di M. Parretti
1- La crisi internazionale delle sinistre
Da molti anni c’è un costante declino della prospettiva progressista nella società, che riguarda, tanto la sinistra alternativa al capitalismo, quanto quella riformista. Entrambe hanno il medesimo problema, che è quello di non essere riuscite a formulare una teoria economica alternativa all’economia neoclassica marginalista e quindi di non essere in grado di proporre una politica economica alternativa al neoliberismo.
La sinistra riformista cerca di riaffermare i principi etici della solidarietà e dei diritti sociali, che si sono realizzati con lo stato sociale keynesiano, ma non è riuscita a capire perché la spesa pubblica, negli anni ’70, abbia smesso di trainare l’economia ed abbia cominciato a produrre una stagnazione, accompagnata da inflazione, la cd stagflazione, che impedì la continuazione delle politiche keynesiane e provocò l’affermazione del neoliberismo.
Pertanto la spesa pubblica è limitata dalle entrate fiscali e l’obiettivo anche solo di difendere i diritti sociali acquisiti si scontra con la mancanza di risorse e la sinistra riformista non riesce a proporre una politica economica capace di sviluppare i diritti sociali. Anche la sinistra alternativa, aldilà di una critica più radicale del capitalismo, non è riuscita a formulare una teoria economica marxiana scientifica e non è in grado di proporre una politica economica capace di realizzare gli obiettivi, idealmente posti, di difesa dei salari e delle pensioni. Eclatante esempio di questa impotenza delle sinistre, in Italia, fu il “pacchetto Treu” del 1997, votato da tutto il centrosinistra, che contribuì a rendere precario e ricattabile il lavoro e rivelò la subalternità alle tesi liberiste, secondo cui i bassi salari fanno crescere l’occupazione.
Il problema è che lo Stato sociale keynesiano (in cui una crescente spesa pubblica era riuscita ad aumentare i consumi popolari, sostenere una quasi piena occupazione e trainare tutta l’economia) ha smesso di funzionare dopo 30 anni di enorme sviluppo (a metà anni ’70) e da allora, ogni tentativo di spesa statale esogena ripropone una “stagflazione” (stagnazione con inflazione). Dall’altro versante, il socialismo reale, nonostante gli ambiziosi obiettivi sociali, è risultato una sorta di capitalismo di Stato, monopolistico e drammaticamente dittatoriale che, a parte i buoni risultati di una elevata scolarità e di un diffuso sistema sanitario, assicurativo e previdenziale, ha fallito clamorosamente, non riuscendo a soddisfare i bisogni popolari, soprattutto rispetto ai consumi (il cd consumismo) che, proprio grazie allo stato sociale, erano stati raggiunti nei paesi capitalistici più avanzati. Questo storico fallimento ha dimostrato che gli individui non hanno una tendenza naturale alla cooperazione sociale, che permetta loro di operare spontaneamente per il bene comune in ogni situazione, anche in condizioni di miseria. Gli stessi possono invece faticosamente acquisire questa capacità di cooperare soltanto in condizioni di elevata produttività tecnologica, senza la quale il tentativo di far saltare i rapporti di classe capitalistici, come aveva preconizzato Marx, sarebbe risultato uno sforzo donchisciottesco.
Entrambe le sinistre si sono trovate così nell’incapacità di comprendere il perché della crisi, tanto dello Stato sociale, quanto del socialismo reale, e di proporre una politica economica che potesse realizzare gli obiettivi sociali auspicati migliorando il tenore di vita dei lavoratori.
2- La teoria economica di Giovanni Mazzetti, tra Marx e Keynes
In questo smarrimento della sinistra, riformista o alternativa, è estremamente interessante il tentativo puntuale ed esaustivo di rivisitazione delle crisi, che è stato compiuto dall’economista Giovanni Mazzetti nei suoi principali testi: “Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario” – Editori Riuniti 1992, “L’uomo sottosopra” – Manifestolibri 1994, “Quel pane da spartire” – Bollati Boringhieri 1997, fino a “Dieci brevi lezioni di economia” – Asterios 2019, (per un elenco completo delle sue opere consultare il link https://www.redistribuireillavoro.it/), in cui ha riesaminato le teorie economiche di Marx e Keynes, riuscendo a cogliere, pur nella estrema diversità di intenti politici dei due autori, la concordanza delle loro teorie economiche nella reale evoluzione storica dello sviluppo economico dell’ultimo secolo, che ne verifica la correttezza scientifica. Come ho descritto in un mio precedente articolo (Pensiero e Umanità – Rizomatica di aprile 2023), a partire dall’analisi di Mazzetti e dalla sua sintesi “marxista keynesista”, si riesce a spiegare il teorema della crisi del capitalismo e della caduta tendenziale del saggio di profitto per potenziale sovrapproduzione con sottoconsumo dei lavoratori, comune a Marx ed a Keynes. Mazzetti rileva che gli anni ’20 del secolo scorso rappresentarono, con la grande crisi economica dei paesi più sviluppati, il momento previsto da Marx in cui la storia avrebbe suonato il “rintocco funebre” per il capitalismo, ma i comunisti non seppero allora cogliere il senso di quella crisi. Marx aveva individuato il momento in cui sarebbe arrivato il “rintocco funebre” del capitalismo, come quello in cui il “lavoro produttivo socialmente necessario” sarebbe stato così scarso, che la produttività sarebbe stata il risultato delle conoscenze tecnico scientifiche acquisite (il General Intellect) ed il lavoro avrebbe “cessato di essere la misura del valore di scambio” (K. Marx, Grundrisse, Einaudi 1976. pag 717 ). Questo nesso tra le condizioni materiali storiche di elevata produttività e la possibilità del superamento del capitalismo con l’accesso dei lavoratori al credito ed ai mezzi di produzione, era l’elemento determinante del carattere scientifico del comunismo di Marx, mentre la cesura operata da Lenin, che sosteneva la possibilità di superare i rapporti di classe anche in paesi e situazioni di estrema miseria e bassissima produttività (come fu poi tentato in Russia e in Cina ), trasformò la provocazione retorica di Marx di una dittatura “del” proletariato in una drammatica, cruenta e reale dittatura “sul” proletariato, per obbligarlo a quella cooperazione sociale per il bene comune, ideologicamente ritenuta naturale nell’antropos dal leninismo ma irrealizzabile nella miseria, come hanno dimostrato i regimi di socialismo reale.
Secondo questa lettura di Marx, dagli anni ’20 del ‘900 in poi, nei paesi più sviluppati, gli aumenti di produttività sono stati il risultato dello sviluppo del General Intellect e non più dell’aumento del “lavoro produttivo socialmente necessario”. Giovanni Mazzetti nei suoi numerosi studi ha rivelato come la “ricetta keynesiana” della spesa pubblica esogena, capace di trainare l’economia, ha rappresentato una praticabile (e storicamente praticata con successo) alternativa alla prima fase del socialismo indicato da Marx, perché permise che il reddito dei lavoratori aumentasse (direttamente e indirettamente, con i servizi gratuiti dello stato sociale) all’aumentare della produttività. Ciò rese necessario che anche il capitale aumentasse, come Marx stesso aveva previsto nella prima fase del socialismo e questo rese possibile che continuasse la sua accumulazione. Infatti, sottolinea Mazzetti, lo stato sociale keynesiano permise di raggiungere quasi totalmente gli obiettivi indicati da Marx per la prima fase del socialismo. Keynes affermava che nella seconda fase dello stato sociale sarebbe stato opportuno procedere alla riduzione dell’orario di lavoro così che i lavoratori avessero tempo libero da dedicare alla cultura e allo sviluppo dei loro bisogni in forme meno estraniate di quella privata. Anche in questo caso, rileva Mazzetti, c’è una coincidenza con la seconda fase del socialismo indicata da Marx, in cui il tempo di lavoro necessario avrebbe dovuto essere progressivamente ridotto e nel tempo libero i lavoratori avrebbero potuto accedere all’arte ed alle conoscenze tecnico scientifiche, fisico naturali e psicosociali umane, come soddisfazione di nuovi bisogni superiori. – Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero – (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, La Nuova Italia, 1970, pp. 400-411). Quando dunque lo stato sociale keynesiano ha raggiunto gli stessi obiettivi, ipotizzati di Marx per la prima fase del socialismo, cioè dopo aver soddisfatto i bisogni umani primari, legati alla sussistenza ed improcrastinabili, si è scontrato col fatto che i bisogni secondari, quelli relazionali, legati alla socialità e quindi procrastinabili, si sviluppano più lentamente degli aumenti del reddito pro capite. Quindi, mentre lo stato sociale cercava di aumentare il reddito dei lavoratori in proporzione all’aumento della produttività, questo reddito in più dei lavoratori non si traduceva totalmente in aumento dei consumi, ma i lavoratori cominciavano a risparmiare una piccola parte dell’incremento del loro reddito (cioè, nel linguaggio keynesiano, diminuivano la loro propensione marginale al consumo, al crescere del reddito pro capite). Allora la crescita della spesa pubblica in deficit riusciva sempre meno a trasformarsi in consumi, perché era trattenuta come risparmi in denaro e i consumi, non crescendo a sufficienza, non permettevano tutta l’accumulazione di capitale possibile. Lo Stato, quindi, non riusciva ad incassare tasse che coprissero il deficit iniziale (crisi fiscale dello Stato), fino a ritornare allo stallo del sistema, la stagnazione, accompagnata da inflazione: la stagflazione. Keynes aveva previsto questo fenomeno, ricorda Mazzetti, e aveva ritenuto necessaria la riduzione dell’orario di lavoro in modo da compensare la differenza tra l’aumento della produttività e del reddito e la minore crescita dei bisogni secondari e dei consumi. La riduzione dell’orario di lavoro avrebbe implicato l’aumento complementare del tempo libero, nel quale Keynes auspicava che si realizzasse lo sviluppo culturale dei lavoratori. Pertanto, la seconda fase dello stato sociale keynesiano mostra gli stessi obiettivi della seconda fase del socialismo ipotizzata da Marx, così come la prima fase dello stato sociale aveva realizzato gli obiettivi della prima fase del socialismo.
3- La natura dei bisogni secondari relazionali e l’accesso delle masse alla cultura
Dopo aver soddisfatto i bisogni primari improcrastinabili, la natura dei bisogni secondari relazionali procrastinabili, quindi la loro soddisfazione, dipendono soprattutto dalla capacità umana di “conoscere se stessi”, cioè dalla capacità di “cambiare la realtà psicosociale” (propria). Se il soggetto individuale non è capace di cambiare la propria realtà psicosociale, non è in grado di determinare attivamente, cioè di scegliere i propri bisogni ed è spinto a soddisfare i bisogni, scelti per lui da chi ha la capacità di “cambiare la realtà psicosociale”. Quindi è costretto alla “determinazione dei bisogni”, secondo le scelte del capitale, il quale può comprare e capitalizzare la conoscenza tecnico scientifica e manipolare la psiche umana. Questa manipolazione della psiche crea l’industria dell’Intrattenimento (cinema, TV, radio, giornali, riviste, social networks, piattaforme, giochi) che, spesso gratuitamente, intrattiene le persone in cambio dell’essere esposti ad una manipolazione della propria psiche, con la pubblicità, diretta e occulta. Tale manipolazione avviene facilmente perché chi agisce (il capitale) utilizza le conoscenze tecnico scientifiche della realtà psicosociale umana, mentre chi è manipolato per lo più non riesce neanche a percepire di esserlo, in quanto il senso comune non ha ancora metabolizzato il concetto freudiano di “inconscio” e i “rapporti tra emozioni e comportamenti”. L’asimmetria conoscitiva tra chi è “soggetto attivo” della conoscenza della realtà psicosociale umana e chi è “oggetto passivo” è ciò che costituisce il cd “capitale cognitivo”, che forse sarebbe meglio chiamare “cognitivo relazionale”, in quanto la parte quantitativamente più rilevante di questo capitale “immateriale” non è costituito da brevetti e diritti d’autore, ma da quote di mercato o da gestione di lobby che condizionano le scelte dei bisogni sociali emergenti, le leggi degli Stati o l’acquisto di prodotti finanziari derivati. La progressiva sostituzione di capitale produttivo (utile a produrre la soddisfazione dei bisogni) con capitale improduttivo, permette di continuare l’accumulazione di capitale, anche a parità di consumi. Ciò significa che l’aumento di produttività e l’esuberanza produttiva è appropriata dal capitale per mantenere la sua egemonia ma è sprecata come valore d’uso, che serve solo a mantenere la sudditanza delle classi subalterne.
Ora chiamando, schematicamente:
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“Animalità” l’apparato sensibile, motorio e pulsionale dell’Homo Sapiens (simile a quello sensibile, motorio e istintivo degli altri animali), geneticamente determinato,
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“Umanità” il pensiero dell’Homo Sapiens, trasmesso intergenerazionalmente,
osserviamo che la prima (Animalità) è identica da circa 200.000 anni, quando l’Homo Sapiens è apparso sulla Terra, mentre la seconda (Umanità) è in continua evoluzione e tende a soppiantare i comportamenti “naturali”, quelli cioè “geneticamente acquisiti” (Animalità).
Schematicamente dunque:
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l’animalità rappresenta la tendenza alla soddisfazione dei bisogni determinati dalla sopravvivenza e dalla riproduzione, cioè primari e improcrastinabili, mentre
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l’umanità rappresenta la tendenza alla soddisfazione dei bisogni determinati dall’integrazione ad una società, alla quale l’individuo sente di appartenere e nella quale ha imparato a relazionarsi, cioè secondari, relazionali e procrastinabili.
È bene notare che i bisogni primari stessi evolvono, fino a trasformarsi in secondari.
Ad es., mangiare è un bisogno primario, determinato dalla necessità di cibarsi per sopravvivere, ma mangiare una radice raccolta o un pezzo di carne cacciata è ben differente dal mangiare un “menù di degustazione” di uno chef, fatto di tante piccole portate, per provare il massimo numero di pietanze che l’organismo è capace di digerire, ciascuna accompagnata da un vino specifico. Nel primo caso, i sensi sono al servizio della sopravvivenza.
Nel secondo caso, sono al servizio dell’edonismo, mediante il godimento di un’opera d’arte gastronomica, che vuole esprimere e comunicare emozioni, che esprimono l’appartenenza ad un gruppo sociale e ad un insieme di valori, come un dipinto, una statua o una sinfonia. Del tutto incidentalmente il “menù degustazione” serve anche a cibarsi e a sopravvivere, ma questa funzione è ormai secondaria e irrilevante, cioè “quel” mangiare è diventato un bisogno secondario.
Per questo i bisogni secondari sono procrastinabili (cioè perdono la caratteristica di urgenza) e la loro soddisfazione è determinata all’interno di un sistema di valori comportamentali sociali e, soprattutto, non è immediatamente “socialmente necessaria”. Insomma, i bisogni secondari non sono soddisfacibili solo da “consumi”, cioè da “merci”, prodotte dal lavoro e vendute ai “consumatori” in cambio di denaro.
4- dalla fine della proprietà privata dei mezzi di produzione a quella del General Intellect
Dalla ricostruzione storica di Giovanni Mazzetti emergono alcune considerazioni fondamentali.
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La prima fase dello stato sociale keynesiano ha potuto sostituire la prima fase del socialismo marxiano, mantenendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma raggiungendo comunque gli stessi obiettivi della prima fase del socialismo.
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Siamo da circa un secolo nelle condizioni in cui, secondo Marx, sono le conoscenze tecnico scientifiche (il General Intellect) che determinano il progressivo aumento della produttività.
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Marx aveva ritenuto necessario il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione, perché era convinto che la borghesia non avrebbe mai accettato che il salario fosse contrattato collettivamente.
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Solo la contrattazione collettiva del salario avrebbe potuto permettere ai lavoratori di superare la condizione di merce eccedente (presenza di un “esercito industriale di riserva”) sul mercato, svalutata al prezzo di costo (il salario di sussistenza), e quindi ottenere salari crescenti al crescere della produttività, fino a permettere di soddisfare i loro bisogni primari.
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Queste considerazioni avevano condotto Marx alla conclusione che, nel momento in cui si fosse arrivati al punto in cui il lavoro “avesse cessato di essere la misura del valore di scambio e fosse crollata la produzione basata sul valore di scambio”, sarebbe stato necessario superare la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Quando lo stato sociale keynesiano ha dimostrato che, seppure obtorto collo, la borghesia ha potuto digerire la fine del laissez faire fino ad accettare e regolamentare la contrattazione collettiva del salario, nella seconda fase, dove si tratta di ottenere che i lavoratori diminuiscano l’orario di lavoro e nel tempo libero si approprino del General Intellect, l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione potrebbe risultare inutile, in quanto la contrattazione collettiva e le leggi dello stato potrebbero comunque ottenere la riduzione dell’orario di lavoro. Viceversa sembra necessario che la classe lavoratrice abbia accesso al General Intellect, cioè alle conoscenze tecnico scientifiche, all’arte ed alla cultura critica, anziché ai mezzi di produzione, quanto meno per colmare l’asimmetria conoscitiva tra consumatore e capitale e difendersi dal condizionamento psichico da parte del capitale. Ma ciò non può essere realizzato senza il superamento del rapporto privato col mondo.
5- il neoliberismo e la capitalizzazione delle conoscenze e delle relazioni
Questa considerazione diventa fondamentale in quanto Mazzetti rileva come ormai la possibilità di produrre e realizzare (vendere) le merci non dipenda più soltanto dal possesso dei mezzi di produzione, ma da investimenti in “immobilizzi immateriali” improduttivi, che servono alle imprese per contendersi le quote di mercato, seppure a parità di prodotto, ed il cui ammontare è ormai estremamente più elevato del capitale produttivo, cioè dei mezzi di produzione. Questo capitale immateriale improduttivo, come è empiricamente riscontrabile comparando i prezzi al produttore ed i prezzi al dettaglio, ha un valore, che si può calcolare grosso modo da 4 a 10 volte maggiore di quello produttivo (mezzi di produzione) e serve a manipolare i consumatori e gli altri acquirenti (marketing, pubblicità, lobby, relazioni pubbliche, fondazioni culturali, regalie, sponsorizzazioni), trasformando le merci in “psicoprodotti”. Questo si evince dall’osservazione empirica che, ad es., un prodotto alimentare viene venduto al consumatore ad un prezzo da 4 a 6 volte maggiore (come denunciano tutti gli agricoltori europei) e un capo d’abbigliamento ad un prezzo da 8 a 10 volte maggiore del prezzo pagato all’impresa produttrice.
Insomma, il neoliberismo, che ha preso il sopravvento con la crisi dello stato sociale ed il fallimento del socialismo reale, non è semplicemente la riproposizione del vecchio liberismo ottocentesco. Quello era fondato sul capitale produttivo (più in generale sul capitale strettamente necessario), quindi impossibile da accumulare, se non in proporzione all’aumento dei consumi e pertanto in crisi, a partire da un certo livello di produttività in poi. Il neoliberismo invece, pur proponendosi ideologicamente in continuità col vecchio liberismo, in realtà sembra aver imparato la lezione marxista e keynesiana della grande crisi degli anni ’20 del ‘900 e dello stato sociale, considerando che quando i consumi dei lavoratori aumentano meno della produttività, la quota maggiore, disponibile per i nuovi investimenti, se non può essere investita produttivamente da un’impresa perché non necessaria, può essere investita per sottrarre ai concorrenti quote di mercato, seppure a parità di consumi finali. Questo obbliga le imprese concorrenti a reagire con investimenti analoghi per difendere la loro quota di mercato e il risultato complessivo è che, a parità di consumi finali, possono aumentare gli investimenti improduttivi, che diventano necessari, anziché a “produrre”, a “vendere”, cioè a difendere o sviluppare la propria quota di mercato. Questo capitale improduttivo può crescere della stessa percentuale, della quale diminuisce quello produttivo (i mezzi di produzione), all’aumentare della produttività tecnologica.
Purtroppo, negli anni ’70, tanto la sinistra keynesiana, quanto quella marxista, non avevano rilevato che la stagflazione era espressione di “esuberanza produttiva” e che ormai faceva emergere bisogni umani secondari, relazionali, procrastinabili. Questi potevano diventare bisogni culturali “superiori”, cioè relazionali, derivati dalla necessità di sentirsi parte di una società umana, come arte e scienza, o continuare a perseguire solo la scarica pulsionale della libido e dell’aggressività. La società umana quindi può “decidere” (se è in grado di produrre un nuovo pensiero, coerente con la nuova situazione di elevata produttività) se anche la soddisfazione dei bisogni secondari relazionali debbano essere prodotti ed alienati, mediante “merci”, con uno scambio secondo un rapporto di equivalenza, basato sulla sociale necessità, oppure assumere la forma di bisogni sociali soddisfatti nell’atto stesso con cui contribuisce a soddisfare il bisogno altrui. Ad es., in una “piacevole” conversazione tra amici, ciascuno, soddisfacendo con la propria partecipazione alla riunione, il proprio bisogno di socialità, soddisfa o contribuisce a soddisfare il bisogno di socialità anche degli altri partecipanti. Analogamente, la pulsione sessuale può costituire un bisogno, soddisfatto in cambio di denaro, come è sempre avvenuto nel corso dei secoli con la prostituzione, ma, laddove sia accompagnata da una relazione umana, un partner, soddisfacendo il proprio bisogno, soddisfa anche quello dell’altro e l’esercizio della sessualità può essere foriero di un più elevato livello di soddisfazione libidica, soprattutto se la coppia riesce a superare la mera attività di copulazione (in cui ciascuno usa il corpo dell’altro per avere piacere), per “fare l’amore” (usare il proprio corpo per dare piacere all’altro e ricavarne un “superiore” piacere psicologico). D’altro canto, per quanto riguarda i bisogni non relazionali, soddisfacibili solo mediante il lavoro degli altri, Marx rilevò che svolgere una “certa quantità minima di lavoro” può non essere “attività alienata” e diventare essa stessa un bisogno, essenziale per sentirsi parte attiva della società, quindi il “primo bisogno della vita” (K.Marx – Critica al Programma di Gotha).
6- Perché conviene a ciascuno “dare secondo le proprie capacità”
Infine la “esuberanza produttiva” è attualmente arrivata alla condizione, in cui la società ha raggiunto una capacità di cambiare la realtà fisico naturale, che permetterebbe potenzialmente di produrre la soddisfazione di tutti i bisogni primari con una quantità di “lavoro produttivo socialmente necessario” inferiore a quello che diventa esso stesso il “primo bisogno della vita”. È allora possibile che la società produca un “pensiero”, una “Umanità”, capace di “eliminare totalmente” la residua “Animalità”, cioè l’uso della violenza e della costrizione economica nelle relazioni sociali, sia tra gli individui, che tra i popoli. Infatti tale “esuberanza produttiva” ha reso totalmente inutile l’accaparramento stesso di risorse, che è la motivazione e la residua utilità dell’uso della sopraffazione nelle relazioni sociali. Se la tendenza umana all’accaparramento di risorse diventa qualcosa, che non ha più senso, perché ciascuno “desidera” lavorare più di quanto necessario come un suo bisogno personale, come afferma Marx, quella tendenza diventa patologica, cioè da affidare allo psichiatra, come afferma Keynes, e può diventare senso comune che sia patologico l’uso della violenza nelle relazioni sociali.
Abituato dal capitalismo e dalla preesistente condizione di miseria a identificare la proprietà privata di risorse scarse con la forma della propria realizzazione sociale, il senso comune fa fatica a metabolizzare che è nell’interesse di tutti e di ciascuno una prassi, in cui i bisogni secondari “superiori”, pienamente “umani”, siano soddisfatti con la libera partecipazione attiva all’esercizio della cultura, anziché nella forma di “merce”.
Il processo di emancipazione femminile fornisce un chiaro esempio di cosa questo significa. La libertà economica della donna deriva direttamente dall’uso dell’energia artificiale, per cui la produttività dipende sempre meno dalla forza fisica e rende la donna ugualmente produttiva. La libertà sessuale deriva dall’uso degli anticoncezionali, che permettono l’attività sessuale, senza la procreazione. L’inseminazione artificiale permette anche la procreazione senza l’attività sessuale. Questo comporta, progressivamente e faticosamente, l’affermazione di un pensiero, per cui la donna è libera di esercitare, senza limiti esterni e senza doverlo nascondere, la sua libertà sessuale e l’uomo deve accettare la necessità di reprimere la sua tendenza, geneticamente determinata, a procreare mediante l’appropriazione diretta della donna, quindi della sua sessualità e della sua capacità di procreare. È del tutto evidente che questo comporti una morale (e relativi aspetti giurisprudenziali), che implicano l’eliminazione della violenza nelle relazioni sociali. È significativo che il senso comune sembra aver “naturalizzato” questo pensiero e pare perfino sorprendersi dei “femminicidi”, cioè che alcuni uomini non riescano a tollerare la frustrazione delle loro pulsioni genetiche, che la libertà sessuale della donna comporta, in una società che educa invece troppo poco i giovani a tollerare la frustrazione. Eppure sembra mancare la consapevolezza che, anche più in generale, non è mai giustificabile l’uso della violenza nelle relazioni sociali. Ancora più faticosamente e lentamente diventa senso comune che questa tendenza vale anche tra i popoli, cioè che è ormai obsoleto l’uso della guerra nelle relazioni internazionali. Viceversa, la logica mercantile, ancora culturalmente egemone, mentre la società ha faticosamente metabolizzato che è ormai incivile la violenza sulla donna e sui più deboli, sembra tollerare e perfino teorizzare vecchie e nuove forme di prostituzione femminile, come la regolamentazione della prostituzione sessuale o la possibilità del cd “affitto dell’utero”.
Per concludere, dunque, il superamento del post-capitalismo, in cui la produttività è del General Intellect e non più del lavoro produttivo socialmente necessario, richiede lo sviluppo e l’affermazione di un pensiero, che superi la residua “Animalità” e sviluppi pienamente la “Umanità”, dedicando il tempo all’appropriazione del General Intellect e soddisfacendo i bisogni secondari umani con l’esercizio della cultura, anziché con il consumo di merci, che implicano la mediazione produttiva del capitale, ormai inutile e dannosa. Il presupposto del cambiamento è il riconoscimento dell’ormai reale “esuberanza produttiva”, che permette di osservare come la società umana attuale sia già “tecnicamente” in grado di “produrre la soddisfazione dei bisogni di tutta la popolazione mondiale” con una quantità di lavoro tendenzialmente minore di quanto mediamente vorrebbe svolgere un membro della società per soddisfare il proprio bisogno di sentirsi partecipe della società, cioè sia nelle oggettive condizioni, nelle quali il “comunismo” (in senso marx-engelsiano, in cui “ciascuno dà secondo le proprie capacità e riceve secondo i propri bisogni”) è possibile in quanto è oggettivamente conveniente per ciascuno. La rimozione psicologica di questa esuberanza produttiva è invece funzionale all’idea di una società di “consumatori”, che continuerebbero a poter soddisfare i bisogni solo nella forma di merce, che sarebbero limitati pertanto solo dai bassi salari, dovuti allo sfruttamento del lavoro, come nell’800, invece che dalle resistenze psicosociali a liberare dal lavoro un crescente tempo e a dedicarlo alla cultura, permettendo a tutti di godere della ricchezza, in quanto questa non è più utilizzabile come “contropartita contabile” del denaro e questo come base del risparmio.
La possibilità di un superamento del capitalismo non può che partire da queste considerazioni, soprattutto dal dato di fatto che la società umana è già oggettivamente nella condizione materiale di esuberanza produttiva. Questa abbondanza rende inutile e dannoso l’accaparramento di risorse mediante l’uso della violenza nelle relazioni sociali tra gli individui e tra i popoli e rende viceversa possibile una società in cui <ciascuno dà (liberamente) secondo la propria capacità e (questo permette che) ciascuno riceve secondo i propri bisogni>.
7- I limiti della democrazia liberale e l’appropriazione di massa della cultura
Allora non si tratta più di superare la “proprietà privata” dei mezzi di produzione, ma la proprietà privata della cultura stessa (arte, scienza e tecnica), perché, già dagli anni’20 del ‘900, la produttività non è più del lavoro, ma del General Intellect, che però è oggetto di “capitalizzazione”.
La questione è nuova e complessa perché l’appropriazione della cultura da parte delle masse popolari non può avvenire mediante una “delega democratica”, ne’ in forma collettiva, ma solo attraverso la fatica di ciascun membro della società di accedere e praticare attivamente la cultura e così superare l’alienazione. I limiti della democrazia senza appropriazione della cultura da parte delle masse popolari sono sempre più evidenti con la superficialità con cui molte persone pretendono di esprimere la loro opinione, per lo più acquisita su internet o alla TV, discutendo alla pari con professionisti dell’argomento, come nel dibattito sociale sui vaccini, dove persone senza alcuna competenza medica si sentono in diritto di poter dibattere alla pari con un epidemiologo. Per questo la diminuzione dell’orario di lavoro e l’uso del tempo libero per accedere alla cultura rappresentano attualmente la sola possibilità di arrivare ad un “agire comunitario”, anziché perpetuare la condizione di subalternità delle masse popolari.
La “plebe” umana è di fronte ad un bivio: “Otium Litteratum” o “Panem et Circenses”? Tempo libero dal lavoro salariato per accedere alla cultura o per essere intrattenuti e manipolati? Faticosa conquista della cultura o piacevole intrattenimento edonistico da parte del capitale? Comunismo o edonismo?
Sottolineo che non solo Mazzetti ha indicato in modo chiaro la prospettiva “politico economica”, che va dalla riduzione dell’orario di lavoro alla opportunità e convenienza sociale dell’agire comunitario, ma la sua analisi ha permesso di svelare dove va a finire, col neoliberismo, il plusvalore prodotto durante quel tempo di lavoro, che eccede quello che sarebbe necessario per produrre la soddisfazione dei bisogni, ma che si continua a svolgere, visto che l’orario di lavoro da 40 anni non è stato ridotto, come sarebbe stato possibile e conveniente fare, indicando quindi anche dove trovare le risorse per tale riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario.
A questo punto il quadro economico complessivo, almeno concettuale, sarebbe piuttosto chiaro e partirebbe proprio dal recupero della teoria economica di Marx e di Keynes e dalla loro comune analisi di sovrapproduzione strutturale, che permetterebbe che ciascun individuo e ciascun popolo abbia tutta la convenienza “egoistica” a dare (quindi liberamente) secondo le proprie capacità (di cambiare la realtà) e questo permetterebbe che ciascun individuo e ciascun popolo possa ricevere secondo i propri bisogni. Inoltre risulta evidente come il neoliberismo abbia permesso di sostituire la continua diminuzione del capitale produttivo necessario, in virtù del continuo aumento della produttività, con un aumento corrispondente del capitale improduttivo, inutile e dannoso ma funzionale a mantenere l’egemonia del capitale stesso sul processo di determinazione e soddisfazione dei bisogni. Questo capitale improduttivo, principalmente di manipolazione psichica del consumatore, sottrae continuamente le enormi risorse che potrebbero emancipare l’intera popolazione mondiale dai bisogni primari e le “spreca” letteralmente in pubblicità, lobbying, relazioni pubbliche, prodotti finanziari ecc., per dare vita a “psicoprodotti”.
8- La sintesi che riannoda i fili sparsi tra i progressisti
Un aspetto peculiare della sintesi di Mazzetti è che non solo fornisce al pensiero progressista una solida teoria economica, a partire da quella dei due principali economisti critici del capitalismo, Marx e Keynes, riuscendo a rivelare la loro sostanziale identità di analisi, ma fornisce anche un confronto sul piano psicosociale tra i materialismo storico di Marx e i principali contributi delle scienze psicosociali attuali, che permette di riformulare il paradigma del materialismo storico, evidenziando come il pensiero umano non sia storicamente determinato “dalle” relazioni sociali produttive, ma “in coerenza alle” relazioni sociali produttive, cioè rilevando che il pensiero (trasmesso intergenerazionalmente) e le relazioni sociali produttive (dettate dalla necessità di soddisfare i bisogni primari) sussistono e si sviluppano “in coerenza tra loro”, ma se un nuovo pensiero si afferma come risultato di nuove relazioni produttive, anche le nuove relazioni sociali produttive si affermano come risultato un nuovo pensiero. Pertanto il nesso di causalità “materialistico” tra relazioni sociali produttive e pensiero indica solo che è la sottostante “animalità”, geneticamente acquisita dall’antropos, che lo “motiva emozionalmente” a cambiare la sua “umanità”, cioè il suo pensiero, acquisito intergenerazionalmente, per soddisfare i suoi bisogni primari (legati alla sussistenza e sottoposti al principio del piacere), ma questo pensiero è principalmente inconscio ed acquisito socialmente. Questa acquisizione sociale del pensiero determina anche nuovi bisogni secondari, che possono:
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continuare a perseguire il principio del piacere (bisogni legati all’animalità), soddisfatti mediante lo scambio di merci, beni o servizi, oppure
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perseguire la socialità e l’esercizio della cultura (bisogni legati all’umanità), cioè bisogni secondari relazionali “superiori”.
Questa scelta suppone che la società, a fronte della attuale condizione umana di estrema produttività, può elaborare un pensiero che persegua bisogni relazionali culturali superiori (fondati sull’umanità), oppure restare ancorata a bisogni dettati dalle pulsioni fondamentali della libido e dell’aggressività (fondati sull’animalità), che, come suggerito da Sigmund Freud in “Aldilà del principio del piacere” e in “Il disagio della civiltà”, conducono all’istinto di morte. Questa dicotomia fornisce la risposta a quei progressisti che, considerando che i bisogni sono storicamente determinati e quindi potenzialmente infiniti, dubitano che <la propensione marginale al consumo diminuisca all’aumentare del reddito pro capite>, considerando che comunque i bisogni secondari tendenzialmente relazionali, che possono essere soddisfatti in forma reciproca (senza lo scambio di merci), emergono più lentamente dell’aumento del reddito pro capite e concorrono con il bisogno di sicurezza mediante il risparmio, in denaro o capitale.
Quei progressisti che invece hanno evidenziato la nuova tendenza del capitalismo a produrre capitale “cognitivo” o “cognitivo relazionale” possono considerare che questa appropriazione del General Intellect da parte del capitale è arbitraria e improduttiva. È arbitraria perché la conoscenza non è usata per migliorare la produttività, cioè per produrre di più e soddisfare una maggiore quantità di bisogni con meno lavoro, ma utilizzata per mantenere, a parità di prodotto, il controllo sui consumatori mediante la loro manipolazione psichica. La conoscenza privatizzata è improduttiva perché non serve a produrre tutte e ciascuna unità di merce, in quanto il progetto di una merce specifica, bene o servizio, rappresenta un costo fisso e non si può oggettivare nel valore del prodotto (se, ad es., il progetto di un frullatore è costato 300.000€, questo costo non varia al variare della quantità prodotta, cioè è indipendente da quanti frullatori saranno prodotti: che se ne producano zero, mille o un milione, il costo è sempre lo stesso, così come i costi dell’ufficio acquisti non variano con la quantità delle merci prodotte. Pertanto il capitale cognitivo relazionale non può essere considerato come mezzo di produzione (come il marxiano “capitale costante”) perché la conoscenza non si consuma con l’uso e non può cedere valore al prodotto. Come affermava Marx nei Grundrisse, la produttività non dipende più dal lavoro contenuto nelle merci, ma dall’uso del General Intellect e non dalla sua quantità, ma dalla sua qualità. È comunque chiaro che le condizioni per l’emancipazione delle masse popolari è l’appropriazione del General Intellect, cioè l’accesso alla cultura e al sapere tecnico-scientifico.
Gli altri progressisti che hanno invece intuito l’enorme spreco di risorse, operato dal capitale, che li ha spinti a teorizzare la necessità di una diminuzione dei consumi e di una “decrescita” del PIL, potranno rilevare che l’accesso delle masse all’arte e alle conoscenze tecnico scientifiche significherebbe sottrarre al capitale la capacità di manipolare la psiche dei consumatori per soddisfare i bisogni relazionali umani al di fuori dello scambio di merci e del controllo di massa della tecnologia nel tempo libero. La condizione in cui ciascuno dà liberamente secondo le proprie capacità permette l’emancipazione e la soddisfazione dei bisogni di ogni individuo ed ogni popolo, portando in prospettiva a una diminuzione degli investimenti e a una costanza dei consumi ma globalmente, per lungo tempo, l’aumento dei consumi nella maggior parte dei paesi poveri.
Infine possiamo renderci conto che esistono già le condizioni per soddisfare i bisogni di ciascuno e di ciascun popolo e si tratta allora di riconoscere che non siamo più nelle condizioni in cui la lotta di classe deve violare la legalità borghese egemone, per cercare di ottenere la contrattazione collettiva del salario e superare la condizione di merce esuberante del lavoro, ma che è tempo di attuare una nuova legalità che, hic et nunc, permetta di usare le risorse sprecate dal capitale per consentire l’accesso delle masse popolari alla cultura ed eliminare l’uso della costrizione economica nelle relazioni sociali.