di M. Carbone
Nell’intervista concessa alla rivista “Zeit-Online” dalla sociologa Maja Göpel, [1] si sostiene che nuove forme di aggregazione possono essere possibili. La pandemia potrebbe spingerci a nuovi modelli basati sulla solidarietà e su nuovi modelli economici. Pur non condividendo del tutto l’approccio armonizzante, malgrado la sua critica alla società capitalistica, si ritiene che valga la pena confrontarsi con nuove forme di partecipazione civica alla politica anche se potrebbero non sempre risultare veramente democratiche e attuate dalla base. La sociologa parte da tre profonde questioni, che già nel periodo precedente la pandemia erano sorte nel mezzo della società tedesca, chiedendosi se siamo in grado di confrontarci con esse seriamente e, in caso negativo, cosa potrebbe accadere. Le questioni riguardano aspetti innanzitutto economici “Avremo abbastanza per noi?” “Abbiamo abbastanza da suddividere?” e “Chi siamo in verità questo “noi”?”. La prima questione sembra essere in contraddizione con quanto afferma di solito la sociologa, voce critica nei confronti dell’economia di mercato, di quelle dinamiche che portano a desiderare di avere sempre di più ed a riceverlo pure, dove “il troppo” diventa il problema. Invece, con la domanda del necessario, la questione viene rovesciata. Per la sociologa il problema della quantità deve essere posto a livello globale: sul nostro pianeta, la questione del “troppo” in una parte di esso diventa il problema del “poco” altrove. Secondo lei, grazie anche al movimento Fridays-For-Future, la prospettiva è stata capovolta: dal rifiuto di riconoscere i limiti del pianeta si è passati a preoccuparsi della reale esistenza di questi limiti. Per meglio esplicare il suo pensiero porta ad esempio gli scaffali vuoti di merce che si sono visti nei supermercati durante il primo lockdown in Germania, che ha trasformato in realtà l’esperienza dei limiti. E qui, secondo lei, si fa largo la seconda questione, cioè se abbiamo abbastanza da suddividere, rendendo la problematica più inquietante. Se prima il problema era relativo ad una giusta suddivisione dei proventi della crescita, ora il problema diventa l’equità nell’accesso a componenti sociali relativamente stabili, come l’assistenza sanitaria o anche ai fondi Salva Stati, diventati oggetto di controversie tra chi li ritiene fatti a sostegno di vecchie strutture e chi invece li reputa già un segnale di cambiamento delle strutture, cambiamento sempre rinviato per ristrettezze finanziarie. In questo contesto diventa per lei preoccupante il fatto che la discussione non si svolge più su un piano oggettivo. Coloro che, nel sistema attuale, sono stati in grado di posizionarsi affermando i propri interessi, non hanno intenzione di retrocedere e quindi vogliono continuare a difenderli. Sono questioni di identità sociale: su quanto si è raggiunto, e se n’è fieri, sullo stato sociale a cui ci si è abituati.Per la sociologa la pandemia ha portato alla luce tutti gli aspetti dell’ineguaglianza nell’istruzione, nella sicurezza dei posti di lavoro, nelle retribuzioni differenti in molti settori, i vantaggi e gli svantaggi della localizzazione geografica, la distribuizione dei patrimoni, la separazione del mercato finanziario dall’economia reale, aspetti che molte misure hanno addirittura accentuato. Così mentre gli occhi di tutti sono puntati sul virus, va avanti la potente macchina redistributiva, tanto che, una volta passata la pandemia, la questione del quanto noi avremo da suddividere diventerà più virulenta. E naturalmente si pone la domanda del “chi siamo questo noi”.Pensando alla Germania, la sociologa evidenzia due posizioni. Da una parte ci sono coloro che ritengono che i problemi vadano affrontati globalmente, tenendo conto di tutta l’umanità. Dall’altra parte ci sono coloro che pensano che la responsabilità si debba limitare al livello locale o nazionale. Secondo la sociologa esiste un’enorme difficoltà ad intavolare una discussione aperta senza essere incasellati in una di queste due posizioni, perché solo una discussione aperta potrebbe far nascere quel “noi” che potrebbe fornire la base per un rinnovato orientamento del bene comune in una società. Secondo lei il nuovo organismo del Bürgerrat (Consiglio dei cittadini), [2] i cui membri sono estratti a sorte, potrebbe già essere una nuova forma di partecipazione civica. Infatti questo organismo si pronuncerà sul tema previsto dal Bundestag (dal Parlamento) “Il ruolo della Germania nel mondo”, dopo aver ascoltato degli esperti, formulando anche delle raccomandazioni finali. Secondo lei potrebbe essere un forum che permetta di affrontare la questione dell’identità senza scadere nel populismo, senza discriminare o chiudersi in blocchi, bensì chiarendo la questione del ruolo politico e culturale nel mondo in modo tale da mettere in primo piano i legami e le condivisioni. Il dubbio che sia proprio ora il momento peggiore, più buio per pensare in modo positivo, per ottimizzare il clima sociale viene confutato dalla sociologa, portando ad esempio il regno del Buthan che ha inserito nella misurazione del prodotto nazionale lordo anche lo stato di benessere (anche psico-fisico), di felicità dei propri cittadini. Come fa rilevare, la felicità in quel Paese non viene intesa come un permanente stato di buonumore, bensì come un senso di certezza, fiducia, un atteggiamento che rende le persone resistenti, resilienti. Non si tratta di una vita priva di dolori o di necessità, una vita felice è un modo di incontrare il mondo, di sentirsi con esso collegato tanto da essere preparati ad affrontare le cose che accadono. La vitalità culturale fa parte di quella certezza, come pure, in primis, la riflessione su se stessi: chi siamo noi, che cosa ci unisce, chi vogliamo essere, in che modo possiamo dare il nostro contributo alla società. Anche la versione aristotelica della vita felice, l’Etica Eudemia, si avvicina a quel concetto di felicità, dove la virtù e la gratitudine sono elementi essenziali. Queste prospettive sistemiche hanno in comune il fatto che la singola persona è sempre inserita in un contesto sociale, culturale, istituzionale. Per vivere questo inserimento, questa vitalità abbiamo bisogno di luoghi di incontro personale, sociale e politico e questo soprattutto in periodo di profondi cambiamenti, che provocano incertezza. Riferisce l’esempio di “community fora” del Sudafrica, sorti come eventi collettivi in Sudafrica per gestire in modo cooperativo il trapasso dall’apartheid, nei quali si ritrovavano persone che avevano un solo elemento in comune, la convinzione che la controparte voleva solo il loro male. Anche la sociologa è alla ricerca di luoghi e forme simili di aggregazione, dove sia possibile tematizzare le cause profonde della paura, del rifiuto, dove si possa discutere e scambiarsi informazioni attendibili su come procedere, luoghi in cui il bene comune sia il punto d’incontro. Le trasformazioni sono sempre periodi di alta valenza politica e a causa della pandemia e dei suoi effetti sentiremo sempre più la necessità di fissare il focus sul destino comune. Con le misure antipandemiche i luoghi d’incontro sono diventati soprattutto virtuali, ma, a differenza della primavera, durante il primo lockdown, la digitalizzazione non viene più percepita come un hype. Le persone cominciano ad avvertirla come un sipario, che rende possibile percepire le esperienze solo in modo mediato, riducendone l’immediatezza e la risonanza. Il legame che si avverte ne viene indebolito. Oggi noi esseri umani siamo in grado di capire quanto sia importante per sentirsi sicuri avere accanto un altro essere umano bendisposto nei suoi confronti. Per questo “il corona” offre anche una chance, perché mentre siamom alla ricerca di ciò che è importante nella crisi, ci riscopriamo come esseri biologici e sociali, un ottimo collante se non lo si ritiene una debolezza. Per questo ha delle aspettative precise nei confronti del prossimo governo tedesco, vale a dire un nuovo contratto sociale da negoziare con la società, come in parte accadde dopo la seconda guerra mondiale, quando non fu tralasciata la ripartizione degli oneri, che fu la pietra miliare per dare inizio all’economia sociale di mercato o semplicemente un segno di solidarietà. Ma quale tipo di solidarietà di chi e per chi sarebbe ora necessaria? La sociologa si interroga sulla assenza nei media, soprattutto televisivi, delle persone che stanno operando in stato di emergenza negli ospedali, nelle case per anziani, nella scuola, mentre economisti e sindacati lamentano solo le basse retribuzioni del personale sanitario, come se la loro situazione lavorativa in emergenza non sia degna di nota, ed inoltre se nella nostra società abbia un valore aggiunto solo chi contribuisce alla bilancia delle partite correnti con grandi cifre, mentre i lavoratori del sistema sanitario operano in modo estenuante ed in condizioni estreme e muoiono pure. La risposta è che nella nostra società produttività e valore aggiunto si concepiscono solo in senso monetario. Così si rischia di tralasciare aspetti del progresso di civilizzazione come la buona istruzione, la cura, la cultura. Se si chiede agli studenti universitari il motivo della scelta degli studi, la risposta più frequente tra economisti e giuristi è la possibilità di guadagno, e questo tra coloro che in futuro stabiliranno le regole della società. Questo conflitto di interessi si ritrova nel dibattito sull’assicurazione sanitaria, sul perché ancora oggi la società deve finanziare un’ assicurazione sanitaria privata a pubblici funzionari, a burocrati che svolgono attività lavorative prive di problemi, confortevoli. Il dibattito sul valore aggiunto, sull’apprezzamento e sulla equità sociale è appena agli inizi in un mondo che sta cambiando rapidamente. Ed allora, alla domanda se avremo noi abbastanza, per la sociologa sembra che la migliore e più onesta risposta siano le parole di Antonio Gramsci: il pessimismo dell’intelletto e l’ottimismo della volontà, perché gli uomini hanno fatto cose incredibili, se lo volevano, quindi secondo lei non si può escludere niente. E nel pessimismo dell’intelletto ripone la sua fiducia, la certezza di cui ha parlato in precedenza nel suo ambito personale, nelle sue reti. Saper mostrare disponibilità, gentilezza, cordialità, amore e generosità rende felici in questo senso. E secondo lei, forse sta proprio in questo la chiave di lettura delle questioni poste all’inizio, per rispondere in modo positivo, anche perché è una chiave che ognuno di noi ha dentro di sé.
Il testo dell’intervista, svolta a Maja Göpel da Elisabeth von Thadden, è stato pubblicato su “Zeitonline” il 19 dicembre 2020.
Note
[1] Maja Göpel, Sociologa, direttrice scientifica di The New Institute di Amburgo, una fabbrica di pensiero. È autrice del best- seller “Unsere Welt neu denken” (2020)[2] Il Bürgerrat: in Germania un consiglio di persone scelte a sorte con il compito di avvicinare i cittadini alla politica e coaudiuvarla nelledecisioni. L’idea proviene dalla società civile che aveva fondato l’associazione “Mehr Demokratie” (Più democrazia) nel 2019 per arginare la diffusione dell’antipolitica. Il Bürgerrat è diventato poi un progetto pilota che ha trovato in Wolfgang Schäuble un acceso sostenitore, tanto da associarlo come organismo di consultazione per il Parlamento. A gennaio 2021 ha comincato la sua attività.