di M. Sgobio
Bauman sembra attribuire la “liquefazione” della società a un cambiamento nella mentalità dei capitalisti, mentre, nella sua analisi, la classe sociale di coloro che per vivere vendono la propria forza lavoro sembra sciogliersi. Però, se si cambia il punto di osservazione, si possono scorgere le radici materiali del cambio di mentalità che descrive. Da questa visuale, le gocce, i singoli individui, assumo nuovamente l’aspetto di un fiume: un corso d’acqua che potrebbe modellare la società in forme del tutto nuove.
Negli ultimi quarant’anni diverse teorie hanno cercato di descrivere la società contemporanea e i fenomeni che l’hanno modellata, dando vita a interpretazioni che, anche se accolte in modo critico, lasciano la consapevolezza di un mutamento, a volte radicale, rispetto al recente passato.
Un nuovo inizio
Nell’esperienza della società attuale, scrive Krishan Kumar, vi è qualcosa “che insistentemente suscita non solo «il presentimento di una fine» ma anche quello di nuovi inizi”i.
Siamo nel 1995, e l’autore traccia una rassegna critica di quelle che chiama “le nuove teorie del mondo contemporaneo”. Teorie accomunate, anche quando divergono, dal prefisso post, che antepongono, di volta in volta, ad aggettivi come industriale, fordista o moderna, riferiti alla società che descrivono.
Tutte le tesi illustrate indicano un mutamento strutturale, un “funzionamento” della società diverso rispetto al passato, ma, allo stesso tempo, a tutte non riesce una descrizione in positivo del mondo contemporaneo, basata su elementi che lo caratterizzano.
Tutte descrivono una società “indefinita”, venuta dopo un’altra che, al contrario, era perfettamente definibile.
Kumar si sofferma soprattutto sulla teoria della post-modernità, che considera “la più ampia e stimolante”, in grado di sovrapporsi alle altre, spesso includendole, seppur in modo criticoii.
Secondo questa teoria, tutti gli ambiti della società sono “caratterizzati da un continuo mutamento più o meno casuale e privo di direzione.”iii
Venti anni dopo, nel maggio del 2015, Umberto Eco, presentando ai lettori de “L’espresso”iv le idee del sociologo di origini polacche Zygmunt Baumanv, torna a parlare di post-modernismo e, riferendosi a questa corrente di pensiero, scrive: “serviva a segnalare un avvenimento in corso d’opera, ha rappresentato una sorta di traghetto dalla modernità a un presente ancora senza nome.”
Il post-modernismo, dice Eco (considerandolo più una movimento culturale che una teoria in grado di spiegare la società), “segnava la crisi delle «grandi narrazioni» che ritenevano di poter sovrapporre al mondo un modello di ordine.” Descriveva però, una fase di carattere temporaneo: “ci siamo passati attraverso senza neppure accorgercene, e sarà un giorno studiato come il pre-romanticismo.”vi Non era che un preludio, l’ouverture alla “modernità liquida” descritta da Bauman.
Modernità liquida
“La notizia della dipartita della modernità, – scrive Bauman – o finanche le voci di un suo canto del cigno, sono grossolane esagerazioni”. La società del XXI secolo non è meno moderna di quella del XX, ma è “moderna in modo diverso”vii.
La nostra epoca, come la modernità sin dalle sue origini, è attraversata da “l’incontenibile e inestinguibile sete di distruzione creativa”, finalizzata a “una futura maggiore capacità di fare meglio la medesima cosa: accrescere la produttività o la competitività”viii.
Due elementi però, secondo Bauman, rendono la nostra forma di modernità “nuova e diversa”: il crollo della convinzione che il mutamento storico abbia un fine, sia teso alla costruzione di una società giusta e la “deregolamentazione e privatizzazione dei compiti e dei doveri propri della modernizzazione”, cioè l’idea che
il miglioramento, o qualsiasi ulteriore modernizzazione dello status quo, non siano più attribuibili alla funzione legislativa, ma rimessi “al coraggio e alla determinazione dei singoli”, lasciati “alla gestione dei singoli individui e a risorse amministrate individualmente.”ix
Individui, non cittadini!
In una modernità animata da simili convinzioni, il concetto di cittadinanza sembra disintegrarsi, lasciando il posto a una società di individui, scettici nei confronti di concetti come “causa comune”, “bene comune”, “buona società” o “società giusta”x.
“Rappresentare i propri membri come individui – osserva Bauman – è il marchio di fabbrica della società moderna”, ma, a differenza che nell’epoca protomoderna, quando allo “sdradicamento” degli stati sociali, ai quali si era destinati sin dalla nascita, corrispose una “reincorporazione” in classi sociali, nelle quali gli individui si “autoidentificavano”, nella società attuale gli individui sono semplicemente dei singoli, per i quali non esiste alcuna prospettiva di “riaccasamento” in aggregati sociali più ampixi.
La liquefazione delle classi sociali
Nella prima modernità, scrive Bauman, “chi aveva meno risorse, e dunque minore possibilità di scelta, dovette compensare le proprie debolezze individuali con «il potere dei numeri», serrando i ranghi e impegnandosi in un’azione collettiva”: le privazioni dei singoli individui si cumularono, cristallizzandosi in “interessi comuni” che potevano essere affermati solo collettivamente. Se ai datori di lavoro apparve ovvio il perseguimento individuale dei propri obiettivi di vita, per gli strati socialmente meno abbienti l’azione collettiva, o di classe, fu una scelta altrettanto naturalexii.
Oggi invece, secondo Bauman, i guai più comuni degli individui non sono cumulabili, “non sono «aggregabili» in una «causa comune»”, sono “conformati sin dall’inizio in modo tale da non disporre delle interfacce necessarie a connettersi con le altrui sofferenze”, “possono essere posti gli uni accanto agli altri, ma non si fonderanno”xiii: “ciò che più di ogni altra cosa si impara dall’altrui compagnia è che l’unico servizio che essa può rendere è un consiglio su come sopravvivere nella propria irrimediabile solitudine, e che la vita di ognuno è irta di rischi che vanno affrontati e combattuti da soli”xiv.
Con la crisi del concetto di comunità, secondo Eco, “emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi.”xv
Per l’individuo, privo di punti di riferimento, conta solo apparire a tutti costi, e consumare.
Ciao, ciao stato nazione
Anche lo stato nazione, schiacciato tra la crisi del concetto di cittadinanza e la forza dei poteri, soprattutto economici, sovranazionali, è in crisi, e con esso, scrive Eco,
“scompare un’entità che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo, e con la sua crisi ecco che si sono profilate la crisi delle ideologie, e dunque dei partiti, e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni.”xvi
Tutto sembra essersi dissolto.
In un mondo privo di certezze e punti di riferimento, Eco si chiede: “C’è un modo per sopravvivere alla liquidità?”xvii
Sopravvivere alla liquidità
Un modo ci sarebbe, dice, “ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti.”xviii
In tanta liquidità però, forte è la sensazione di annegare.
Risulta difficile non solo immaginare quali nuovi strumenti bisognerebbe inventare per interpretare una siffatta realtà, ma anche capire quali, tra i vecchi, potrebbero essere modificati per studiare
un mondo che, anche secondo la descrizione di Bauman, è caratterizzato da “un continuo mutamento più o meno casuale e privo di direzione”, proprio come sostenevano i “traghettatori” post-modernisti.
Certo, i liquidi permettono la navigazione, ma, anche per navigare, dei punti di riferimento sono necessari, e proprio questi sembrano essere scomparsi nella descrizione della società elaborata da Bauman.
Eppure, se vogliamo comprendere la società contemporanea, dei punti di riferimento vanno individuati, e forse, prima di scoprire nuovi strumenti, potrebbe essere utile cercare nuove visuali, nuovi punti di osservazione, per provare a capire le ragioni della liquefazione.
Per farlo però, dobbiamo sgomberare il campo dalla casualità tanto cara ai postmodernisti, accompagnare cortesemente, ma risolutamente, alla porta il fantasma di Popperxix che aleggia sulla discussione, e, una volta fatto, ricordare con un sorriso beffardo al filosofo austriaco che no, il signor Robinson non è stato ucciso perché era un fumatorexx.
Cambio di mentalità: il capitalismo disorganizzato
Approfondendo il pensiero di Bauman, ci si rende conto che egli non attribuisce a fattori casuali il passaggio dalla “modernità solida” a quella “liquida”. L’origine, dice, può rintracciarsi in ambito economico, ed è imputabile soprattutto a un cambio di mentalità da parte dei capitalisti, che sarebbero passati da una “mentalità a lungo termine” a una “mentalità a breve termine”xxi.
“L’odierna organizzazione aziendale – scrive – ha in sé un elemento di disorganizzazione”xxii e, a differenza che in passato, “i passeggeri dell’aereo «capitalismo leggero» […] scoprono con orrore che la cabina di pilotaggio è vuota e che non c’è verso di estrarre dalla misteriosa scatola nera con l’etichetta «pilota automatico» alcuna informazione su dove si stia andando, dove atterreranno, chi sceglierà l’aeroporto e se esistano regole che consentano loro di contribuire a un atterraggio sicuro.”xxiii
Tornano in Bauman elementi tipici della concezione post-moderna: il “capitalismo disorganizzato”xxiv, la casualità che caratterizzerebbe i nostri tempi, l’impossibilità di un’azione collettiva.
Ma davvero tutto è attribuibile a un cambio di mentalità? Davvero in una società complessa come quella contemporanea l’organizzazione aziendale può contenere elementi di disorganizzazione? Davvero la cabina di pilotaggio è vuota?
Forse è rispondendo a queste domande che si può capire meglio, e forse superare, la “società liquida”; senza preoccuparsi degli strumenti: utilizzando di volta in volta, in base ai problemi che si affronteranno, quelli che, tra i tradizionali, si ritengono più appropriati e, se non ce ne sono, sforzandosi di crearne di nuovi.
Non si tratta di mettere in discussione la descrizione della società elaborata da Bauman, ma di osservare i fenomeni da una visuale diversa, di cambiare strumento, e di passare dalla fotografia al filmato, in modo da poter comprendere in che momento, e seguendo quale strada, gli elementi immortalati siano giunti nella posizione in cui sono stati “fermati” dal ritratto.
Bauman, per esempio, “fotografa” un cambio di mentalità dei capitalisti.
Potremmo però chiederci: vi sono ragioni materiali che lo giustificano? O è avvenuto per puro caso, influenzato solo dai vezzi di una classe incline a cambiare?
Alle radici del cambio di mentalità
Proviamo a riavvolgere il nastro, cercando di individuare, e isolare, alcune delle linee di forza che convergono verso il medesimo fenomeno: il cambio di mentalità.
La prima percezione di un mutamento, il momento in cui cominciano a essere elaborate teorie che descrivono la contemporaneità come profondamente diversa rispetto al recente passato, si ha a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorsoxxv. In quel periodo, le radici del cambiamento vengono individuate nell’importanza che vanno assumendo i servizi a scapito dell’industria, mentre, dalla fine degli anni Settanta, l’accento viene posto soprattutto sulla nuova organizzazione della produzione, alla quale le imprese lentamente si conformano, e sulle nuove tecnologie, legate principalmente all’informazionexxvi.
È in quegli anni che l’organizzazione aziendale comincia a contenere quegli elementi che, agli occhi di Bauman e di altri autorixxvii, appaiono di “disorganizzazione”.
Come avverrà in Bauman, anche nelle teoriexxviii elaborate in questa fase si nota la tendenza a “fotografare” il presente, a non darne una lettura dinamica: vi sono nuove tecnologie e vengono introdotte, così, all’improvviso, sconvolgendo il mondo.
Se però ci soffermiamo sulla storia di quelle tecnologie, scopriamo, per esempio, che il codice a barre fu brevettato nel 1952, l’invenzione del laser, che permette di leggerlo in maniera veloce, e nonostante difetti di stampa, è del 1960, lo stesso periodo in cui i computer, necessari per immagazzinare ed elaborare i dati raccolti, cominciarono ad assumere le dimensioni e la potenza attuali.
Tuttavia, il codice a barre venne introdotto nei supermercati solo a partire dal 1974xxix, e ci vollero molti anni affinché rivoluzionasse il modo di concepire e
organizzare la distribuzione, per poi divenire un vero e proprio simbolo della mercificazione e del capitalismo, tanto da ispirare anche delle opere d’arte.
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso invece, Taiichi Ohno, un ingegnere giapponese che lavorava per la Toyota Motors, “ossessionato” dai pericoli derivanti dalle crisi da sovrapproduzione e determinato a individuare un metodo per scongiurarlexxx, elabora un nuovo modello produttivo che, adottato dalla Toyota nel corso degli anni Sessanta, comincia ad affermarsi lentamente a livello globale solo nella seconda metà del decennio successivo.
Nessuno dei cambiamenti che le “nuove teorie” descrivono fu immediato. Le nuove tecnologie e il nuovo modello produttivo vennero introdotti lentamente e, forse, indagare le ragioni che portarono alla loro introduzione, può essere utile per comprendere meglio le caratteristiche della società contemporanea, può avvicinarci alle ragioni profonde che indussero il cambio di mentalità descritto da Bauman. Una mentalità che, probabilmente, è più facile comprendere proprio apprendendo i principi alla base di quel modello produttivo.
I decenni di crisi
Cambiare il modello produttivo è un passaggio epocale per un’impresa. Non lo si fa per rispondere a problemi che riguardano il breve-medio termine; l’investimento è tale che solo considerazioni che riguardano il lungo periodo possono giustificare.
“Prima della crisi petrolifera – scrive Ohno – quando illustravo la tecnologia industriale e il sistema di produzione Toyota, incontravo scarso interesse. Con la fine del periodo di espansione economica è però apparso chiaro che il tradizionale modello di produzione di massa americano – che fino ad allora aveva funzionato bene e a lungo – non sembrava più adeguato e proficuo per il sistema industriale.”xxxi
Con la crisi petrolifera del 1973, accanto a elementi congiunturali, vennero alla luce dei mutamenti strutturali, imputabili, tra l’altro, al rallentamento della crescita economica: “nel periodo di forte crescita precedente alla crisi petrolifera – dice Ohno – un normale ciclo economico consisteva in 2 o 3 anni di espansione, intervallati – nel peggiore dei casi – da sei mesi di recessione. A volte il periodo di espansione superava anche i tre anni.
Il rallentamento della crescita aveva però rovesciato i termini del ciclo. Da allora il tasso di crescita annuale del 6-10 per cento dura al massimo dai 6 mesi a un anno ed è seguito da 2 o 3 anni di crescita minima o nulla, se non di vera e propria recessione”xxxii.
Riferendosi allo stesso periodo, Eric Hobsbawm scrive: “La storia dei vent’anni dopo il 1973 è quella di un mondo che ha perso i suoi punti di riferimento e che è scivolato nell’instabilità e nella crisi”xxxiii, una fase in cui “la maggior parte dei politici, degli economisti e degli imprenditori non hanno saputo riconoscere dentro la congiuntura economica i cambiamenti permanenti”xxxiv.
Parole che sembrano fare eco a quelle di Bauman, che aprono la strada a una lettura della società contemporanea come priva di punti di riferimento e caratterizzata da un “capitalismo disorganizzato”, ma che vengono smentite da quanto sostiene Ohno in una fonte che Hobsbawm trascuraxxxv: gli imprenditori non ignoravano affatto che molti dei cambiamenti che andavano delineandosi fossero permanenti, fu proprio il considerare alcuni fenomeni come strutturali che li spinse a riorganizzare le aziende, ad adeguarle alla nuova fase.
Forse, per comprendere meglio questo passaggio, prima di descrivere gli obiettivi del modello produttivo ideato da Ohno, la sua diffusione e il suo contributo alla “liquefazione” della società, può essere utile soffermarsi su alcuni dati economici che caratterizzano gli anni ai quali stiamo facendo riferimento, dati che evidenziano la portata dei cambiamenti in atto.
Mercati saturi, profitti in calo… e lotta di classe
La decisione dei paesi arabi di sospendere le forniture di petrolio ai paesi occidentali, avvenuta negli ultimi mesi del 1973 come ritorsione per l’appoggio dato a Israele durante la guerra dello Yom Kippur, spesso è ritenuta la miccia che innescò la crisi economica degli anni Settanta. Tuttavia, la scelta degli stati membri dell’Opec, non comportò che un’estremizzazione di dinamiche già in atto, non fece che “aggravare” una situazione le cui origini possono essere rintracciate altrove.
Se, per esempio, si volge lo sguardo verso l’economia statunitense, ci si rende conto che la dinamica dei prezzi è instradata verso un loro aumento generalizzato già prima del 1973, e la scelta dei paesi arabi non fa che alimentare la tendenza inflattiva, ma non ne è la causaxxxvi.
Intorno alla fine degli anni Sessanta tutti i paesi a “capitalismo avanzato” sono caratterizzati da una contrazione dei profitti realixxxvii, mentre la disoccupazionexxxviii è ai minimi storici. Non vi sono più masse crescenti di individui che entrano nel mondo del lavoro con un conseguente aumento dei consumi: chi poteva permettersi per esempio un automobile, già la ha, e lo stesso vale per gli elettrodomestici e tutti gli altri beni di consumo di massa che hanno trainato la crescita negli anni precedenti.
I mercati sono saturi, i consumixxxix tendono a stabilizzarsi, la crescitaxl rallenta e i margini di profitto si indeboliscono.
Sull’indebolimento dei profitti incide anche una forte conflittualità operaiaxli, grazie alla quale le maestranze conquistano sempre maggiori salari e una serie di garanzie che contribuiscono a far aumentare la pressione fiscale sulle imprese.
È innanzitutto per contrastare il calo dei profitti che le imprese tendono ad agire sui prezzi, ma ciò, da un lato, è reso inutile da meccanismi automatici che permettono ai salari di adeguarsi all’inflazione, come la scala mobile in Italia, o da nuove rivendicazioni salariali; dall’altro, accentua il rallentamento dei consumi, che tendono a contrarsi ulteriormente in mercati già saturi. L’aumento del costo delle materie prime, in particolare del petrolio, “estremizza” questo processo, evidenziando agli occhi degli imprenditori dinamiche strutturali già in atto da qualche anno.
In un contesto in cui lo stabilizzarsi dei consumi e il rallentamento della crescita sono considerati strutturali, un modello produttivo indirizzato alla crescita continua, finalizzato a produrre quantità sempre crescenti di beni, perde di senso, per essere sostituito da uno, come quello ideato da Ohno, in grado di adeguare costantemente
l’offerta alla domanda, di ridurre gli sprechi e il numero dei lavoratori necessari, in modo da contribuire nella maniera più efficace alla massimizzazione dei profitti.
Le stesse considerazioni che portano a riorganizzare la produzione, sono anche alla base di una nuova organizzazione della distribuzione che, grazie all’introduzione del codice a barre e dei computer, diviene in grado di intercettare, e di adeguarsi, immediatamente alle tendenze di consumo, di trasmettere in tempo reale alle imprese i dati relativi alla richiesta di determinati beni, permettendo loro di ottimizzare la produzione, di produrre solo quanto e ciò che viene richiesto.
Probabilmente è in queste dinamiche che affonda le radici il cambiamento di mentalità rilevato da Bauman: una mentalità imprenditoriale volta al breve termine è resa necessaria da una prospettiva dalla quale non si scorge più una crescita illimitata della produzione e dei profitti. Da un contesto in cui diviene necessario strappare quote di mercato alla concorrenza, adeguare costantemente – nel breve termine – la produzione alla domanda, conquistare nuovi mercati, intercettare sul momento le minime variazioni delle tendenze di consumo e crearne di nuove.
Le origini della flessibilità
Adeguare quasi in tempo reale l’offerta alla domanda, in un’ottica di minimizzazione dei costi, porta poi le imprese a richiedere una maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro, in modo da poter adattare costantemente il numero dei lavoratori all’effettivo livello della produzione e ridurre quelli che vengono considerati sprechi: per un’azienda è uno “spreco” pagare un lavoratore in un momento in cui non ha bisogno della sua manodopera.
Ecco l’origine materiale di un’altra caratteristica della “società liquida” che Bauman imputa esclusivamente a un “cambio di mentalità”: la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro.
Il modello produttivo ideato da Ohno inoltre, inverte e scompone la vecchia catena di montaggio: ora si produce in isole, dove lo stesso lavoratore può ricoprire più mansioni e, addirittura, interrompere il ciclo produttivo se reputa che siano intercorsi elementi che possano mettere in discussione la qualità del prodotto. Anche le macchine sanno riconoscere i pezzi difettosi, e in questo caso sono in grado di interrompere il loro lavoro.
Globalizzazione
A differenza della vecchia catena di montaggio, le isole produttive possono essere dislocate in luoghi diversi, distanti anche migliaia di chilometri dalle strutture in cui il prodotto finale viene assemblato: quella che oggi è comunemente chiamata globalizzazione economica, è possibile soprattutto grazie al nuovo modello produttivo che dalla Toyota si è esteso alla maggior parte delle imprese del globo.
È grazie a esso che le aziende poterono decentrare, come scrive Valerio Castronovo, “una quota consistente di attività produttive e di investimenti diretti dai paesi più avanzati, caratterizzati tanto da una maggiore rigidità del mercato del lavoro quanto da una più accentuata dinamica salariale, verso alcune aree periferiche a più basso costo del lavoro, dove era possibile inoltre utilizzare in modo assai più duttile e prolungato, per
l’assenza di vincoli sindacali, sia le prestazioni della manodopera che le potenzialità degli impianti, e far conto talora su particolari esenzioni in materia fiscale”. Aree dove “si andavano delineando, per via di una notevole massa di domanda ancora insoddisfatta, rilevanti prospettive di allargamento del mercato” che rendono ancora più conveniente impiantare la produzione in questi territorixlii.
Se da un lato assistiamo a una internazionalizzazione dei mercati, alla crescita vertiginosa degli investimenti diretti esterixliii, e a una sempre maggiore concentrazione delle imprese su scala globalexliv, dall’altro assistiamo a una riduzione dei tassi di occupazione nei paesi a “capitalismo avanzato”, dove si verifica una rottura dei meccanismi di solidarietà tra i lavoratori, una solidarietà che aveva caratterizzato le loro lotte nella fase precedente.
La liquefazione del proletariato
Secondo Mario Tronti, l’organizzazione sociale e produttiva capitalistica muta soprattutto per reagire alle lotte messe in campo dai lavoratorixlv. Questa però, potrebbe essere considerata soltanto una delle ragioni che spinsero gli industriali al cambiamento. Un cambiamento dal quale emerge sia che la conflittualità operaia influenza e modifica l’organizzazione delle produzione, sia che la soggettività dei lavoratori viene modellata dalle trasformazioni economiche e tecnologiche. Un’eventualità, quest’ultima, che Tronti nega.
Le pulsioni individualistiche descritte da Bauman per esempio, potrebbero essere ricondotte alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, che portarono alla concorrenza tra lavoratori in un contesto in cui la piena occupazione non era più un obiettivo perseguito dai governi. Un ambiente nel quale, al lavoratore, privo di punti di riferimento, pare che i propri interessi coincidano con quelli dell’azienda per cui lavora, per la quale, animato dal fine di conservare il proprio posto di lavoro, è disposto a fare dei sacrifici, ad accettare condizioni di lavoro che in passato avevano condotto a lotte anche aspre.
In queste condizioni, quella che una volta appariva una classe compatta, tende a sciogliersi, mentre, molti degli individui che si sentivano parte di essa, perdono ogni aspirazione al cambiamento dei rapporti sociali, cominciano a considerarlo irrealizzabile, spesso addirittura non desiderabile, vista l’immagine negativa che i paesi del “socialismo reale” assumono nell’immaginario collettivo.
Siamo in anni in cui la propaganda descrive i paesi del blocco sovietico come “l’impero del male” e porta gli individui a credere che il “socialismo reale” sia l’unico realizzabile; in cui le forze politiche occidentali che si ispirano al socialismo e al comunismo sono incapaci di adeguare le proprie politiche alla nuova fasexlvi e vivono come una colpa la loro stessa adesione al marxismo.
Una nuova ideologia
Così, mentre un’ideale decade, si afferma una “nuova” ideologia, che, se in Karl Popperxlvii trova le idee per destrutturare e demonizzare l’analisi marxista, in Milton Friedmanxlviii e in Friedrich von Hayekxlix trova quelle per strutturare la società in base a principi che fanno coincidere l’interesse generale con quello delle singole imprese private, e con la massimizzazione dei loro profitti.
Un’ideologia improntata all’individualismo e alla concezione che ciascuno sia artefice del proprio destino, a prescindere dalla propria condizione sociale e dal funzionamento complessivo della societàl.
“Lo zelo ideologico dei vecchi campioni dell’individualismo – scrive Hobsbawm – era ora rafforzato dall’apparente impotenza e dal fallimento delle politiche economiche convenzionali, specialmente dopo il 1973.
La giuria del premio nobel per l’economia, di recente istituzione, appoggiò dal 1974 in poi la tendenza neoliberista, conferendo nel 1974 il riconoscimento a Friederich von Hayek e due anni dopo a un altro esponente del liberismo puro, Milton Friedman”li.
Negli anni successivi, caratterizzati da un elevato livello del debito pubblico e da un’inflazione crescente che contribuiva a farlo lievitarelii, le politiche economiche si modellarono sui principi neoliberisti, venendo improntate, tra le altre cose, a una riduzione dell’intervento pubblico in economia e a continui tagli alla spesa sociale. Nello stesso periodo crebbero le diseguaglianzeliii, i salari realiliv subirono una contrazione, soprattutto se si prendono in considerazione gli Stati uniti, dove, attualmente, sono più bassi rispetto ai primi anni Settanta del secolo scorso, mentre la quota dei profitti sul Pillv raggiunse i massimi storici.
Bauman, che indirizza la propria analisi alla dimostrazione della scomparsa delle ideologie, non cita nessuno degli autori che fanno riferimento al neoliberismo, neanche quando descrive il diffondersi di una mentalità individualista.
Sembra quasi che l’ideologia che ha permeato la società che descrive sia invisibile ai suoi occhilvi.
Probabilmente è la mancata connessione tra i fenomeni descritti, le loro origini materiali e l’ideologia che ne è derivata, che portano Bauman e vedere disorganizzazione dove invece potrebbe vedersi la forma più organizzata e razionale di una struttura tesa a massimizzare i profitti privati, come è l’organizzazione tipica del capitalismo contemporaneo.
Allo stesso modo, quella che appare una liquefazione strutturale, come nel caso delle classi sociali, potrebbe essere invece espressione di mutamento, del passaggio da uno stato solido a un altro, caratterizzato da forme diverse.
Forse, per renderci conto di come sia mutata la classe sociale di coloro che hanno come principale, spesso unica, fonte di reddito la vendita del proprio lavoro, può essere utile analizzare le immagini che la descrivono.
Foto di classe
Tra il finire dell’Ottocento e i primi del Novecento, Pellizza da Volpedo dipinge quello che per anni sarà uno dei simboli in cui il movimento operaio si identifica, “Il quarto stato”.
Lavoratori, caratterizzati da una povertà estrema (la donna in primo piano è indicativamente scalza), marciano in massa, compatti, lenti e sicuri, a indicare l’avanzata inesorabile del proletariato.
Spostandoci nella seconda metà del Novecento, notiamo invece che la fotografia ha in parte sostituito la pittura nel rappresentare i lavoratori, ma anche se i loro volti sono più reali, frutto di scatti e non del pennello di un artista, non smettono di apparire come una massa omogenea, anche se profondamente diversa da quella che ha rappresentato Pellizza da Volpedo.
Ettore Masina, su “il Giorno” del 13 luglio del 1962, descrive così gli operai torinesi insorti in piazza Statuto: “Hanno tutti camicie nere con risvolti rossi e casacche a vivaci colori, i capelli alla Marlon Brando, un’espressione trasognata”.
Quelli che gli operaisti italiani definiscono “operai massa”lvii, nella descrizione che ne fa Masina, sembrano individui caratterizzati dai consumi, dalle mode e dai consumi culturali propri del capitalismo della loro epoca; fattori che anni dopo porteranno Pierre Bourdieulviii a considerare il gusto come un elemento chiave per interpretare la composizione delle classi sociali.
L’operaio massa resterà sulla scena per tutti gli anni Settanta, animando una delle stagioni più vivaci della storia italiana e mondiale, per scomparire poi nel decennio successivo, quando non si registreranno lotte significative.
Giungiamo così negli anni Novanta del Novecento, quando, sulle pareti di un centro sociale bolognese, il Livello 57, compare una rielaborazione del “Quarto stato”: i braccianti e gli operai dipinti da Pellizza da Volpedo, pur restando la massa compatta descritta dall’autore, assumono la forma di mutanti, quasi a sottolineare un mutamento in corso.
Qualche anno dopo, sempre sulle pareti di un centro sociale, l’Ex Snia di Roma, compare un’altra interpretazione del “Quarto stato”.
I tratti degli individui rappresentati non sono più ben definiti, sembrano liquefarsi, mentre, degli elementi che appaiono simili a quelli utilizzati nel video mapping per decostruire un’immagine e ricostruirla in forme diverse, coprono parte del dipinto: il mutamento è ancora in corso, anche nei primi anni del XXI secolo, il periodo a cui risale il graffito.
Nel 2013 infine, il mutamento sembra essere terminato, e le forme sono molto diverse rispetto al passato, anche se altrettanto ben definite.
Le pareti che ospitano il dipintolix sono ancora una volta quelle di un centro sociale, l’XM24 di Bologna, quasi a indicare che sono quelli i luoghi in cui la coscienza di classe ha maggiormente attraversato il tempo e si è tramandata.
Pellizza da Volpedo invece, ha smesso di ispirare chi vuole rappresentare la classe sociale che un tempo era nota come proletariato.
Nel graffito, dipinto da Blu, è raffigurato uno scontro, le parti che si affrontano sono ben visibili: da un lato, protetti dalle mura e dalla polizia, i potenti della città, dall’altro gli esclusi dal benessere e dai profitti. In alto a destra, un flusso di gente che esce dalle mura e si unisce ai ribelli che le assediano.
A prima vista anche i ribelli rappresentati in questo graffito sembrano una massa, ma, a ben guardare, non sono simili uno all’altro come i braccianti del “Quarto stato” o gli operai massa delle fotografie della seconda metà del Novecento.
Nella moltitudine che lotta unita, sono ben visibili vari gruppi, ognuno con caratteristiche che lo distingue dagli altri. Quello che sembra accomunarli è la lotta contro un nemico comune.
Sono diversi gli stili degli individui, varie le rivendicazioni rappresentate, ma proprio la varietà delle rivendicazioni sembra costituire un obiettivo comune: quello di rivoluzionare l’organizzazione sociale, di instaurare una nuova società che tenga conto di tutte le rivendicazioni che animano quella moltitudine.
Guardando il dipinto sembra quasi che le parole di Benjamin siano state trasposte in immagini:
“Il proletariato fornito di coscienza di classe costituisce una massa compatta solo se visto dall’esterno, nell’immagine che ne hanno i suoi oppressori. Nel momento in cui esso intraprende la propria lotta di liberazione, in realtà la sua massa apparentemente compatta si è già sciolta. Smette di essere in balìa delle mere reazioni; passa all’azione. Lo scioglimento della massa proletaria è opera della solidarietà. Nella solidarietà della lotta di classe proletaria è abolita l’inerte contrapposizione a-dialettica fra individuo e massa; per i compagni, essa non esiste. Perciò, per quanto la massa sia decisiva per il capo rivoluzionario, la sua opera maggiore non è quella di trascinare le masse verso di sé, ma di farsi continuamente includere nelle masse, in modo da essere continuamente per esse uno fra le centinaia di migliaia.”lx
Il termine proletariato però, soprattutto se preso nel suo significato etimologico, forse è poco utile per descrivere la moltitudine dipinta da Blu.
Proletari?
Etimologicamente, il termine utilizzato da Marx per definire la classe di coloro che per sopravvivere vendono il proprio lavoro, descrive coloro che non hanno altra ricchezza se non quella rappresentata (e prodotta) dai propri figli (all’epoca si cominciava a lavorare molto giovani): una famiglia più figli (soprattutto maschi) aveva, su più risorse economiche poteva contare. Ma oggi, i figli sono più che altro un costo, soprattutto nei paesi “occidentali”.
Anche i redditi familiari non sono più integrati come all’epoca di Marx, quando era il capo famiglia a gestire il salario di tutti, mentre i figli tendevano a vivere nella casa paterna anche dopo il matrimonio.
Le lotte operaie da un lato, la tendenza del capitale a individualizzare i consumi e i comportamenti dall’altro, hanno reso questa categoria inutilizzabile.
Quella che va manifestandosi a livello globale è una nuova soggettività, sorta dai mutamenti interni all’organizzazione produttiva e sociale capitalistica, avvenuti anche per reagire alle lotte condotte dall’operaio massa.
Questa nuova soggettività oltrepassa la classe operaia, non comprende solo lei. La condizione che la caratterizza riguarda anche molte altre figure, come quella di chi, invece che per la propria manodopera, riceve un salario perché vende il proprio lavoro intellettuale. Sembra quasi che la proletarizzazione crescente descritta da Marx si sia verificata in un momento in cui non si può più parlare di proletariato (la percentuale di coloro che vivono grazie al proprio salario tende a crescere, rispetto al totale dei lavoratori, in tutti i paesi a “capitalismo avanzato”lxi, mentre, anche tra i lavoratori autonomi, sono ormai in atto dinamiche tipiche del lavoro salariatolxii).
Questione di classe
Il minimo comune denominatore, il fattore che rende simili tutti gli individui che vivono grazie al frutto del proprio lavoro, a prescindere dai gusti e dai consumi, sembra essere la precarietà, che non è riferita solo a contratti a termine e poco garantiti, ma alle condizioni che caratterizzano l’esistenza stessa di questi individui.
È su questa base che possono formarsi le moltitudini conflittuali eterogenee come quella rappresentata nel graffito di Blu, una base che Bourdieulxiii probabilmente trascurava, e che continuano a trascurare anche i sociologi inglesi autori della “Great british class survey”lxiv, una vasta inchiesta sociale a conclusione della quale, seguendo le linee guida tracciate da Bourdieulxv, gli intervistati sono stati suddivisi in sette classi sociali, tenendo conto dei capitali che posseggono (culturale, sociale ed economico), dei loro gusti e dei loro consumi.
Forse la visione di Bourdieu è stata influenzata da un mutamento che, negli anni in cui scrive, è ancora in corso, oltre che dall’affermarsi dell’ideologia neoliberista anche tra i lavoratori.
Egli scrive in un momento in cui i lavoratori tendono a identificarsi con il “ceto medio”, un’identificazione permessa anche da livelli di reddito e da una capacità di indebitamento presenti all’epoca, ma che non sono costanti.
Probabilmente però, la differenziazione dei consumi, ha portato individui appartenenti alla stessa classe sociale ad avere gusti diversi, a rendere impossibile una rappresentazione collettiva come nel dipinto di Pellizza da Volpedo o simile alla descrizione che Masina faceva degli insorti di piazza Statuto. Ma i criteri che portano gli individui a identificarsi con una classe sociale, forse, sono ancora soprattutto economici, e solo in un secondo momento, in determinate condizioni economiche e politiche, questa identificazione assume anche dei connotati legati alla mentalità, la quale, comunque, ha radici materiali.
Se prendiamo in considerazione i sondaggi condotti a ridosso della crisi, ci rendiamo conto che la percezione che gli individui hanno rispetto alla propria appartenenza sociale è strettamente legata al reddito e alla capacità di spesa, più che a ogni altro fattore. Così, in Italia per esempio, capita che nel 2006 ben il 53,7%lxvi della popolazione si senta di appartenere al ceto medio, ma, appena due anni più tardi, nel 2008, poco dopo il manifestarsi della crisi economica, questa percentuale scenda al 48,8%lxvii, per attestarsi poi, nel 2015, al 42%lxviii.
La crisi economica che si è aperta nell’estate del 2007, oltre a mettere in evidenza i fattori economici alla base della divisione in classi della società, ha messo in discussione i principi dell’ideologia neoliberista e il modello di società che propone. Un fallimento sottolineato anche da chi su quell’ideologia aveva fatto affidamento per prendere decisioni rilevanti, decisioni che avrebbero condotto alla crisi. Come l’ex presidente della Federal reserve Alan Greenspan che, ascoltato dalla Commissione per la vigilanza e le riforme istituzionali della Camera dei rappresentanti degli Stati uniti il 23 ottobre del 2008, nell’ambito di un’inchiesta parlamentare tesa ad accertare le responsabilità dei regolatori federali nel determinarsi della crisi economica, dichiarò di essere scioccato per aver riscontrato un errore nell’ideologia alla quale faceva riferimento.lxix
Ritorno a Marx
In questo contesto è possibile squarciare i veti ideologici, recuperare criticamente alcuni strumenti propri dell’analisi marxiana e valutare se, mediante il loro utilizzo, si può descrivere in maniera più accurata la società contemporanea.
Lo scenario dipinto da Blu, ispirato dalla serie di romanzi di ambientazione fantasy/medievale “Il signore degli anelli”lxx, proprio grazie al riferimento al medioevo che lo caratterizza, mette in luce una caratteristica della società contemporanea: come nella società feudale tutta l’organizzazione sociale era indirizzata al soddisfacimento dei bisogni di pochi signori, così oggi è indirizzata alla massimizzazione dei profitti di pochi privati.
La crisi economica ha messo sotto i riflettori i rapporti sociali esistenti, che parrebbero essere entrati in contraddizione con le forze produttive: in un momento in cui le nuove tecnologie e la razionalizzazione della produzione permettono di garantire a ciascun individuo un livello di benessere e un soddisfacimento dei bisogni che non avrebbe precedenti, questo obiettivo non viene perseguito per garantire privilegi a una classe che rappresenta una minima parte della popolazione mondiale.
Inoltre, in uno scenario caratterizzato dalla globalizzazione economica, in cui va delineandosi una “classe globale degli svantaggiati” come la definisce Saskia Sassenlxxi, si comprendono meglio gli accenni che Marx fa allo sviluppo universale delle forze produttive e alle relazioni universali fra gli uominilxxii. Mentre, alla luce del modello produttivo attuale (basato sulla flessibilità), della razionalizzazione della produzione che lo caratterizza e della concentrazione delle imprese a livello globale, risulta maggiormente comprensibile uno dei rari accenni alla società comunista fatti da Marx: “nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.”lxxiii
Un’ottica quest’ultima, nella quale anche la flessibilità che caratterizza la “società liquida” assume una luce diversa, soprattutto se la poniamo in relazione con la rivendicazione del reddito di cittadinanza che caratterizza i movimenti sociali contemporanei.
Da una prospettiva marxiana, si ha la sensazione che il capitalismo sia entrato nella sua fase matura, che abbia perso la spinta propulsiva rivoluzionaria e innovatrice che lo ha caratterizzato per circa due secoli, per divenire liquido ma stagnante. Che in esso contenga gli strumenti che potrebbero permettere un suo superamento in positivo, ma che, al contempo, sia animato da forti spinte reazionarie, nel senso più deleterio del termine.
Spinte incarnate da una sfiducia generalizzata nel progresso, che spesso assumono connotazioni antiscientifiche, come per esempio avviene nel caso dei movimenti che si oppongono alle vaccinazioni. A volte sembra quasi che la sfiducia nel capitalismo, in un momento in cui le alternative a esso appaiono poco chiare, assuma le forme di una sfiducia nella scienza che ha animato il suo sviluppo, in un contesto in cui, per la prima volta dopo secoli, la qualità complessiva dell’istruzione cala e i paesi a “capitalismo avanzato” sono caratterizzati da un diffuso analfabetismo funzionalelxxiv.
C’è però spazio per nuove analisi, e probabilmente l’eterno scontro tra chi pensa che debba essere il più forte a trarre vantaggi a scapito dei più deboli, e chi invece è convinto che tutti abbiano diritto a un’esistenza degna, è entrato in una nuova fase.
Note e Bibliografia
https://rizomatica.noblogs.org/2020/02/note_a_questione_di_classe/