Le crisi della politica: sovranità, rappresentanza, leadership, organizzazione.
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di M. Minetti
Il partito che manca
Concordo pienamente con il sociologo Lorenzo Viviani quando, nel suo saggio Sociologia dei partiti (Carocci 2015), afferma che i partiti sono tutt’altro che superati come istituzioni, ma devono evolversi.
“Nel dibattito attuale, troppo spesso il superamento dei modelli tradizionali di partecipazione e di organizzazione della politica è fatto coincidere con l’epitaffio del partito come attore della democrazia “ [… in cui ] la politica rischia -pensiamo alla dimensione sovranazionale europea -di essere commissariata dalla tecnocrazia, subordinata alla dimensione finanziaria, e in parallelo consegnata a forze che la agitano, ma non ne fanno uno strumento di trasformazione della società.” (Viviani 2015, pp. 12-13)
Difatti, osserva lo stesso Viviani, la mancanza di una progettualità trasformativa esplicita ha trasformato i partiti in fazioni. Se vogliamo recuperare la funzione democratica del partito come corpo intermedio fra cittadini e governo per una trasformazione sociale dobbiamo innanzitutto figurarci questa trasformazione partendo dai nostri bisogni attuali, calandoli nella realtà e non in un mondo dei sogni. La tendenza rivendicativa comune a forze politiche che non hanno nessuna prospettiva di conquistare il potere è infatti quella di appropriarsi di una lista infinita di diritti “umani” o “universali”, senza alcuna contropartita, pensando che le istituzioni attuali, con gli attuali rappresentanti, dovrebbero garantirli (in quanto scritti in quei preamboli delle dichiarazioni delle costituzioni e dei principi dell’ONU). La tentazione poi, ereditata dal marketing della filantropia in cui le chiese hanno fatto scuola, è quella di individuare obiettivi che riguardano minoranze “altre”, indubbiamente svantaggiate, evitando di occuparsi delle maggioranze meno svantaggiate i cui bisogni diffusi richiederebbero interventi strutturali (intaccare la conservazione del potere e gli interessi delle èlite) per essere soddisfatti. L’azione comunicativa di questi politici è semplicemente enunciativa, puro marketing politico da influencer (Pisicchio 2022, p. 8). Come se bastasse dire cosa si vuole per ottenerlo e come se ai diritti non corrispondessero doveri che l’istituzione politica deve essere in grado di far rispettare. Fornire servizi migliori alla cittadinanza significa far pagare più tasse ai ricchi, dare abitazione a tutti significa penalizzare chi ha molte case, far lavorare i disoccupati significa ridurre il tempo di lavoro degli occupati e aumentare le paghe orarie. Invece a quel populismo di facciata si è accompagnato un estremo conservatorismo nell’applicare le ricette di austerità, flessibilità del lavoro ed entrata dei privati nei settori strategici delle infrastrutture e dei servizi pubblici, imposte dalla Troika (Revelli 2015, p.150) e utili a estendere i profitti privati.
Un partito che mira alla trasformazione, oltre a dire cosa vuole ottenere deve anche predisporre gli strumenti necessari, costruendo la propria forza per affrontare quel percorso. L’aspetto elettorale è sicuramente importante ma non è fondamentale. Prima ancora viene la capacità di visualizzare il cambiamento atteso e la condivisione di questa visione attraverso la conquista di spazi di espressione culturale, in cui anticipare la trasformazione che si vuole attuare: giornali, internet, case editrici, radio e TV.
Spesso il gruppo sociale egemone funziona da esempio per mostrare le possibilità di vita e lo sviluppo maggiore delle facoltà umane superiori, resi praticabili dal progresso tecnologico-produttivo raggiunto. Il che non significa che il lusso consumistico del 10% neo-aristocratico debba essere generalizzato dalla mobilità sociale (come la narrazione neoliberista insinua con la favola meritocratica del sogno americano) ma che, grazie all’abbondanza raggiunta, è ora possibile la diffusione di quella libertà nuova di agire senza il condizionamento del bisogno, “di cui l’umanità ha già avuto un assaggio, ma riservato a degustatori privilegiati.[..] La novità rivoluzionaria, sta nel fatto che ora quella libertà può e deve generalizzarsi” (Mazzetti 2017, p.63).
L’attuale potere della minoranza sulla proprietà privata (termine che significa sottratta al comune) risulta un limite allo stesso sviluppo delle forze produttive, che vanno sprecate nell’inutilizzo o nella distruzione idiota e criminale di guerre, appositamente provocate per eliminare l’eccesso di merci invendute e manodopera inoccupata. Se questa è evidentemente una barbarie, perchè impedisce alla maggioranza delle persone di vivere una vita adeguata alle possibilità che le condizioni socio-economiche permetterebbero, bisognerebbe rendersene conto e capire che occorre una trasformazione socialista nell’ambito sovranazionale, perlomeno europeo. L’Unione Europea, per la sua estensione, potrebbe sostenere dei sistemi produttivi integrati, co-gestiti dai lavoratori e non diretti esclusivamente al profitto immediato di una ristretta minoranza di azionisti finanziari. La differenza fra liberalismo e socialismo è infatti, da sempre, che il secondo intende sottomettere l’economia ai bisogni delle comunità, conquistando la libertà positiva (Mazzetti 1992, p 216), ovvero l’eguaglianza sostanziale, di opportunità e di accesso allo sviluppo completo della personalità, mentre non include la proprietà privata fra le libertà fondamentali, perchè quella può essere limitata dall’azione di governo se contrasta con l’utilità sociale (Art.42 della costituzione italiana).
Questo non significa eliminare la ricchezza che le persone possono raggiungere e accumulare individualmente. Anche nelle costituzioni socialiste viene sempre tutelata la proprietà individuale (Mazzetti 1992, p. 205), che è quella di cui la persona può godere personalmente, come la casa, l’automobile, il giardino, la barca, il cavallo o l’orto. La proprietà privata, invece, fornisce un plusvalore o una rendita in base al solo possesso legale, come accade con i grandi patrimoni, latifondi, navi, palazzi, industrie, aziende, azioni, banche, brevetti, etc…
Ora, se il 90% della popolazione è soddisfatto dell’attuale sistema politico e legislativo che garantisce il privilegio aristocratico del 10% più ricco, la precarietà, la disoccupazione o lo sfruttamento della maggioranza e la persecuzione di minoranze scelte di volta in volta come capri espiatori, non deve fare altro che continuare a sostenere le diverse fazioni dell’attuale Partito unico di governo. In questo caso non c’è necessità di nessun nuovo partito, o di un diverso ruolo per gli attuali. Si può scegliere la propria fazione in base agli interessi contingenti o al grado di simpatia per la retorica di centro-destra o di centro-sinistra. Come abbiamo potuto sperimentare negli ultimi trenta anni, la struttura sociale rimane perfettamente invariata alla loro alternanza, accentuandosi soltanto le diseguaglianze tra i due estremi della piramide sociale.
Se invece dovesse emergere, in quel 90% di popolazione esclusa dal godimento delle ricchezze che ha contribuito a produrre con un duro lavoro per otto ore al giorno, costantemente impoverita e declassata, privata della effettiva libertà di esprimere le proprie potenzialità, il bisogno di trasformare la presente forma delle relazioni (Ventura 2021, p.362) verso una maggiore eguaglianza effettiva e libertà sostanziale (Romano 2019, p. 296), allora di certo servirebbe un partito di sinistra in grado di attuare collettivamente questa trasformazione.
La crisi di finalità
Nella definizione che ne dà Max Weber, un partito è una organizzazione che si pone come obiettivo la conquista del potere per realizzare uno scopo comune espresso, ma osserviamo ormai da anni la trasformazione dei partiti in fazioni. La fazione è invece una organizzazione che si pone come obiettivo la conquista del potere con il solo scopo di occuparlo, traendone vantaggio, ma senza un progetto trasformativo.
Tipico dei partiti conservatori è il voler mantenere il sistema di relazioni sociali esistenti, rafforzandolo, e installandosi in tutti i gradi esecutivi del potere. Per questo da sempre possono fare a meno delle ideologie e si ispirano ad un cinico realismo. Oggi questa è la cifra di tutti i partiti definiti catch all, che il sociologo Kirchheimer definì nel 1966 in cinque punti: 1. riduzione del bagaglio ideologico, 2. rafforzamento del vertice, 3. diminuzione dell’importanza/numero degli iscritti, 4. superamento della classe di riferimento, 5. attenzione rivolta a più gruppi di interesse, anche in contrasto. (Ignazi 2004, p.327)
Negli anni ’90 del secolo scorso abbiamo assistito ad una vera conversione entusiasta di quasi tutti i partiti socialisti, socialdemocratici, liberali e cristiano popolari, ai principi neoliberisti e ordoliberisti: flessibilità del lavoro, privatizzazioni, liberalizzazioni, dismissione dello stato sociale e sussidiarietà nei servizi ai cittadini, decentramento amministrativo e terziarizzazione dell’economia (Marsili-Varoufakis 2017, p. 23). Dai primi anni 2000, ottenuto tutto ciò che “volevano” e che, curiosamente rispecchiava il programma politico della loggia massonica P2 e le condizioni per entrare nel sistema monetario europeo, definite a Maastricht nel 1992, il sistema politico è entrato in una grave crisi di rappresentanza (van Reybrouck 2015, p.42) presentandosi nella forma bipolare delle fazioni elettorali opposte.
L’adesione all’Unione Europea, presentata come la soluzione a tutti gli atavici problemi di arretratezza sociale ed economica del nostro paese, si è rivelata come una gabbia rigidissima che ha aggravato le disparità tra le diverse economie europee e tra i territori degli stessi stati aderenti, come nella crisi post-unitaria ottocentesca si era aggravata la questione meridionale in Italia (Gramsci 2008 p.22). La crisi del debito greco è stata esemplare, come la sua soluzione che ha portato di fatto alla scomparsa di questa nazione come entità in grado di esprimere una politica autonoma. L’Italia a causa del suo altissimo debito pubblico, moltiplicatosi grazie a meccanismi predatori come le aste a rialzo dei Buoni del Tesoro (BOT)(Ferrero 2014, p. 23), ha dovuto accettare ricette di austerità dai costi sociali molto alti (Marsili-Varoufakis 2017, p.29), che comunque garantiscono a chi detiene il debito pubblico italiano, (per il 72% sono investitori Italiani) profitti che oscillano fra gli 80 e i 100 miliardi di euro l’anno. La crescita del debito non è stata neppure fermata dal Quantitative Easing, che comunque andava a finanziare le istituzioni bancarie, tanto meno dalla revisione del MES del 2020 che sposta l’indebitamento verso la BCE, limitando i rischi di default ma aumentando il potere direttivo delle istituzioni centrali europee.
Con la ricchezza finanziaria, concentrata per il 43% nelle mani di soli 411.000 cittadini italiani milionari, fra cui le banche e i loro azionisti hanno un peso importante, acquisire testate giornalistiche, agenzie di informazione, case editrici, università private, reti televisive e finanziare indirettamente i partiti politici attraverso le loro strutture sociali periferiche, come associazioni, ONG e fondazioni, non è certo un problema. Grazie alla proprietà privata delle “fabbriche del senso”(Chomsky 2023, Bellucci 2021), ovvero l’industria culturale e dei media, gli investitori finanziari, che per lo più drenano denaro pubblico e dei cittadini lavoratori-consumatori, sono sovra-rappresentati dai politici e dagli organi di informazione, mentre coloro che poi realmente producono la ricchezza consumata da tutti sono sotto-rappresentati, non sapendo neppure quali rivendicazioni avanzare a proprio vantaggio.
La maggior parte degli elettori si riconoscono oggi nei programmi della destra che cavalca il tema della sicurezza e della immigrazione irregolare (ma l’odio è rivolto anche a quella regolare, ovviamene), vuole meno tasse per i più ricchi (la famosa flat tax al 15% sbandierata da Salvini in campagna elettorale o l’abolizione dell’ICI e la riduzione delle tasse di successione al 4% eccedente 1 milione di euro di Berlusconi, attuate nel 2006 e mai più abrogate dai governi successivi) e più tolleranza per l’evasione fiscale (innalzamento del tetto per pagamenti in contante a 5.000 euro del 2022 per il governo Meloni).
L’unico partito di sinistra presente nel parlamento italiano con sei deputati, Sinistra Italiana, che vuole la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, maggiori tasse per i ricchi e l’istituzione di una timida patrimoniale, non arriva da solo al 4% di sbarramento e deve allearsi con i Verdi, che non condividono queste misure di sinistra “estrema” esposte nelle pagine 23 e 28 delle 75 del programma elettorale.
Sembra che il ceto politico, soprattutto a sinistra, abbia perso il contatto con la base elettorale, con i bisogni delle persone in cerca di un miglioramento nella propria condizione di vita. D’altronde la massa della cittadinanza è pienamente integrata in un flusso di informazione che ne cattura l’attenzione attorno agli interessi delle èlite che possono essere sintetizzati in: vendere, ingigantire problemi(emergenze), fornire(vendere) soluzioni. E’ impressionante riflettere su quanto tempo un numero enorme di persone impiega nel fruire contenuti audiovisivi e interattivi, che comprendono anche i videogiochi e i messaggi dei social network come Instagram, X, Whatsapp o Telegram, formattati secondo i criteri delle principali multinazionali del settore intrattenimento. I canoni estetici, di comportamento, i desideri più intimi e la rappresentazione del Sé vengono plasmati sulle necessità del mercato globalizzato presente e futuro, contemplando tutti gli aspetti della vita, dalla culla alla tomba. Il carattere totalitario di questo continuo e onnipervasivo condizionamento viene reso più accettabile dalla sua ramificazione in variopinte scelte di colore, marca, modello, stile di vita a cui aderire. Ai vecchi ruoli tradizionali rigidi, territorializzati e stratificati si sovrappongono nuovi ruoli fluidi, formattati dal mercato globale delle merci e dell’informazione. Non c’è nulla di apocalittico in questo ma non si riesce a nascondere il diffuso trauma personale della perdita di una identità rassicurante (anche politica) e la fragilità della nuova identità ancora molto incerta (di autonomo individuo consumatore) e legata alla capacità di spesa. La possibilità di costruire una contro-narrazione basata su valori differenti dalla totale libertà di profitto e spesa è attualmente impraticabile se non mobilitando anche militarmente le masse contro pericoli esterni che minacciano queste nostre “libertà”.
La crisi dei metodi
La diffusione di internet aveva già modificato le forme della comunicazione politica mettendo in crisi il format del partito televisivo degli anni 90-2000 (Gerbaudo 2022, p.45), quando la diffusione degli smartphone e dei social network, intorno al 2010, ha del tutto rivoluzionato il rapporto tra i politici e la loro base di simpatizzanti/elettori. Il medium, con la sua possibilità di interazione, ha portato ad una semplificazione e polarizzazione dei messaggi politici miranti esclusivamente alla costruzione di identità contrapposte sul modello Schmittiano. Ho scritto un articolo su questo tema specifico intitolato Cavalcare il Nemico e pubblicato su NOT durante la campagna elettorale del 2022.
Malgrado siano cambiate le forme di comunicazione, i leader e i messaggi veicolati all’elettorato in cerca di rappresentanza, i partiti e movimenti politici più istituzionali non sono poi cambiati molto, mantenendo una solida direzione centralizzata nella segreteria, a volte denominata “Cerchio magico” per le sue caratteristiche di insindacabile selezione personale del leader, assenza di trasparenza e assoluto potere sulle scelte strategiche. Questa forma è osservabile sia in partiti di destra, che di centro, che di estrema sinistra ma anche nei partiti di tipo nuovo, come il Movimento 5 Stelle. Quest’ultimo, a fianco dell’apparato di mobilitazione e partecipazione a tutte le fasi decisionali da parte degli aderenti, mediante la comunicazione social e la piattaforma consultiva Rousseau, manteneva in capo a un Direttorio, validato da un plebiscito, le decisioni strategiche e l’uso della stessa piattaforma decisionale.
La forma organizzativa a piramide schiacciata, mutuata dalla organizzazione aziendale dei servizi, in cui i livelli gerarchici vengono limitati al massimo, si struttura in quattro o cinque livelli, in cui ad ogni livello vengono individuate figure singole di responsabili di funzione o di territorio.
- Leader (Amministratore)
- Segreteria (consiglio di Amministrazione)
- Responsabili di settore o territoriali (Dirigenti, Manager, Funzionari..)
- Responsabili di gruppo operativo (Capi progetto)
- Semplici aderenti (Dipendenti, funzioni esecutive)
In una organizzazione produttiva, sia essa pubblica o privata, questa forma organizzativa è sufficiente, in quanto la motivazione a obbedire alla linea di comando è costituita principalmente dal denaro corrisposto come salario e la valutazione dell’operato viene dall’alto, dalla direzione, in base agli obiettivi che erano stati fissati, fondamentalmente la quantità di vendite o erogazione di servizi per cui si è ottenuto il budget.
In una organizzazione politica, e spesso anche l’azienda ha dei connotati politici, subentrano problematiche più complesse che implicano cicli di feedback poco prevedibili e non governabili solo economicamente. Nel formare i dirigenti politici, soprattutto bisogna capire se “si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca” (Gramsci 1971, p.34). Per Gramsci il dirigente politico non è solo un anello della catena di comando ma un leader riflessivo che condivide con il gruppo la responsabilità delle decisioni perchè deve formare nei militanti la capacità critica e la possibilità di ricambio della funzione direttiva: il buon leader va a formare altri leader, non si contorna di gregari yes-men.
Spesso invece non è chiaro e condiviso quali siano le finalità dell’organizzazione e quindi in base a quali parametri l’operato di coloro che la compongono può essere giudicato adeguato o meno e da chi. Se la finalità è l’aumento degli associati o la conquista di voti, e di solito un partito che si presenta alle elezioni ha queste finalità, il risultato andrà a misurare l’adeguatezza dei processi organizzativi, ma l’eventuale successo o insuccesso a chi devono essere imputati? I dirigenti dovrebbero valutare se stessi come inefficaci e farsi sostituire da persone maggiormente competenti, cambiando strategia. Ma questi nuovi potenziali leader esistono nella organizzazione? Sono stati nel frattempo formati o avvicinati? Sono disposti a svolgere quel ruolo? Domande retoriche.
La misura della quantità (di voti, iscritti, denaro raccolto, seggi conquistati) non è poi affidabile come indicatore anche se attualmente è un criterio cardine della visibilità e redditività sulla rete. Ottenere un successo numerico, in termini di voti e iscritti, può risultare effimero perchè conseguito inseguendo l’elettorato su un sentimento temporaneo dovuto alla congiuntura e a una campagna mediatica ben condotta, magari cavalcando “la pancia” dell’opinione pubblica. Il problema della volatilità del supporto elettorale è oggi molto percepito dai professionisti. La fiducia dura il tempo di una campagna elettorale, che a volte viene organizzata in tutta fretta per non perdere l’infatuazione del personaggio “nuovo”, talvolta bruciato appena dopo eletto con piccoli scandali e la macchina del fango. Qualcuno ha più sentito parlare l’onorevole Soumahoro eletto con AVS nel 2022?
In politica, poi, la conquista dei voti dovrebbe essere solo funzionale alla espressione di un potere che permetta di ottenere le trasformazioni sociali che ci si era prefissi come programma politico. Se, come spesso accade, la conquista di alcuni seggi in parlamento, solitamente all’opposizione, non producono alcuna trasformazione sociale auspicata, questo va letto come un fallimento dell’organizzazione o meno? Sta agli elettori deciderlo, rinnovando la fiducia nell’incarico dei rappresentanti o scegliendo un altro partito, magari meno aderente ai propri bisogni ma più forte e quindi in grado di ottenere almeno parziali conquiste, fino a votare “turandosi il naso” per un partito che fa schifo, considerandolo il male minore. Rappresentare il male minore (e questa è la retorica dell’antifascismo del PD) può essere considerato un successo dell’organizzazione politica? Certo, accontentandosi molto. Ci sono partiti che hanno fatto del menopeggismo la loro cifra politica rimanendo al governo per molti anni e sfruttando l’odio per l’antagonista (la DC, I comunisti, Berlusconi, Trump, Le Pen, Meloni).
Se le modalità di partecipazione alla vita politica tipiche dei pariti di massa, con le loro ramificate strutture periferiche territoriali, non sono più praticabili da almeno quaranta anni (Pisicchio 2022 p. 26), anche la passiva fruizione della comunicazione social o televisiva dei leader politici e la mobilitazione esclusivamente elettorale, per legittimarne le scelte calate dall’alto, non soddisfano i bisogni di integrazione della cittadinanza nella dimensione politica collettiva. Cadendo quella ritualità, che costituiva il corpo collettivo degli organismi di intermediazione, in grado di selezionare anche dalle classi subalterne dirigenti e amministratori pubblici, il corpo politico dei partiti viene percepito come estraneo ed elitario. Un gruppo di carrieristi incapaci e ambiziosi che si mettono al servizio di interessi economici in grado di finanziarli e che lottano fra loro per accaparrarsi voti e cariche pubbliche. Manca nella cittadinanza la percezione che il proprio coinvolgimento e l’attività del partito in generale possa in qualche modo influire sulla trasformazione della società in un senso che si vuole raggiungere. Lo storico olandese van Reybrouck suggerisce che l’equivalenza tra democrazia ed elezioni non sia più valida (van Reybrouck 2015, p. 33) come non lo è stata per secoli, dalla sua nascita nelle polis greche alle rivoluzioni borghesi e fino alla conquista del suffragio universale nella prima metà del ‘900. Bisogna trovare altre forme di partecipazione popolare al governo senza assolutizzare la rappresentanza elettiva. Non sono soluzioni alla crisi della democrazia né la tecnocrazia, né il populismo, che in un precedente articolo (Aristocrazia e tecnocrazia diretta) ho indicato come tendenze emergenti, seguendo l’economista e politico greco Yanis Varoufakis in: Il terzo spazio (1917) e Tecnofeudalesimo (2023).
“Cos’è la destra, cos’è la sinistra?”
La celebre domanda della canzone di Giorgio Gaber non ha ovviamente una risposta univoca e si presta a moltissime risposte superficiali ed estetiche, visto che quelli che per qualcuno sono valori, per altri sono disvalori.
Uno dei criteri per definire questo concetto relativo è legato alla sua nascita nella assemblea legislativa della Francia rivoluzionaria, i conservatori e i monarchici sedevano a destra mentre sempre più a sinistra i liberali fino ai Giacobini, repubblicani e protosocialisti. Il criterio era, e può essere anche oggi (tant’è che molti parlamenti sono ancora così suddivisi) tra conservatori e progressisti ma a volte gruppi parlamentari siedono a sinistra solamente perchè la destra è già tutta occupata, indipendentemente dai valori fondanti il partito.
Questa divisione aveva senso fino a un secolo fa, quando i conservatori erano tradizionalisti e monarchici e la destra espressione dell’alta borghesia imprenditoriale e agraria, mentre la sinistra incarnava valori repubblicani, socialisti e di cattolicesimo sociale, rappresentando le istanze delle masse popolari. Il fascismo in Italia ha sovvertito questa divisione eliminando le opposizioni e mobilitando le masse popolari con elementi di socialismo, tradizionalismo, futurismo e nazionalismo militarista, integrando la conservazione del potere aristocratico (destra) con la partecipazione di massa alla politica, lo stato sociale, gli ideali repubblicani mazziniani, la partecipazioni pubbliche nell’economia (sinistra), nella dittatura del partito unico interclassista. Il comunismo sovietico di Lenin aveva un simile obiettivo di superamento della democrazia parlamentare borghese (van Reybrouck 2015, p. 29), percepita come strumento della classe dei capitalisti.
Oggi che le attuali forze politiche non si pongono più come alternative al sistema di governo, rappresentato dalla repubblica parlamentare democratica, inserita finanziariamente nella cornice ordoliberale della Unione Europea e militarmente nel Patto Atlantico, cosa si intende per conservatore e progressista? O agli estremi, per reazionario e rivoluzionario?
Non troviamo certo una forza politica organizzata che auspica il ritorno della monarchia sabauda o borbonica o la restaurazione del potere temporale del papato. Quindi possiamo affermare che il fronte reazionario è decaduto. Allo stesso modo nessun partito, anche nell’estrema sinistra, si pone come obiettivo la conquista dello Stato con una insurrezione violenta e l’instaurazione della dittatura del proletariato, con conseguente progressiva eliminazione della proprietà privata delle terre e dei mezzi di produzione, o una qualsiasi altra forma di radicale sovversione dei rapporti sociali esistenti. Possiamo quindi affermare che anche il fronte rivoluzionario è decaduto. Tutte le forze esistenti dell’arco costituzionale possono allora essere considerate conservatrici degli attuali rapporti o progressiste se mirano ad una loro evoluzione, limitata ad alcuni aspetti di riduzione delle diseguaglianze economiche e dei fattori di esclusione sociale, nonché alla trasformazione del sistema produttivo nella direzione di una minore impronta ecologica. Questo è il programma espresso dagli organismi di governo nazionali e sovranazionali con l’agenda 2030, quindi i progressisti sono già al governo (Vineis – Carra – Cingolani 2020) e diventano conservatori della loro posizione a tutela di quelle riforme di transizione, in una cornice liberale e liberista condivisa con le opposizioni.
Questa differenziazione fra liberali di destra e liberali di sinistra, più che una contrapposizione fra progetti alternativi e non conciliabili di struttura sociale, appare soltanto come una forma di contrapposizione ideologica mirante alla occupazione del governo tramite le elezioni. Staremmo in questo caso assistendo alla trasformazione dei partiti in fazioni che si contendono il potere in un identico orizzonte di valori condivisi e non negoziabili, quella fine della storia osservata da Fukuyama (Viviani 2015, p. 66).
Se oggi la diade destra-sinistra ha ancora un senso, è proprio nel persistere dei conflitti anche nelle nostre società opulente e in una diversa accezione del concetto di uguaglianza, se formale o sostanziale (Bobbio 1994, pp. 80 e 99) in cui si distinguono i valori liberali da quelli socialisti. Per la sinistra socialista solo lo Stato può garantire dei diritti sociali ai cittadini, con buona pace dei liberali e degli anarchici idealisti e positivisti, perchè al contrario della loro visione idealista e naturalistica per cui “gli esseri umani nascono liberi”(ONU 1948), “non c’è libertà effettiva ed oggettiva senza organizzazione”(della Volpe 1964, p.144) perchè senza struttura sociale non esiste neppure l’individuo (Romano 2019, p. 145). Non sono quindi le naturali inclinazioni umane (Kropotkin 1950, p. 6) che possono garantire i diritti sociali, ma soltanto le istituzioni politiche e giuridiche che gli uomini si danno storicamente per definirli e tutelarli, limitando il potere di chi controlla la produzione e la distribuzione della ricchezza, delle informazioni e dei valori etici, sviluppando il potenziale economico, culturale e morale di ogni persona.
La governamentalità algoritmica del partito unico (diviso in fazioni)
Malgrado molte forze politiche ed economiche cerchino oggi di presentarsi come prive di una ideologia, sostenitrici di quella tecnica politica che si trasforma in scienza dell’amministrazione e del governo, che da Weber in poi caratterizza sempre di più l’auto-rappresentazione del ceto tecno-politico (Vineis – Carra – Cingolani 2020), anche il realismo politico è una ideologia. Quel “realismo capitalista”(Fisher 2018) che rende invisibile e pertanto immutabile il contesto onnipresente in cui ci si muove, assume la libertà degli agenti economici nel mercato come legge naturale, nascondendo che quella libertà viene declinata di volta in volta da sistemi normativi, approvati dalle istituzioni parlamentari e applicati dalle burocrazie, assumendo i connotati di una ideologia politica, chiamata dai suoi oppositori “neoliberismo” (D’Eramo 2020).
Gli economisti, cercando di appoggiarsi alla matematica finanziaria, nascondono il fatto che la scelta delle variabili da includere nelle equazioni non è affatto neutra. Anche la descrizione della ricchezza attraverso il denaro (e bisogna scegliere una moneta di riferimento per farlo) è una astrazione e non è neutra. Il concetto di valore in economia è sempre una scelta politica, tant’è che si parlava di economia politica (Mazzucato 2018, p. 98), prima di frazionare e neutralizzare il termine in Macroeconomia e Microeconomia.
Passare dal concetto di valore non monetizzabile della terra (fisiocratici) al capitale monetario e al valore-lavoro dell’economia classica ha corrisposto al cambio di paradigma politico dall’Ancien Regime alla società borghese. Con il passaggio al valore-relazione (marginalisti) il neoliberismo ha sganciato il concetto di valore dagli elementi materiali della sua produzione, limitandolo alla descrizione quantitativa della dinamica dei prezzi, governata da domanda e offerta, in una ideale condizione di mercato perfetto. Per mercato perfetto si intende la mancanza di “attrito” fra domanda e offerta, ovvero la libera concorrenza (perfetta anche quella) in cui merci e acquirenti sono liberi di spostarsi ovunque sui mercati. Se questo in particolari condizioni di pace, costruite politicamente con i trattati di libero scambio, la cosiddetta globalizzazione, può avvenire nel mercato finanziario globale, di certo non può avvenire con le infrastrutture produttive e nella vita delle persone comuni che, ponendosi come “agenti economici razionali” nel fornire manodopera, dovrebbero continuamente riqualificarsi e spostarsi emigrando verso mercati del lavoro in espansione, ignorando le relazioni sociali, la lingua e la cultura in cui sono radicate e affrontando la sofferenza che comporta il loro stravolgimento.
Ecco quindi che l’immigrazione-emigrazione è un correlato della globalizzazione dei mercati finanziari e delle merci e l’integrazione culturale, sociale ed economica di tutti i popoli nel liberalismo occidentale è il suo valore ideologico. I lavoratori cognitivi devono parlare inglese per poter essere ricollocati sul mercato internazionale del lavoro sulla base delle richieste delle aziende. L’idea che si possa migliorare la condizione di una popolazione senza costringerla alla emigrazione, in quanto contraria alle dinamiche “spontanee” dei mercati, viene vista come negativa e stigmatizzata con i termini di protezionismo, sovranismo, socialismo, intervento statale in economia, assistenzialismo. Infatti “il capitale è soggetto automatico che tende alla sua autovalorizzazione” (Marx 1980, p. 187), non a soddisfare i bisogni umani presenti, senza profitti possibili. I bisogni umani vanno a piegarsi al capitale materiale-immateriale e alle sue statistiche.
Tra proteggere la vita delle persone e proteggere la profittabilità dei mercati, gran parte del mondo ha scelto la seconda opzione, in quanto il livello di ricchezza accumulata dalle élite era già molto alto e si sono verificate pericolose crisi (bolle) di sovraccumulazione di capitale (Mazzetti 2016 p.24) in cerca di sbocchi. Le politiche antiinflazionistiche di austerity della UE, dalla sua istituzione fino alle crisi del 2008, tendevano proprio a preservare il valore dei grandi capitali accumulati che agiscono come predatori sui mercati globali in una guerra senza idea di futuro (Cacciari 2023).
Chiarito che c’è quindi una ideologia della finanza (intesa come insieme di persone che dalle rendite finanziarie traggono elevati profitti), c’è anche un partito di riferimento per la tutela dei suoi interessi, ed è quello che si trova al governo ovunque, alternandosi nelle sue fazioni di destra o di sinistra ,”il partito unico”(Marsili-Varoufakis 2017, p. 28) dell’establishment.
La modalità di questo governo è tecnocratica, ovvero burocratica e tecnoscientifica, si appoggia su istituti di misurazione delle variabili che gli interessano e apporta, con meccanismi automatici, correzioni agli indici di spesa nei settori che, in base ai modelli matematici di previsione, vanno potenziati. L’obiettivo esplicito è la stabilità e lo sviluppo del sistema stesso, i pericoli da evitare sono le crisi finanziarie e di insolvibilità dei crediti che potrebbero volatilizzare nel giro di poche ore asset da miliardi. Il filosofo Bernard Stiegler, in alcuni suoi libri ha chiamato questa forma politica governamentalità algoritmica (Stiegler 2019), perchè nasconde il potere della classe dirigente dietro opachi meccanismi automatici regolati da sistemi di feedback retroattivi, in cui anche i governanti vengono deresponsabilizzati dalle loro azioni. La relazione politica viene incorporata negli strumenti tecnici, integrati in tutti i livelli della amministrazione della sfera pubblica, e plasma le scelte politiche a valle della sua adozione.
Per fare un esempio a noi vicino, pensiamo al sistema dei varchi elettronici delle ZTL cittadine che si sono diffusi ora anche nei piccoli centri urbani di provincia, la cosiddetta smart city. Il sistema di lettura automatica delle targhe basato su IA permette la rilevazione immediata delle infrazioni (con un flusso di cassa per contravvenzioni indipendente dal numero di controlli effettuati di persona) e la possibilità di offrire permessi di ingresso a pagamento per residenti, turisti e non residenti (ulteriore flusso di cassa). Il sistema, inoltre, monitora e registra gli ingressi nel centro urbano di persone ricercate, sotto indagine, o comunque consente di identificare il proprietario dell’automobile o ciclomotore in transito, i suoi percorsi abituali, il suo stato assicurativo, tributario, ottemperanza delle revisioni, classe di emissioni. Questa modalità di gestione del traffico veicolare cambia quindi anche le forme della relazione nel centro abitato verso una forma più controllata, selezionata dal potere di spesa, continuamente monitorata e registrata. E’ di destra? E’ di sinistra? Nessuno dei due. E’ del partito unico che rappresenta fondamentalmente chi vende e gestisce queste tecnologie. Prima venivano assunti dei vigili urbani per regolare il traffico e sanzionare i trasgressori, ora viene appaltato tutto il servizio ad una società privata di consulenza informatica che fornisce solo i dati in tempo reale. Il vigile diventa il supervisore umano del sistema automatico e a quello si adegua. Gli amministratori politici avranno un flusso di dati dettagliati su cui inizieranno a svolgere correttivi: numero di ingressi, periodizzazione, entrate economiche per permessi o per multe, risparmio in stipendi, costi in consulenze e servizi. L’oggetto dell’amministrazione cessa di essere la mobilità cittadina e diventa la gestione delle variabili fornite dal sistema automatico di misurazione, considerate esse stesse come la realtà, misurata e quindi scientificamente oggettiva. Questa distorsione è comune al livello micro come al livello macro, internazionale, quando le variabili assumono il valore di aspettativa di vita, PIL, reddito, livello di istruzione, numero di figli, contratto di lavoro, precedenti penali, spese mediche, tasse pagate, insolvenza debitoria, soddisfazione per l’attività di governo, patrimoni posseduti, etc…
Come nascono i partiti
Il sociologo della politica Lorenzo Viviani presenta due macro aree di formazione dei partiti intorno a due tipi di fratture (Viviani 2015, p.29). Una primitiva e costituente identificata dal territorio e dalla cultura di appartenenza, che si trova alla base delle identità etniche, religiose e nazionali. Successivamente si identificano dei partiti sulla base di fratture sociali e movimenti collettivi che derivano da quelle (possidenti-salariati, aristocratici-plebei, cittadini-rurali, poveri-ricchi, progressisti-conservatori, militaristi-pacifisti, liberali-autoritari, ecologisti-consumisti, materialisti-idealisti).
In base a queste fratture è molto importante capire come si collocano i partiti esistenti ed eventuali forze che tendono a nascere. Se la destra tende ad appropriarsi delle fratture territoriali e culturali più vicine alle comunità, la sinistra tende a coltivare le fratture sociali nelle sue biforcazioni maggiormente progressiste e democratiche, quando non si appoggia sul sostrato cristiano e identitario.
Le identità territoriali e culturali non fanno parte delle scelte di opinione ma riguardano la forma in cui l’individuo è stato socializzato, principalmente dalla famiglia di provenienza ma anche dall’ambiente prossimale e linguistico in cui è cresciuto, facendo presa sui valori profondi che costituiscono il Sè e che quindi si sviluppano lentamente attraverso le generazioni.
In base alle fratture elencate proviamo a definire l’identità del partito unico del governo europeo, quello che abbiamo prima descritto, che riunisce attorno al programma della attuale presidente Ursula von der Leyen, e che poteva avere in Mario Draghi il suo rappresentante italiano, il consenso ampio delle forze politiche, dai socialisti alla destra liberale. Si parte certamente dalla comune identità territoriale europea e occidentale, cristiana per rappresentare la popolazione liberale, progressista, materialista, ecologista, militarista, aristocratica, cittadina, ricca e possidente.
Se questa è la parte della ragione, l’opposizione antisistema non può che sedersi dalla parte del torto andando ad occupare le nicchie rimanenti, spesso incompatibili tra loro, e dovendosi quindi necessariamente frazionare tra destra nazionalista, autoritaria, rurale, sviluppista, plebea e povera e una sinistra pacifista, idealista, di lavoratori salariati, che è talmente erosa dagli aspetti progressivi del partito unico di governo da rimanere molto minoritaria.
Un aspetto fondamentale da cui non si può prescindere per spiegare il successo del partito unico di governo è difatti l’evoluzione sociale della popolazione europea negli ultimi decenni e il suo spostamento verso destra. Il tasso di scolarizzazione elevato, uno stato sociale estremamente sviluppato assieme alla concentrazione di ricchezza che presenta le diseguaglianze più basse al mondo, hanno fatto sì che la classe media di piccoli possidenti diventasse numericamente predominante (circa il 70% nei paesi UE) in quasi tutta Europa, favorendo i partiti conservatori, liberali e liberisti sostenitori dell’establishment europeo (Revelli 2015, p. 116), anche quando si rifacevano ad una tradizione socialista come il Labour inglese, i Socialisti spagnoli e francesi e i DS italiani (finché non hanno deciso di eliminare la parola sinistra anche dal nome). Nei paesi dell’Est Europa, di più recente adesione alla UE, la classe media anche se non maggioritaria è comunque in forte ascesa e vede nel mercato unico dell’Euro la possibilità di un veloce sviluppo economico attirando gli investimenti con i bassi salari, energia a buon mercato e i consumi in espansione. La possibilità della emigrazione senza necessità di permessi di soggiorno verso paesi più ricchi della UE ha favorito una entusiasta adesione alle politiche europeiste e liberiste delle classi meno abbienti, sostenuta anche da una storica avversione per l’esperienza socialista vissuta in epoca sovietica.
La crisi è solo nostra
I recenti appuntamenti elettorali europei ci hanno mostrato che le forze politiche esistenti rappresentano abbastanza fedelmente le fasce sociali europee, con uno spostamento verso la destra nazionalista delle posisizioni antisistema. Anche l’affermazione del Fronte Popolare nelle elezioni nazionali francesi e del Labour inglese mostrano una sinistra politicamente vitale e capace di raccogliere il consenso: più radicale in Francia con il successo di Melanchon e del suo partito FI; maggiormente istituzionale il Labour inglese, che garantisce stabilità ai mercati finanziari e negli impegni militari assunti nella NATO.
Ma la vera crisi di rappresentanza della sinistra è in Italia dove la destra nazionalista è saldamente al governo, avendo abbandonato ogni velleità antisistema e anti UE, e la sinistra, unendosi ai Verdi, raggiunge il 6,5 % considerandolo una buona vittoria. Eppure, eccetto Mimmo Lucano e Ilaria Salis, gli eletti di AVS hanno votato per la rielezione alla presidenza europea della popolare von der Leyen, con il suo solito programma di governo europeo già sperimentato da diversi anni. Difatti gli eletti in quota Verdi non fanno parte del gruppo parlamentare europeo della GUE ma di S&D, i socialdemocratici, come il PD. In Italia i partiti di sinistra, con programmi simili a quello del francese Melanchon, non raggiungono neppure la soglia di sbarramento o rinunciano a presentarsi.
C’è poco da invocare una crisi generale della politica e della rappresentanza, che si manifesta nella diffusissima astensione. Siamo noi, la piccola e non tanto piccola minoranza di sinistra più o meno radicale che non troviamo un rappresentanza politica che ci soddisfi pienamente, rimanendo frammentati e in perenne conflitto fra identità molto simili eppure incompatibili, irrimediabilmente settarie. Il ritiro nel sociale della sinistra extraparlamentare degli anni ’80 ha dato vita al movimento dei Centri Sociali che, negli anni ’90 ha traghettato l’identità comunista verso posizioni più libertarie e anarchiche tendenti all’astensione (Candela – Senta 2017, p.8) che andavano a occupare il ruolo di agenti sociali territoriali non statali, come anche le organizzazioni confessionali e il privato sociale. Queste organizzazioni nascevano attorno a spazi occupati o dati in concessione dai comuni in cui c’era una sponda politica e costituivano e costituiscono tuttora parte di quelle organizzazioni periferiche dei partiti coalizzati in partititi-cartello (Katz – Mair, 1995), in grado di assorbire le frange più estreme degli schieramenti di sinistra. Parallelamente anche la destra estrema ha costruito i suoi spazi sociali occupati o assegnati, ma senza la ritualità gestionale assemblearista, preferendo l’inquadramento gerarchico paramilitare e presentandosi a volte come partito.
L’intervento europeo, statale e municipale con bandi a sostegno della sussidierietà nell’erogazione dei servizi di welfare nelle forme del terzo settore, ha favorito la pratica del community organizing statunitense (Alinsky 2022), ovvero interventi di Advocacy e co-progettazione, spesso previsti e finanziati dai bandi stessi. La diffusione di queste forme di organizzazione politica “dal basso” (grassroots) maschera spesso i ruoli di leadership professionali che non sono affatto spontanei ma diretta espressione della distribuzione di denaro per raggiungere obiettivi politici (Astroturfing). Open Society di Soros ad esempio mira a sostenere dei gruppi territorializzati di interesse, spesso legati a minoranze e associazioni esistenti, che coinvolgano la politica a rappresentarne le istanze, come hanno sempre fatto le chiese con le loro strutture di assistenza e volontariato sociale come Caritas e Sant’Egidio. Queste reti federate di intervento sociale formano così la base diffusa e variegata del consenso dei partiti-cartello (Katz – Mair, 1995) attorno a tematiche specifiche (povertà, immigrazione, parità di genere, disagio psichico e fragilità varie) senza intenzione di costituirsi in una forza politica ma cercando rappresentanza in quelle esistenti e di governo, riuscendo talvolta a far eleggere candidati ”di movimento”. Questi ecosistemi, o arcipelaghi, anche in conflitto fra loro per le risorse economiche mantenute scarse e incerte dal sistema dei bandi, sono i referenti territoriali dei rappresentanti politici, la cosiddetta “società civile”.
Il cartel-party è il gruppo professionale degli eletti che trovano nella società civile i loro elettori/acquirenti rivelandosi come un “contenitore di partiti, con una sorta di contratto stipulato fra le parti in cui sono fissati diritti, responsabilità e obblighi dei vari comitati locali, e in cui la direzione nazionale è libera di stabilire le linee di mercato senza dover dipendere dalle unità periferiche.” (Viviani 2015, p.75) Una sorta di Partito in franchising che riesce ad occupare tutto il campo politico, tenendo fuori temi e forze potenzialmente disgreganti, quelle anti-establishment. Secondo lo stesso Viviani “la cartellizzazione riflette un più generale ampliamento dei soggetti titolati a erogare servizi per conto dello Stato”(Viviani 2015, p.77), è quindi un portato delle politiche sovranazionali di governance e sussidiarietà.
Forme e tecniche della politica
Se si formasse in Italia una forza politica di sinistra antisistema, sul modello de La France Insoumise, potrebbe conquistare consensi e rappresentanza tra quei molti delusi dalla sinistra liberale, che partecipa al partito unico di governo europeo, e tra quanti hanno rinunciato a esprimere il voto?
Il tentativo fatto nel 2018 con Potere al Popolo andò male (1 % alle elezioni politiche) per vari errori nel processo fondativo, che forse oggi sono stati capiti senza per questo essere risolvibili, e per il fatto che la rivoluzione antisistema era in quelle elezioni rappresentata dal Movimento 5 Stelle, che superò il 30% dei consensi. Un terremoto, o uno tsunami come lo definirono. Terremoto però del terzo grado della scala Mercalli (appena avvertibile) che non intaccò le strutture del potere a cui tutela venne messo niente di meno che un uomo del palazzo, il giurista Giuseppe Conte, affiancato da scomodi partner di governo, la Lega prima e il PD poi. Quella che doveva essere una rivoluzione si rivelò una timida ripresa dello stato sociale sotto l’emergenza della pandemia, conclusa con il ritorno al rigore neoliberista del salvatore della finanza Mario Draghi, profeta del PNRR, ovvero del finanziamento pubblico delle aziende private in crisi. Con le elezioni del 2022 emerge trionfante la figura di Giorgia Meloni, strenua oppositrice di Draghi e omologa della francese Marine Le Pen. Quale discontinuità abbiamo percepito rispetto al suo predecessore?
I recenti e meno recenti fallimenti elettorali delle forze politiche di sinistra, in Italia, non possono essere scaricati sull’elettorato. Obiettivo di un partito è costruire e raccogliere attorno a sé il consenso, quando non riesce in questa impresa ha fallito, se non nella scelta dei suoi obiettivi, almeno nella strategia. Vista la mancanza di democrazia effettiva vigente in queste strutture, inoltre, la responsabilità del fallimento ricade interamente sui dirigenti che ostinatamente continuano da anni a utilizzare le stesse tecniche di gestione dell’organizzazione, semplicemente perchè non ne conoscono altre rispetto al centralismo burocratico e all’assemblearismo rituale. Quello che poteva anche funzionare nei partiti di massa come la DC e il PCI fino a quaranta anni fa, con solide strutture territoriali ed economiche, non funziona certo oggi che quelle strutture si sono autonomizzate e fanno riferimento alle istituzioni governative. L’evoluzione in partito-azienda (party machine), non è adatto alla sinistra che manca dei finanziamenti degli imprenditori e degli investitori finanziari, coerentemente organici ai partiti liberali-liberisti.
L’errore fondamentale che ha caratterizzato tutti i tentativi di ricomposizione della sinistra “di classe” dentro una coalizione elettorale (Sinistra Arcobaleno, L’Altra Europa, Brancaccio, DIEM25, Potere al Popolo, La Sinistra, Pace Terra Dignità, AVS) è stato il voler presentare una lista a pochi mesi dalle elezioni con un patto di vertice fra organizzazioni preesistenti e strutturate, senza minimamente intaccare la loro gerarchia interna e i loro programmi macedonia. E’ totalmente mancata quindi la fase costituente e prolungata di coesione e identificazione dei sostenitori attorno ad un nuovo unico soggetto (un popolo), con la formulazione condivisa degli obiettivi espressi, la formazione e la individuazione dei dirigenti e la scelta condivisa dei candidati da esprimere. In tutte queste fasi è normale che emergano figure leader, che possono anche essere politici di lungo corso in grado di governare quei processi, come nel caso di Melanchon in Francia, ma i leader devono sapersi far riconoscere, raccogliere intorno a loro le persone più capaci e non presentare uno staff già costituito di fedelissimi, impermeabili a qualsiasi contaminazione, per affidargli la comunicazione dell’organizzazione, ovvero la gestione interna (1), per mantenerne con sicurezza l’egemonia.
Spesso il problema riscontrato nella formazione di nuovi soggetti politici è stato la mancanza di risorse umane ed economiche disponibili. Le uniche persone con a disposizione uno staff, pagato o volontario (perchè ex-deputati, imprenditori, dirigenti sindacali), erano quelle in grado di sobbarcarsi l’onere di assumere il ruolo dirigente e, in cambio di questo, pretendevano di essere i candidati e i leader.
In tutti i casi precedenti abbiamo osservato i dirigenti alla ricerca di una base da rappresentare nella forma esclusiva delle elezioni, non “un «movimento» o tendenza di opinioni, [che] diventa partito, cioè forza politica efficiente dal punto di vista dell’esercizio del potere governativo; nella misura appunto in cui possiede (ha elaborato nel suo interno) dirigenti di vario grado e nella misura in cui essi dirigenti hanno acquisito determinate capacità” (Gramsci 1971, p. 108). Un processo gestito così, dall’alto, funziona solo se incontra perfettamente le aspettative della base sociale che vuole rappresentare e se risulta credibile e affidabile. Tutte condizioni del riconoscimento carismatico del potere e che quindi selezionano chi è in grado di costruirlo con una narrazione mediatica, nella difficoltà aggiuntiva di dover operare in un ambiente libertario, la nuova sinistra post-comunista, che si nutre della narrazione dell’autogoverno e dell’orizzontalità nel rifiuto della leadership (Nunes 2020, pp.158-159). Una narrazione ideologica che obbliga il capo a nascondere il suo ruolo dietro un assemblearismo rituale che lo legittimi, risultando continuamente ipocrita e poco credibile oltreché insopportabilmente autoritario.
Alcuni partiti di recente formazione (Partito Pirata, Podemos, M5S, FI) hanno provato a superare questo problema della legittimazione della rappresentanza con l’implementazione di piattaforme digitali deliberative, che favorissero la partecipazione degli iscritti alla organizzazione e ne permettessero il coinvolgimento nella struttura e nelle scelte strategiche generali (Deseriis 2024). Come ha notato Paolo Gerbaudo nel suo libro Partiti Digitali, questi partiti, dopo aver incassato un ottimo successo si sono scontrati con i limiti della democrazia elettronica e con un uso plebiscitario di questi strumenti. Questi hanno perseguito l’obiettivo della
“organizzazione distribuita” – espressione coniata da Becky Bond e Zack Exley [2016], membri dello staff di Bernie Sanders -, che punta a sfruttare il lavoro politico distribuito fornito dalla loro stessa base di sostegno, in modo simile a quanto fanno i social media con il “lavoro gratuito” dei loro utenti (Gerbaudo 2020, p. 30)
riuscendo a convogliare i propri militanti nel lavoro volontario sul breve periodo, fino alle elezioni. In questi casi di plebiscitarismo digitale, e in quelli in cui i partiti tradizionali hanno provato a rinsaldare il legame tra i rappresentanti e la loro base elettorale mediante l’uso di piattaforme o processi deliberativi molto ampi, come le “primarie” del PD, a cui hanno partecipato più di un milione di iscritti e simpatizzanti, assistiamo comunque a operazioni in cui il vertice chiede legittimazione alla base attraverso procedure che controlla totalmente (Gerbaudo 2020 p.176). Questa pratica deriva dalla costruzione della party machine statunitense, in
“una democrazia plebiscitaria in cui il popolo sceglie il leader e lo identifica con la causa (Cavalli 1987a, p.25). Una trasformazione resa possibile dalla necessità, da parte dei professionisti della politica, di scegliere dei candidati presidenti in grado di garantire loro l’accesso alle risorse pubbliche, e così riuscire ad esercitare il potere di patronage. […] L’azione “demagogica” del capo , e la sua capacità di attirare consenso elettorale, operano in modo che il partito acquisisca una posizione strumentale di potenza essenziale per la redistribuzione delle posizioni di privilegio. (Viviani 2015, pp. 47-48)
Chi possono essere gli uguali. Una rinnovata avanguardia.
L’assenza di leader riconosciuti (dirigenti, organizzatori, rappresentanti, intellettuali, comunicatori, attivisti..) corrisponde alla mancanza di organizzazione e quindi all’impossibilità di coordinare un gran numero di persone verso un obiettivo comune (Nunes 2021, p. 108), mentre una gerarchia percepita come arbitraria, opportunista come i politici di professione, poco trasparente e incapace porta chi svolge funzioni operative ad essere demotivato e quindi a pretendere un salario (motivazione esterna) per svolgere le sue mansioni. Il professionismo è la norma in partiti azienda (il party machine sul modello statunitense), capaci di ottenere fonti sicure di finanziamento grazie ai ruoli conquistati nelle istituzioni, abituati a pagare bene i dirigenti (Weber 2004) affidarsi a comunicatori professionali e comprare gli spazi pubblicitari per la visibilità. D’altro canto la mancanza di motivazione intrinseca, e quindi di partecipazione attiva dei volontari, rende le piccole organizzazioni deboli e prive di gambe, incapaci di competere con le strutture finanziate con una filiera capital-intensive.
Per le organizzazioni che vogliono conquistare nuovi spazi di visibilità e rappresentanza è fondamentale saper coinvolgere una larga base di volontari coordinandone il lavoro e motivandoli adeguatamente anche a finanziare l’organizzazione (Bond-Exley 2016, p. 26). Il lavoro volontario effettuato deve essere adeguatamente ricompensato rispondendo ai bisogni di identificazione, piacere nella percezione di autoefficacia e socialità condivisa con gli altri appartenenti all’organizzazione. Inoltre, l’appartenenza al gruppo e lo svolgimento delle attività volontarie devono concedere all’attivista una aura di figaggine (drip) che facilitino la sua affermazione sociale negli ambienti che frequenta. L’impegno militante deve quindi rispondere al bisogno di autorealizzazione e appartenenza, che sono certamente bisogni evoluti ma parimenti molto diffusi in una società opulenta e atomizzata, che ha liberato gran parte dei suoi cittadini dalla esclusiva necessità di sopravvivenza. La militanza politica può costituire una soddisfacente attività del tempo libero, alternativa all’intrattenimento disimpegnato delle serie televisive, dei social network o di altri diffusi passatempi. Sta agli organizzatori predisporre modalità di partecipazione che siano adeguate ai bisogni attuali dei potenziali attivisti da intercettare e coinvolgere, tenendo conto delle differenti età e attitudini e del fatto che la disponibilità sarà limitata e non continuativa, quindi non paragonabile ad un impegno professionale.
Una legge empirica del coinvolgimento è quella del 10% nelle fasce concentriche: nel numero totale di simpatizzanti/elettori, il 10% si lascia coinvolgere dalle attività social/web, di questi il 10% assume un ruolo attivo partecipando al dibattito, di questi il 10% passa all’azione in presenza diventando associato e di questi il 10% assume una funzione dirigente, che solo nel 10% dei casi è realmente direttiva. (2)
La percentuale del 10% configura una struttura piramidale piuttosto verticale che necessariamente deve schiacciarsi per potersi allargare verso una organizzazione di massa in cui i membri attivi sono molti meno dell’ 1 % dei rappresentati.
La militanza attiva non può essere di massa ma è necessariamente riservata ad una minoranza particolarmente coinvolta che si costituisce di fatto come avanguardia, anche se questo termine viene accuratamente evitato. Assumere una funzione di avanguardia (Nunes 2021, p. 167) significa che queste persone, che agiscono in base a dei bisogni ricchi di autorealizzazione e socializzando il loro lavoro per il progetto di una società che soddisfi maggiormente i bisogni di tutti, vanno a porsi come modelli ed esempi per la trasformazione sociale, nodi attivi in una rete, come nello slogan zapatista “Para todos todo, nada para nosotros”. Il rischio è però quello di selezionare in questo modo dei narcisisti patologici, sia nella forma overt, grandiosa, autoritaria, istrionica e alla ricerca di continua ammirazione, sia nella forma covert, umile, altruista e dedita al sacrificio per meritare comunque l’altrui ammirazione. Nella organizzazione sana il narcisismo può essere un motore dell’azione ma riesce ad essere bilanciato dalle altre componenti. I narcisisti non assumono troppo potere e si riescono a perseguire gli obiettivi comuni senza allontanarli in un irraggiungibile futuro per giustificare pratiche puramente autocelebrative. La caratteristica comune alle organizzazioni dirette da narcisisti è infatti quella di porsi obiettivi grandiosi e utopici che non possono essere verificati nel breve periodo, (es. il comunismo, l’anarchia, la pace universale, l’autosuffcienza delle comunità rurali, la salvezza del pianeta, etc…). La continuità delle organizzazioni apocalittiche, ribelli, di lotta armata, religiose e ambientaliste è stata proprio quella di sfruttare l’angoscia della catastrofe (Lomborg 2024, p. 7) propria del millenarismo (Delhoyse – Lapierre 2024, p. 329) per una chiamata all’azione urgente, con un obiettivo che si colloca dopo la morte, meglio se dopo il martirio. Anche se affascinante e talvolta di successo questo tipo di organizzazione non raggiunge alcun obiettivo concreto e talvolta porta alla rovina i suoi aderenti (repressione, carcere, morte), rinforzando semplicemente l’identità di vittime del potere che in alcuni casi, come il cristianesimo, è fondativa.
In una organizzazione attuale e laica, i gruppi di attivisti, che nel tempo si soggettivizzano in una formazione esperienziale a cui l’organizzazione riserva un ruolo importante, vengono preparati ad essere dei leader funzionali e tra di loro si considerano eguali. Non lo sono già, ma diventano omogenei nella cultura che vanno a costruire assieme nell’azione, costituendosi come comunità e intelligenza collettiva. Solo a quel punto dello sviluppo interno dell’organizzazione ha senso adottare la democrazia deliberativa, in quanto questa può essere attuata solo fra chi ha pari strumenti di interpretazione e di espressione.
Finchè tra i vari livelli dell’organizzazione persistono forti disparità di coinvolgimento, di conoscenze e visioni, dire che 1 vale 1 significa soltanto postulare che tutti valgono 0, perchè il leader carismatico, che emerge nella comunicazione, sarà in grado catalizzare l’attenzione e il consenso della maggioranza, di solito meno competente e coinvolta, verso la sua posizione e contornandosi di sodali. E’ il famoso argomento contro la democrazia che Platone fa pronunciare a Socrate contro Gorgia. Il demagogo, forte della sua arte retorica, riesce facilmente ad apparire più sapiente di qualsiasi esperto di fronte a una assemblea ignorante, in quanto l’ignoranza è sempre maggioritaria rispetto alla conoscenza specifica dell’argomento di cui si parla (Platone 1993, p.77).
Non serve a nulla costruire meccanismi di controllo democratico nelle organizzazioni politiche, come abbiamo in passato creduto, se non sono presenti percorsi di formazione interna aperti e differenziati che permettono il confronto e l’elaborazione sugli obiettivi e sulla strategia. Al limite, in una fase iniziale può essere sufficiente anche un sistema di validazione del gruppo dirigente in base agli obiettivi che si era prefisso, che quindi devono essere palesi, e un sistema di sorteggio e rotazione delle cariche (van Reybrouck 2015) per dare a molti la possibilità di mettersi alla prova in ruoli dirigenti.
L’organizzazione sana cambia gruppo dirigente e strategia quando incorre in un fallimento, quella disfunzionale nega che ci sia un fallimento e attribuisce ad altre cause l’abbandono repentino dei simpatizzanti e attivisti. Nel primo caso l’organizzazione esprime un gruppo dirigente della base degli aderenti, nel secondo l’organizzazione è il gruppo dirigente separato dalla base che può solo identificarsi o andarsene, come dei consumatori possono solo comprare il prodotto o meno.
Alcune proposte.
Chi volesse oggi dar vita ad un organizzazione di tipo partitico dovrebbe a mio parere mantenere le distanze da tutti i movimenti sociali legati a territori e a particolari tematiche, stipulando con quelli alleanze solo in un secondo momento, quando la prospettiva della partecipazione istituzionale fosse realistica. Il rischio è altrimenti quello di ipotecare il programma su posizioni parziali e non universalmente condivise per garantirsi l’appoggio tattico di gruppi fortemente coesi ma estranei. Il classico limite degli intergruppi che formano una somma minore delle quantità degli elementi e che portano a inevitabili conflitti interni per negoziare il “peso” delle varie componenti. I temi attorno a cui convergere devono essere pochi, chiari e universalmente condivisi e condivisibili.
Alla luce di alcune esperienze accumulate nell’attraversare le formazioni politiche nascenti degli ultimi anni (Diem25, Potere al Popolo), vorrei formulare alcune proposte che riguardano maggiormente la forma delle relazioni che una forza politica dovrebbe assumere, più che i suoi contenuti programmatici. Questo perché nella forma è insito il messaggio del tipo di società che si vuole costruire. L’organizzazione, con le relazioni fra associati, può essere, a mio avviso, l’esempio della società futura in miniatura. I rapporti al suo interno comunicano all’esterno il programma politico. Non è una idea nuova, tutta l’autogestione anarchica contemporanea è nata così, come “rivoluzione in atto” e rifiuto della politica istituzionale ma, già dalla nascita, intorno ai movimenti del 1968, erano evidenti i suoi limiti di efficacia e riproducibilità oltre la dimensione municipalista (Candela – Senta 2017, p.8), per la necessità di organizzazione sollecitata già da Errico Malatesta nel suo scritto Un progetto di organizzazione anarchica (Malatesta 1927). La rinuncia dei movimenti ad organizzarsi in partito non ha diminuito l’influenza dei governi e del potere economico sulla società civile ma ha impedito di potergli opporre una qualsivoglia alternativa. Come recitava l’adagio: “se non ti occupi di politica, la politica comunque si occuperà di te”; mentre nel frattempo la politica è diventata una articolazione del mercato e quindi della dinamica del capitale.
Nelle due dimensioni in cui ogni partito si articola, quella esterna in cui comunica con i potenziali sostenitori e con tutta la società, e quella interna in cui comunica e organizza i propri aderenti, ritengo che quest’ultima sia fondamentale e da innovare, in quanto costituente, mentre la comunicazione esterna è influenzata dall’attualità e dalla tattica che può cambiare anche repentinamente.
Se il momento rituale dell’assemblea, con il succedersi degli oratori e l’approvazione del pubblico sono ancora momenti utilizzabili per unire la base degli aderenti attorno alla narrazione condivisa, non è certo a questi eventi che può essere limitata la dialettica interna dell’organizzazione.
Le organizzazioni recenti, sul modello dell’autogestione, hanno previsto spazi di dibattito interno in cui la dirigenza ascolta le istanze portate dai militanti, queste però non vengono strutturate in proposte da discutere. I leader ne prendono nota, se convergono con la loro strategia possono essere integrate, altrimenti cadono nell’oblio o vengono apertamente bloccate. Le tecniche di gestione di riunioni e assemblee è ormai nota, si tratta di controllare chi distribuisce i turni di parola (basta indire la riunione decidendo luogo e ora) e avere una certa massa critica di sodali (le famose truppe cammellate) che ripetono tutti la stessa cosa e approvano quanto detto dai leader.
Vi sono oggi metodi più inclusivi di facilitazione di riunioni adottati dai vari movimenti Occupy, 15M, Indignados, etc.. (Graeber 2014, p. 57) che permettono di ascoltare tutte le voci presenti ma hanno dimostrato la totale inutilità nei compiti di direzione e decisionalità, perchè diventano estenuanti maratone in cui persone non abituate a parlare in pubblico ripetono banalità conformiste già sentite o sfogano i proprio disagi senza riuscire a focalizzare un problema e a risolverlo, bloccate dal fanatismo della orizzontalità (van Reybrouck 2015, p. 29). In quei movimenti l’obiettivo delle assemblee era rituale e mirato a far sentire tutti sullo stesso piano, come comunità di eguali. Esistono invece tecniche molto efficaci per la gestione di riunioni di scopo, operative, utilizzate in ambito corporate o sociale, ma richiedono che i partecipanti siano in un certo senso motivati e competenti in modo equilibrato.
Come ben chiarito nel libro, Neither Vertical nor Horizontal, di Rodrigo Nunes, bisogna trovare l’equilibrio ottimale fra la direzione verticale e l’inclusività orizzontale (Nunes 2021, p. 56), differenziando i momenti rituali da quelli decisionali come da quelli operativi e trovando per ognuno la giusta formula.
L’uso di strumenti digitali di discussione e decisionalità può essere un valido supporto alla partecipazione degli aderenti ma va sempre di pari passo con la partecipazione in presenza (Deseriis 2024). Strumenti come Loomio o LiquidFeedback permettono di portare avanti processi complessi di formulazione di proposte, emendazione di documenti, sondaggi, votazioni, elezioni di cariche, rendendo trasparenti i processi interni dell’organizzazione. Questi software (gratuiti e open source), il primo sviluppato da un team neozelandese vicino ai movimenti Occupy, il secondo dal Partito Pirata, permettono anche di svolgere votazioni a scrutinio segreto o palese durante le assemblee o in differita, in diversi giorni.
Nessuno strumento tecnico risolve problemi politici, casomai li incorpora. Il partito che si pone un obiettivo deve affrontare tutte le fasi necessarie, dalla individuazione di una platea, alla costituente, alla definizione di ruoli e regole fino alla gestione dei processi di crescita e intervento. Se l’obiettivo non è esplicito e le varie fasi vengono gestite in modo ambiguo, di fretta e talvolta intenzionalmente di fretta, con l’urgenza della scadenza elettorale, il fallimento è inevitabile. Se vedete nascere una forza politica o una coalizione sei mesi prima delle elezioni potete stare certi che non sarà un successo. Ci vogliono anni per sviluppare una organizzazione politica efficace, si vedano gli esempi del M5S (4 anni) o di Podemos (3 anni) o di FI (1 anno). Comunque se l’obiettivo rimane limitato esclusivamente alla partecipazione ad una tornata elettorale il successo, oltre che scarso, sarà effimero. L’obiettivo principale della costituzione del partito resta, a mio avviso, la soggettivazione degli aderenti e di tutte le persone con cui viene a contatto, puntando ad assumere un ruolo riconosciuto nella società e nelle istituzioni.
Un aspetto importante nella definizione degli equilibri del potere nell’organizzazione è anche il finanziamento e la sua trasparenza.
Una forma efficace per mantenere la fonte del finanziamento alla base degli associati potrebbe essere l’abbonamento annuale ad una App per smartphone, che permetta la comunicazione con e tra gli associati, di visualizzare il calendario degli eventi, partecipare ai processi interni, alla decisionalità e avere la possibilità di incontrare gli altri associati sul territorio, formando dei gruppi in presenza o in videoconferenza. Se l’organizzazione risponde ai bisogni di rappresentanza e viene percepita come efficace, l’associato rinnoverà l’abbonamento/tesseramento altrimenti segnalerà il ritiro del suo mandato non rinnovandolo, coerentemente con la nostra abitudine a relazionarci come consumatori di merci e servizi. Il finanziamento è inizialmente l’obiettivo prioritario perché occorre uno staff pagato, anche se esiguo nel numero, e dei costi di comunicazione iniziali per diffondere il progetto. Se un soggetto politico preesistente (ONG, fondazione, sindacato, editore..) fornisce il capitale iniziale, si approprierà in questo modo della struttura e pretenderà di governarla secondo i propri scopi. Inizialmente sarebbe meglio avere una cooperativa ad azionariato diffuso che esprima uno staff professionale e che mantenga nel tempo la proprietà comune delle infrastrutture, del nome e del simbolo come degli spazi di comunicazione. Lo statuto della cooperativa potrebbe essere la garanzia della trasparenza e del controllo democratico sul gruppo dirigente iniziale.
Note
(1) Il Prof. Piero Dominici, nella sua lezione “Comunicazione è organizzazione” nell’ambito nel corso di comunicazione politica dell’Università Uninettuno, osserva come, soprattutto nella società complessa: “La comunicazione è processo sociale di condivisione della conoscenza, laddove conoscenza è uguale potere [..] e non si tratta di uno slogan” e quindi “essenza stessa dell’agire organizzativo”.
(2) Nel 2022 La France Insoumise ha conquistato 3 Mln di voti e 7 Mln di preferenze per il suo leader come presidente, con 400.000 iscritti sostenitori, 200.000 iscritti alla pagina Facebook e circa 5000 gruppi locali con migliaia di volontari. Come in tutti i partiti il gruppo dirigente è formato da qualche decina di quadri con un leader carismatico (fonte Il Manifesto e Wikipedia)
Nel 2018 Potere al popolo ha preso 370.000 voti, aveva 100.000 iscritti alla pagina Facebook, 10.000 iscritti alla piattaforma su cui hanno votato circa 1.500 iscritti, il coordinamento nazionale era formato da circa 100 delegati e il gruppo dirigente dai circa 10 rappresentanti dei partiti/gruppi costituenti (fonte Wikipedia).
Il Movimento 5 stelle nel 2018 ha preso più di 10 mln di voti, aveva 1,4 mln di iscritti alla pagina Facebook, circa 100.000 iscritti sulla piattaforma con circa 80.000 partecipanti nei picchi (Deseriis 2024, p. 109), 12 facilitatori e un “direttorio” di 5 leader (fonte Wikipedia).
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