi sono estremamente e meravigliosamente disponibili e generative in tutte le humusità, comprese le arti, le scienze e le politiche non colonizzanti? E se i gesti dolenti dell’Antropocene e il disfacimento del mondo del Capitalocene fossero gli ultimi rantoli delle divinità celesti, e non la certezza di un futuro ormai spacciato, della fine dei giochi? È importante capire quali pensieri pensano altri pensieri. Dobbiamo pensare! Il Chthulucene incompiuto deve raccontare la spazzatura dell’Antropocene, la tendenza allo sterminio del Capitalocene, e sfrangiare, tagliuzzare e stratificare a più non posso come un giardiniere matto, creando così un ammasso di compost molto più caldo e accogliente per i passati, i presenti e i futuri ancora possibili.”
Se l’emergere prepotente del concetto di Antropocene sulla scena mediatica fosse il segnale oltre che di una nuova consapevolezza anche della possibilità del suo superamento? D’altronde, il primo passo per affrontare un problema è quello di prenderne coscienza. Di certo, il mondo reale non ha nulla della linearità e dello schematismo con i quali la scienza tradizionale, quella disciplinare, riduzionista e determinista, pretenderebbe di interpretarlo.
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Img – Shoshanah Dubiner
Il nesso tra scienza e politica
Lo statuto della scienza è definito dall’epistemologia, la filosofia della scienza. La relazione tra scienza e politica passa attraverso la filosofia. In questa relazione mediata che mette in rapporto un certo modo di concepire la scienza con un certo modo di intendere la politica, potremmo considerare gli approcci scientifici di tipo riduzionista-determinista in connessione con visioni politiche basate sull’ordine e la gerarchia; l’approccio di tipo probabilistico, proprio della meccanica quantistica, e quello olistico, della biologia più recente, possono essere messi in relazione con una concezione politica vicina all’anarchismo e al comunismo marxiano non-marxista, a quella che ho proposto di chiamare politica rizomatica22. Ciò con riferimento ai fattori metodologici prima che a quelli ideologici.
Lo stato politico in cui versa il mondo in questo momento storico, caratterizzato dal dilagare del fascismo e del liberismo più selvaggio, che in determinate figure – quella del plutocrate Elon Musk, per esempio – sembrano trovare una sintesi, e dal divampare di guerre e conflitti sempre più virulenti ed estesi, ci mostra in modo apodittico l’esigenza di elaborare, sperimentare, attuare un nuovo metodo politico. È la democrazia che va ripensata di sana pianta prendendo lezione da tutto ciò che non ha funzionato nella sua forma attuale, che, con riferimento alla sua etimologia, con il “potere del popolo” non ha proprio nulla a che vedere.
Che fare?
La rete internet è la miglior esemplificazione di una struttura rizomatica. Essa non ha un centro né una struttura gerarchica tipica della forma ad albero. Tuttavia, la sua mera disponibilità, in assenza dell’attivazione di un processo costituente ad opera del soggetto collettivo chiamato moltitudine, non è stata sufficiente a permettere la strutturazione di nuove forme di governo, a dare avvio a un effettivo processo di trasformazione generale in senso democratico. È proprio la mancata costituzione della moltitudine in nuovo soggetto collettivo rivoluzionario ciò che rende impossibile ogni concreta prospettiva politica liberatoria per il futuro.
Per una ventina d’anni dopo la nascita del word wide web, molti si erano illusi che fosse sufficiente la funzione comunicativa espletata da internet a consentire la nascita di Reti in grado di condizionare in senso positivo gli sviluppi politici e storici: ciò non solo non si è verificato ma, dopo la nascita della tecnologia del web 2.0, cioè dell’interattività della rete, si è assistito alla colonizzazione proprietaria di internet e alla fine di ogni illusione sulla sua possibilità di essere impiegata, nel suo attuale assetto proprietario, a scopi emancipativi.
Per venire alla leniniana domanda: “che fare?”, senz’altro l’emancipazione di internet dagli interessi privatistici e dalle funzioni di controllo che ne caratterizzano la forma attuale richiede un’azione di riappropriazione dal basso da parte degli utenti-cittadini per farne realmente uno spazio non solo liberato ma anche luogo di edificazione del Comune, inteso come status giuridico che si pone come alternativo tanto al Privato quanto al Pubblico, intendendo per pubblico ciò che appartiene non tanto alla collettività quanto allo Stato nel senso più deteriore di questo ambiguo e ingombrante concetto23.
Per Comune intendiamo la dimensione in cui la moltitudine trova la possibilità di una sua piena espressione, libera dal giogo del lavoro salariato ma anche dagli innumerevoli vincoli economici e giuridici attraverso i quali la produzione sociale viene sistematicamente espropriata alla collettività che l’ha prodotta e messa a profitto da parte del grande capitale finanziario, vincoli che di fatto prosciugano le fonti del sapere e ostacolano il libero e pieno sviluppo del General Intellect. Ma come costruire il Comune, da dove prendere le mosse per intraprendere questo percorso che si presenta insieme come atto di liberazione dall’opprimente presente e di realizzazione di un mondo desiderabile?
Data l’estrema urgenza di reagire a un presente che ci sta precipitando in una crisi sistemica dagli esiti potenzialmente apocalittici e considerato lo sbando totale e la frammentazione pulviscolare in cui versano le potenziali forze antagoniste, rispondere a questa domanda diviene una sfida (al) capitale. Il fatto è che l’orizzonte è talmente fosco, la posta in gioco così alta (forse, la stessa sopravvivenza della specie) e il compito così immane (edificare il Comune) che la tendenza dei più, come denuncia Donna Haraway, è quella di gettare la spugna, arrendersi a uno stato di cose e a una tendenza che appaiono come ineluttabili, incontrovertibili. In simili terribili frangenti storici, credo sia utile dare voce alla volontà e mettere parzialmente la sordina alla spinta alla resa che ci viene dalla ragione. Dato che da perdere resta ormai ben poco, fatta eccezione per la mera sopravvivenza, si tratta di gettare il cuore oltre l’ostacolo ma non sulla base dello slancio sentimentale, nostalgico e spontaneistico tipico della Folk Politics di cui gli accelerazionisti A. Williams e N. Srnicek, allievi del compianto Mark Fischer, fanno un’ottima critica nel loro Inventare il futuro 24, ma, al contrario, di un grande disegno strategico in grado di mettere in moto un vero e proprio processo costituente25 basato su un metodo effettivamente democratico e con il pieno coinvolgimento della potenza interdisciplinare del General Intellect.
Assemblea permanente e Red-stack
Tornando per un attimo al futuro della Terra, che D. Haraway immagina popolato dai compostisti nel loro connubio interspecista con le altre forme di vita presenti sul pianeta e nella pratica dei saperi interdisciplinari, proviamo a immaginare anche quale sarà stato il loro modo di costituirsi in comunità più o meno grandi e più o meno connesse tra loro, quale sia il loro modo di evolversi in questo intreccio e di assumere decisioni in forma collettiva; in altri termini, quale sia la loro Politica. Potremmo immaginare che la loro forma di organizzazione politica sia qualcosa di molto simile a ciò che già in precedenti articoli ho proposto di chiamare Assemblea permanente26. Si tratta di un metodo di organizzazione politica basato sui principi della partecipazione propositiva aperta e della decisione collettiva orizzontale attraverso l’uso di architetture informatiche più o meno complesse che al loro centro hanno specifici software che prendono il nome di piattaforme decisionali.
Un metodo che, grazie all’apertura verso il basso dell’azione propositiva, consente l’espressione di forme di vera e propria intelligenza collettiva e che, attraverso l’orizzontalità del processo decisionale, permette di assumere le scelte più condivise. In quanto tale, esso può essere applicato ai contesti più vari, da un ambito ristretto, come può essere quello di un comitato, un’associazione, un’azienda, un gruppo politico, sino a contesti molto più vasti e inclusivi come può essere l’insieme dei cittadini di un determinato territorio, sia esso una città, una regione, uno stato, un continente o il mondo intero.
L’innesco dell’Assemblea permanente deve essere visto come il primo passo di un processo di riappropriazione dal basso dell’infrastruttura globale rappresentata da internet, intesa come mezzo generale di produzione e riproduzione sociale. L’attivazione di un’intelligenza collettiva in grado di liberare e sfruttare appieno tutta la potenza attale e le potenzialità future del General Intellect si pone come la prospettiva più credibile per affrontare il futuro, oggi carico di ombre e angosce ma ribaltabile in un mondo desiderabile.
Serve assolutamente scongiurare l’imporsi dell’intelligenza artificiale che il tecno-capitalismo della Silicon Valley intende propinarci in una forma preconfezionata allo scopo di renderci economicamente inutili e politicamente ancor più irrilevanti e asserviti di quanto già siamo. La proletarizzazione, nel senso che dà a questo termine B. Stiegler di svilimento della capacità e delle competenze tecniche e professionali umane da parte di processi di automatizzazione cognitiva sempre più spinti (pensiamo a tutte le specifiche capacità umane che sono già state sostituite da software più o meno sofisticati), è destinata a subire un enorme salto di qualità (oltre che di quantità) con la diffusione dell’I.A. nella forma in cui sta per esserci somministrata.
Per dominare e indirizzare le straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie cognitive e non esserne dominati, è necessaria una trasformazione politica in grado di promuovere un’ampia diffusione nella società di saperi e conoscenze informatiche, cibernetiche, più in generale, tecnoscientifiche. Per evitare che l’umanità divenga obsoleta e, attraverso le macchine, un ristretto numero di individui possa imporre il proprio dominio sul mondo, è necessario sviluppare un Red-stack27 in grado di inglobare progressivamente, rovesciandone il fine e il valore, l’intera rete informatica.
Ciò che sta oggi avvenendo, cioè l’imposizione dall’alto e l’accettazione acritica dell’I.A., rende ancora più importante e urgente mettere in atto un processo politico antitetico, consapevole e rivendicato.
L’evoluzione della soggettività
Pur nella sua apparente semplicità, non si deve incorrere nell’errore di banalizzare la proposta metodologica dell’Assemblea permanente. Essa infatti implica un notevole coinvolgimento e la piena partecipazione dei soggetti che intendano farla propria e praticarla: avanzare proposte meritevoli di interesse, analizzare quelle avanzate da altri, contribuire alla discussione e al confronto che su di esse può aprirsi, partecipare alla fase emendativa e quindi votare sulle proposte giunte alla fase di voto, implica un notevole impegno: lo studio dei temi in discussione, l’autoriflessione e l’affinamento della capacità argomentativa; una serie non indifferente e non superficiale di attività che altro non è che il farsi carico, in forma collettiva, del bene (del) Comune.
In considerazione del tempo sempre maggiore che tendenzialmente la tecnologia applicata alla produzione libera dal lavoro e di quello malamente speso sui social network proprietari28, quello investito nell’attività di autogoverno collettivo attraverso l’Assemblea permanente godrà della forte motivazione razionale che deriva dalla consapevolezza che la propria partecipazione conta davvero e più sarà competente e attenta, specialmente sul versante propositivo, più benefici se ne avranno per se e per tutti, umani e non.
Questo implica un cambio profondo della soggettività, oggi così avvezza a delegare alla politica istituzionale, da un lato, o all’attivismo sociale, dall’altro, la pur fondamentale questione del governo della cosa comune, del vasto mondo intersoggettivo e interspecifico. Entriamo in un campo del tutto nuovo, dove ancora tutto è da inventare e definire e dove la sperimentazione per tentativi ed errori e la messa in pratica di idee alternative avrà un ruolo determinante. L’impegno, l’imparare ad agire con gli altri in forma collettiva e la responsabilizzazione soggettiva è “il prezzo da pagare” per una autentica autodeterminazione della moltitudine, da pensarsi come un processo in fieri a tempo indeterminato, una sorta di rivoluzione permanente. Ma proprio questo pensare e agire con gli altri, in forma collettiva, è la chiave di trasformazione interiore, psichica, soggettiva che trasforma l’individuo e gli conferisce la sua pienezza, la sua compiutezza. Secondo Gilbert Simondon29, il processo di individuazione si attua attraverso i processi psichici per mezzo dei quali facciamo esperienza del mondo ma si completa appieno solo nella relazione con gli altri: proprio ciò che manca nel mondo odierno che lascia le persone in una condizione di incompiutezza, di isolamento atomistico, di insufficienza ontologica, di “depressione” per cause sociali.
Per approfondire la relazione tra il soggetto e la moltitudine, tra il singolo e la società, sono di primaria importanza i concetti di “individuo sociale” di K. Marx e di “individuazione collettiva” di G. Simondon, due apparenti ossimori sul cui intreccio e nell’implicazione di altri concetti fondamentali per l’interpretazione del presente, come quello di General Intellect, ha lavorato con grande costrutto Paolo Virno30.
Le istituzioni del Comune
Ai fini della prospettiva di cambiamento a cui alludo, l’applicazione del metodo dell’Assemblea permanente deve intendersi come l’attuazione di una forma di democrazia diretta, cioè effettiva, radicale, non mediata da rappresentanti. Essa deve riguardare già la fase costituente della dimensione del Comune, così come, in un processo di continua coevoluzione, la sua vita e il suo sviluppo: si tratta di innescare un loop positivo, un circolo virtuoso tra il metodo (l’Assemblea permanete) e il suo fine (il Comune).
Ma il problema di come compiere il passaggio dalla “democrazia” rappresentativa alla democrazia diretta investe in pieno la questione del potere: quali sono i concreti passaggi che possiamo prefigurarci per l’attuazione di questa transizione? Devo dire che, dato l’attuale contesto generale, tanto la prospettiva rivoluzionaria quanto quella di riforma istituzionale appaiono, al momento, impraticabili. Manca oggi la capacità anche solo di immaginare una rivoluzione anticapitalista, di pensare a un mondo senza capitalismo31, così come manca sulla scena un soggetto politico in grado di farsi carico di un simile programma, cioè dell’attuazione di una riforma radicale in senso neodemocratico.
Prendendo in considerazione la seconda ipotesi, quella di istituzione di un sistema di democrazia diretta attraverso la via della riforma istituzionale, più esattamente – data la materia – costituzionale, giova richiamare qui l’articolo 49 della Costituzione, il solo che nomina i partiti politici: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.» Ebbene, nell’attribuire il rispetto e il rigore di lettura che il dettato costituzionale – per le sue parti originarie – merita di avere, ciò che rileva ai nostri fini in questo brevissimo articolo è quel “con metodo democratico”, condizione mai rispettata da nessuno dei partiti che si sono avvicendati in Parlamento nella storia della Repubblica ma che potrebbe rivelarsi come la giusta chiave, una sorta di grimaldello, per trovare una via d’uscita dall’impasse politico-istituzionale in cui ci troviamo bloccati.
Il partito della democrazia radicale
Con un notevole sforzo immaginativo e al netto degli innumerevoli ostacoli che un siffatto percorso si troverebbe inesorabilmente ad affrontare, dovremmo ipotizzare la costituzione di un nuovo partito, fondato e organizzato con il metodo dell’Assemblea permanente, cioè effettivamente democratico, nel rispetto dell’indicazione costituzionale, con un unico scopo, quello di riscrivere la Costituzione sostituendo alla forma rappresentativa quella auto-rappresentativa. Dovremmo immaginare questo intero processo incardinato in una dimensione territoriale quantomeno europea, pensando il vecchio continente come lo scenario della sperimentazione e della messa in pratica di un nuovo modo per l’umanità di vivere su questo pianeta insieme a tutte le altre specie che lo popolano e nel rispetto del contesto abiotico con cui la vita intrattiene un processo di incessante interscambio organico.
Giusto per sgomberare il campo da possibili equivoci, il partito necessario alla trasformazione in senso democratico del sistema istituzionale per dar vita all’inedita dimensione del Comune non ha nulla a che vedere con ciò che è stato e men che meno con ciò che è il Movimento 5 Stelle: per una critica puntuale ed estesa delle vicende del M5S così come degli altri “partiti digitali” che hanno fatto la loro comparsa in questo scorcio di secolo, rinvio al mio Tecnopolitica e partiti digitali. Vicolo cieco del populismo plebiscitario o via obbligata a un’autentica democrazia? pubblicato nel n° 3 di Rizomatica, e in particolare ai paragrafi I partiti digitali e Sperimentazione di un nuovo modello. Rimando a questo testo anche per una più approfondita disamina dei processi che sarebbe necessario implementare per costruire un partito con un simile scopo nel contesto sovranazionale, quantomeno europeo, in cui questa prospettiva dovrebbe prendere corpo.
Biforcare
In un noto saggio dal titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Friedrich Nietzsche mette in guardia dalle autolimitazioni che il guardare al passato pone al presente e al divenire della storia. È questo il danno che la conoscenza della storia può produrre, cioè la tendenza a escludere la possibilità che ciò che in passato non è mai avvenuto possa avvenire nel presente e nel futuro.
È invece al concetto filosofico di “biforcazione”32 che dobbiamo riferirci per poter pensare ciò di cui oggi c’è ormai estremo bisogno: una trasformazione radicale delle forme e degli assetti politici, possiamo chiamarla rivoluzione, per consentire un riadattamento della presenza umana su questo pianeta nella prospettiva di una piena reintegrazione ecologica della nostra specie nella biosfera terrestre, nella direzione che ci indica Donna Haraway nel suo Chthulucene.
Il caos sistemico che caratterizza sempre più questo nostro presente e che dalla sfera politica riverbera su tutte le altre sfere del mondo è in realtà un momento propizio al verificarsi di una biforcazione. Secondo Uri Merry33, questi momenti di disordine sono determinanti perché «il caos è il ricco terreno nel quale è nata la creatività… Il caos rompe le catene dell’universo deterministico e garantisce all’umanità un infinito grado di libertà nel forgiare il proprio mondo». Quando un sistema complesso entra in una fase di crisi irreversibile come quella in cui ci troviamo oggi, solo una biforcazione catastrofica è in grado di riaprire i giochi e consentire quelle trasformazioni che ne consentano il riadattamento e quindi la sopravvivenza in altra forma.
Come indica la teoria matematica dei sistemi complessi, con ogni probabilità la biforcazione che qui si auspica è connessa con una necessaria catastrofe, non solo nel senso etimologico di rivolgimento, rovesciamento, ma in quello più comune di sciagura, disastro: nel momento in cui scrivo l’ipotesi di una Terza guerra mondiale, voluta e prodotta dalla sete di dominio dell’establishment statunitense, non può essere esclusa. Sarà forse questa, prima che il collasso ambientale e climatico, l’immane catastrofe attraverso la quale dovremo passare per veder nascere il mondo nuovo del comunismo interspecifico?
Auspicando vivamente che ciò non sia, in attesa di conoscere la risposta a questa domanda (chi vivrà, vedrà!), al di là e oltre l’ottimismo o il pessimismo con cui guardiamo all’immediato futuro, «dobbiamo continuare a pensare», «dobbiamo rimanere a contatto con il problema».
Note
1 – Thomas Berns e Antoinette Rouvroy, Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation. Le disparate comme condition d’émancipation par la relation?, in Réseaux, 2013/1, n° 177, La Découverte , pp. 163-196. Ho trattato della governamentalità algoritmica nell’omonimo paragrafo dell’articolo “Tecnopolitica per il comune”, comparso nel numero 5 di Rizomatica.
2 – Sullo scontro in atto in Israele tra “Stato di Israele” e “Stato di Giudea”, vedasi il lucido articolo dello storico israeliano Ilan Pappè, uscito il 21 giugno 2024 su Sidecar di New Left Review con il titolo “The Collapse of Zionism”.
3 – Un corposo, recente dossier di Amnesty International denuncia a chiare lettere la progressiva erosione del il diritto di manifestare pacificamente in 21 stati europei e la contemporanea repressione e criminalizzazione di chi osa esprimere protesta e dissenso verso le politiche statali.
Sempre in merito alla repressione del dissenso, anche non violento, proprio in questi giorni è stato approvato dal Parlamento il disegno di legge del Governo Meloni 1660.
4 – Vedi nota 1. Con riferimento all’automatizzazione sempre più spinta della società, vedasi nota 13.
5 – In realtà, non è sempre così e molti operatori del mondo scientifico, in particolare i ricercatori universitari ma non solo, si trovano ad esercitare la propria professione in un quadro di precarietà e sfruttamento estremi. Per uno spaccato della condizione del ricercatore scientifico e, più in generale, del mondo della scienza alle porte del XXI secolo, cfr. L.A.S.E.R. (Laboratorio autonomo di scienza, epistemologia e ricerca), Scienza S.p.A. – Scienziati, tecnici e conflitti – Ed. DeriveApprodi 2002.
6 – Con “La crisi delle scienze europee”, opera incompiuta, Edmund Husserl, il padre della fenomenologia, ci porta a riflettere proprio sulle contraddizioni più profonde del pensiero scientifico europeo in quanto “culla” del pensiero occidentale. Vi si denuncia la riduzione della razionalità a “naturalismo”, con l’invito alla filosofia fenomenologica a farsi invece carico del “mondo della vita” (Lebenswelt).
7 – Cfr. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – Ed. Rizzoli, 1991.
8 – Cito qui un passo di breve, interessante articolo-recensione di Antonio Lucci comparso su Doppizero dal titolo “Ulrich Beck: la catastrofe ci salverà”.
9 – Il riferimento è al così detto Frammento sulle macchine di K. Marx. Vedi successiva nota 10.
10 – È possibile trovare un’analisi di questo testo e vari riferimenti bibliografici nel mio “Se le macchine di Marx siamo noi”, pubblicato sul numero 1 di Rizomatica.
11 – Sul passaggio dal capitalismo industriale a quello cognitivo e sulle sue conseguenze politiche, è di grande interesse, anche per le provocazioni e le prospettive divergenti che contiene, il pamphlet di André Gorz, L’immateriale – Ed. Bollati Boringhieri, 2003. L’intera opera di André Gorz è orientata a una critica serrata e profonda dei rapporti di produzione nel passaggio dal capitalismo industriale a quello cognitivo.
12 – Scrive Gilles Deleuze nel Poscritto alle società di controllo, in Puorparler Ed. Quodlibet, 1999. Ed. originale Les Editions de Minuit, 1990: “… nelle società di controllo l’impresa ha sostituito la fabbrica e l’impresa è un’anima, un gas”.
13 – Anche qui si allude all’attuale, dominante forma di governamentalità, mediata dall’infrastruttura tecnologica globale e dagli algoritmi che ne governano il funzionamento.
14 – Cfr. La società automatica – l’avvenire del lavoro di Bernard Stiegler – Ed. Meltemi, 2019, a cui ho fatto ampio riferimento in Fuori dal Capitalocene, comparso nell’ultimo numero della rivista.
Su quella che avrebbe dovuto essere la forma di redistribuzione della ricchezza attraverso la generalizzata riduzione del tempo di lavoro, vedasi l’emblematica opera di John Maynard Keynes – Prospettive economiche per i nostri nipoti – Ed. Nuova Editrice Berti 2016. Dalle ottimistiche previsioni dell’economista inglese padre del “Welfare State”, si desume la sua sostanziale ingenuità politica.
15 – L’astrazione della finanza dal mondo reale, la crescente quota di capitale investito sui mercati finanziari a detrimento dell’economia reale, ha prodotto una enorme sopravalutazione dello stock azionario: il rapporto tra quest’ultimo e il prodotto interno lordo è denominato “indicatore di Warren Buffet”: negli USA è attualmente pari a circa il 210%.
Per un quadro d’insieme della natura, delle caratteristiche e delle enormi criticità e paradossi del capitalismo nell’era della finanza globalizzata, vedasi l’ottimo lavoro di Luciano Gallino Finazcapitalismo – Ed. Einaudi, 2012.
16 – Ed. Duke University Press 2016, tradotto in italiano con il titolo piuttosto infelice “Chthulucene, sopravvivere in un pianeta infetto” Ed. Nero, 2019.
17 – Dobbiamo alla biologa evoluzionista Lynn Margulis la sistemazione della teoria sull’endosimbiosi o simbiogenesi (Serial Endosymbiotic Theory), originariamente proposta dallo scienziato russo Konstantin Sergeevič Merežkovskij, in base alla quale le cellule eucariote, quelle dotate di nucleo, si sarebbero sviluppate per incorporazione di batteri in cellule procariote (prive di nucleo) nelle quali hanno assunto, appunto, le varie funzioni proprie del nucleo. Sulla base di questa fondamentale teoria dell’evoluzione, Margulis ha sostenuto che “la vita non conquistò la Terra attraverso la lotta (per la sopravvivenza), ma attraverso la cooperazione (la simbiosi)”.
18 – Isabelle Stengers è una filosofa della scienza, chimica di formazione, nota per essere coautrice, con Ilya Prigogine, de “La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza”, opera del 1979 dedicata ai processi irreversibili, alle strutture dissipative, all’elaborazione scientifica del concetto di insieme, contribuendo così allo sviluppo della così detta Teoria o Epistemologia della complessità.
19 – James Lovelock –, Gaia. A New Look at Life on Earth, Oxford University Press, 1979. Tr. it. Gaia. Nuove idee sull’ecologia – Ed. Bollati Boringhieri, 2021. L’Ipotesi Gaia presentata nel libro, elaborata in collaborazione con Lynn Margulis che tuttavia ne ha in seguito preso parzialmente le distanze, sostiene che la vita sulla Terra, attraverso sistemi simbiotici diramati e complessi che interagiscono con la componete abiotica, contribuisce a determinare condizioni di omeostasi che, a loro volta favoriscono il permanere e l’evolversi della vita stessa sul pianeta. Al di là della controversa figura di Lovelock, spesso schierato su posizioni tecno-ottimiste e favorevole, oltre che al nucleare, alla geoingegneria climatica, Gaia rappresenta senz’altro un’opera seminale che ha dato ispirazione a una serie di lavori successivi, aprendo la strada a un grande filone di pensiero interdisciplinare diretto a farsi carico della complessità e dell’unitarietà dei sistemi, in un approccio di tipo antiriduzionista e olistico che è oggi solo ai suoi inizi.
20 – Bruno Latour: filosofo, antropologo e sociologo francese ha studiato il processo di ricerca scientifica come costruzione sociale. Ha contributo allo sviluppo della cosiddetta Teoria actor-network (in italiano, Teoria della rete di attori) che mette in evidenza come tanto i fatti scientifici che gli oggetti tecnologi sono il risultato dell’attività di una moltitudine di entità umane e non umane che sfrutta il loro potere collettivo per agire e trasformare il mondo.
21 – Mi sono espresso, rispetto ai differenti significati di questi due termini, nell’articolo “Fuori dal Capitalocene. Dall’uomo indebitato all’uomo frugale”, in particolare nella nota 12.
22 – Per una Politica rizomatica. Verso un nuovo paradigma politico è il titolo dell’articolo che ho scritto per la prima uscita della rivista e che si propone di presentare, seppur in modo ancora elementare, un nuovo metodo politico, una nuova prassi che ha preso il nome di Assemblea permanente e che potremmo definire come una forma di democrazia effettiva, non mediata, diretta.
23 – Cfr. Toni Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione – Ed. Dalai Editore, 2012.
24 – Cfr. Alex Williams e Nick Srnicek, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro – Ed. Nero, 2018, di cui ho parlato in Tecnopolitica per il Comune. Red-Stack vs. Automa capitalistico nel n° 5 di Rizomatica.
25 – In merito alle dinamiche generali di implicazione reciproca tra Potere costituente e Potere costituito che hanno caratterizzato le principali rivoluzioni della modernità, quella inglese, quella americana, quella francese e quella russa, cfr. Toni Negri Il Potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno. – Ed. Manifestolibri, 2002.
26 – Vedi nota 19. Rimando alla lettura dell’articolo a cui la nota fa riferimento per una descrizione più precisa degli strumenti informatici e delle diverse fasi sui cui si basa il metodo dell’Assemblea permanente.
27 – Sul concetto di Red-stack, richiamo l’articolo di Tiziana Terranova Red stack attack! Algoritmi, capitale e automazione del comune; per considerazioni più generali sulla prospettiva di costituzione di una tale entità, rinvio al mio già citato Tecnopolitica per il Comune. Red-Stack vs. Automa capitalistico. Terranova mutua il concetto di Black-stack (rovesciandolo in Red-stack) da filosofo della tecnologia Benjamin H. Bratton, autore appunto di The Stack: On Software and Sovereignty – Ed. MIT Press, 2015.
28 – È necessario richiamare a questo riguardo l’ottimo lavoro di analisi condotto da Tiziana Terranova in merito al concetto di Free Labour in rete, nel doppio significato di libero (volontario) e gratuito (non remunerato), per designare questo genere di attività, in Free Labor: Producing Culture for the Digital Economy.
29 – Cfr. Gilbert Simondon, L’individuazione psichica e collettiva – Ed. DeriveApprodi 2001, con la traduzione e un’ottima postfazione di Paolo Virno. Scrive Simondon: «1) il soggetto è una individuazione sempre parziale e incompleta, consistendo piuttosto nell’intreccio mutevole di aspetti preindividuali e aspetti effettivamente singolari; 2) l’esperienza collettiva, lungi dal segnarne il decadimento o l’eclissi, prosegue e affina l’individuazione.»
30 – Davvero di grande utilità, tanto per la sua pregnanza che per la sua sintesi, è l’articolo di P. Virno Moltitudine e Principio di Individuazione pubblicato sul sito Generation online. Dell’ottimo saggio di P. Virno dal titolo Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee – Ed. DeriveApprodi, 2014, ho parlato nel mio “Tecnopolitica per il comune”, già richiamato più sopra.
31 – A questo riguardo, calza a pennello l’ormai noto adagio, che si attribuisce a Frederic Jameson, per cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”.
32 – Con riferimento all’uso che del termine fa Henri Bergson, ripreso ampiamente e contestualizzato da Bernard Stiegler in La società automatica. Vol. 1: L’avvenire del lavoro – Ed. Meltemi, 2019
33 – Cfr. Uri Merry, Coping with uncertainty: insights from the new sciences of chaos, self-organization, and complexity – Ed. Westport, Conn.: Praeger, 1995