Internet mon amour. Raccontare le storie prima del crollo di ieri

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di A. Trocchi – CIRCE

Raccontare le storie prima del crollo di ieri

Il futuro è stato ieri, quando eravamo inseparabili da computer e smartphone, nel bene e nel male. Anche quando avremmo preferito farne a meno, perché sapevamo che potevano rivelarsi i nostri peggiori nemici. Gli scandali sulla sorveglianza globale di Internet erano solo la punta di un iceberg, le manipolazioni di massa erano solo l’inizio: eravamo tutti vulnerabili! Curiosità fuori luogo, truffe, furti d’identità e di dati, pornovendette, odiatori…

«Oh, quanta negatività!», esclamavano i tecnoentusiasti. «Le nuove tecnologie ci danno la possibilità di non dover scegliere. Non è fantastico?»…

Ehm… insomma… cercate forse delle vie d’uscita?

Questione di karma

C’era gran confusione sotto il cielo e sotto il tetto del Centro Yoga Mulabanda. Il Maestro Yogananda si sarebbe rivoltato nella tomba se avesse potuto vedere quello che stava accadendo tra i discepoli dei suoi discepoli, o forse, avendo ormai raggiunto il Samadhi, non si sarebbe preoccupato affatto ma sarebbe esploso in una fragorosa risata dal respiro universale contemplando tutte queste piccole creature affannarsi inutilmente.

Il presidente del Centro, un anziano bodhissatva di origini pugliesi, aveva un diavolo per capello: il gruppo Facebook «Yoga Mulabanda», 2.300 iscritti, era precipitato in un vortice di polemiche e insulti personali. «Maestro guardi!» Incalzava un giovane yogi mostrando al presidente gli ultimi commenti sotto un post relativo al seminario della settimana precedente. I commentatori selvaggi mettevano in discussione l’integrità morale degli insegnanti del Centro, insultavano il fondatore e chi interveniva per placare le acque veniva insultato a sua volta, scivolando poi nel bad karma di sequenze di botta-e-risposta, sempre più violente e aggressive. Molti tra gli ultimi arrivati si cancellarono dal gruppo Facebook e non rinnovarono la loro retta al Centro.
L’atmosfera che si era creata non era certo la più adatta a una pratica focalizzata sulla non-violenza e sulla crescita interiore della persona. Il gruppo Facebook era diventato uno specchio distorto, una pessima vetrina per un Centro che si riproponeva come mission «l’evoluzione personale e la risoluzione dei conflitti interiori». E i conflitti esteriori? Gli odiatori, a loro dire, avevano delle buone ragioni per lamentarsi. Criticavano un’amministrazione non trasparente delle risorse comuni: «Bisognerebbe utilizzare i fondi per promuovere la nostra associazione con i mezzi messi a disposizione dalle nuove tecnologie!», si lamentavano i tecnoentusiasti. «Il consiglio direttivo è composto da vecchi!», buttava lì uno; «Da ladri!», rilanciava qualcun altro. E se i moderatori del gruppo nascondevano qualche commento un po’ troppo «violento», si gridava subito alla censura.

Intanto l’emorragia di iscritti continuava… chi si era avvicinato al Centro Yoga Mulabanda per cercare pace nella meditazione se ne allontanava irritato dall’alto livello di rumore e confusione digitale. La stessa reputazione degli allievi diretti di Mulanda era messa in discussione. L’anziano direttore del Centro Yoga Mulabanda malediceva il giorno in cui si era lasciato convincere ad aprire un gruppo Facebook. D’altronde secondo i suoi giovani allievi era necessario per promuovere le attività del Centro; e ora invece, guarda un po’, la presenza sul social network sembrava portare in tutt’altra direzione, rovinando la reputazione del Centro e dei suoi membri. «Non avremmo mai dovuto immischiarci in queste cose mondane,» rifletteva il presidente parlando con il suo segretario davanti ad una tazza di tè verde. «Maestro, forse si tratta semplicemente di usare tecnologie appropriate», azzardò il segretario.

Capire

Il Centro Yoga Mulabanda si trovava in un vicolo cieco: aveva affidato i propri strumenti di comunicazione e di promozione a una piattaforma che ora risultava molto meno affidabile e maneggevole di quanto ci si aspettasse. Anzi, addirittura dannosa.

Il problema era sempre lo stesso, essere su un social network sembrava un must, obbligatorio insomma, per una piccola realtà che voleva comunicare le sue attività. Ormai le pagine Facebook avevano sostituito il sito web. Erano più facili da creare e da gestire di un sito e davano l’impressione di raggiungere facilmente molta più gente di quanta ne raggiungesse un blog. Eppure il Centro perdeva iscritti…

Dove siamo?

Innanzitutto è importante ricordare sempre che quando scriviamo su un social network come Facebook, Twitter o sui gruppi WhatsApp, è come se stessimo parlando in piazza o come se aprissimo la finestra e urlassimo di fronte a tutti.

Non solo quando commentiamo in un gruppo pubblico o su una pagina Facebook chiunque ci può leggere, ma anche quando scriviamo in una chat privata con crittografia end-to-end attiva, stiamo comunque mettendo in piazza le nostre preferenze, i nostri contatti, i nostri spostamenti. Per esempio, i metadati non sono crittografati. Infatti ai fini della profilazione, e dunque del marketing e del profitto di chi gestisce le piattaforme di comunicazione, non è tanto importante conoscere i contenuti delle nostre conversazioni digitali (i dati), quanto tutte le informazioni accessorie che accompagnano un’interazione (i metadati): chi parla a chi? Da dove? Con che frequenza? Quali sono gli interessi in comune ai due interlocutori? E così via.

Se il contenuto delle nostre conversazioni e le nostre esternazioni sono dunque relativamente di scarso interesse per la piattaforma, è invece di grande interesse per Facebook, Instagram, WhatsApp e via dicendo, aumentare il più possibile le nostre interazioni, sia con gli altri utenti che con i dispositivi elettronici e informatici. Più tempo passo sul social network, più sarà possibile realizzare una profilazione dettagliata dei comportamenti miei e dei gruppi sociali a cui afferisco.

Sebbene molte persone possano ritenere poco importante il fatto che soggetti terzi traggano profitto dalle nostre interazioni online, dovrebbe essere importante invece sapere che le piattaforme stesse vengono progettate e costruite per viziare i nostri comportamenti/discussioni legandoci a doppio filo ai nostri dispositivi digitali. Tutto questo affinché si passi sempre più tempo sul social network. Veniamo spronati a interagire continuamente attraverso quello che in psicologia comportamentale si definisce condizionamento operante.

Condizionamento operante OVVERO l’addestramento di massa

Il condizionamento operante è una procedura generale di modifica del comportamento di un organismo: in estrema sintesi, un comportamento, se rinforzato positivamente, si ripresenta con una maggiore frequenza; determinati stimoli aumentano la probabilità di emissione di una certa risposta. Gli esperimenti con il condizionamento operante risalgono agli anni Cinquanta, alle sperimentazioni di Burrhus F. Skinner e alla sua Skinner Box: se un piccione cavia tenuto all’interno della scatola scopriva che il pigiare un tasto portava, in modo occasionale, all’erogazione del cibo (rinforzo), allora ripeteva il gesto più e più volte.

Il condizionamento operante condiziona la volontà del soggetto cambiando il modo in cui opera le sue scelte. Il condizionamento operante funziona non solo sulle cavie animali ma anche sugli esseri umani. Ovviamente nel momento in cui il premio è il cibo o comunque qualcosa legato a bisogni fisiologici fondamentali (sonno, sesso), prima o poi smetterà di funzionare poiché il soggetto sarà sazio. Invece, i «rinforzi positivi secondari», come il denaro o l’approvazione sociale, posso venir somministrati senza fine poiché non sono legati a bisogni biologi.

Proprio sulla dinamica del «rinforzo positivo» si basa la meccanica delle piattaforme social che mutuano il loro funzionamento dai videogiochi e dalle slot machine. Si tratta di gamification (gamificazione o ludicizzazione): la piattaforma social è un gioco senza fine, da cui non si esce mai e dove non si vince mai.

Gli sviluppatori che hanno progettato l’interfaccia di Facebook hanno disegnato la spunta della notifiche in rosso e la hanno posizionata in alto a destra, associata a un suono che richiama la nostra attenzione. Ogni dettaglio dell’interfaccia è stato pensato per non farci uscire dal gioco. Ogni nostro gesto su Facebook (e su altri social network e piattaforme) viene costantemente quantificato: «Hai 3 like, hai 20 like, 10 persone hanno condiviso il tuo post, a 20 persone piace il tuo commento.». Questi sono tutti rinforzi positivi che ci spronano a interagire sempre di più e sempre più rapidamente pur di riceverne ancora. Se riusciamo a distrarci una notifica ci richiama all’attenzione. Dobbiamo sempre essere pronti, dobbiamo sempre avere qualcosa da dire.

Come si può portare avanti una conversazione o un dibattito dentro un sistema costruito per tenerci agganciati il più possibile? Non si può.

Naturalmente essere condizionati a compiere una determinata azione è del tutto diverso da essere dipendenti da quell’azione. Senz’altro siamo tutti condizionati a interagire con le interfacce digitali di massa in base alle procedure pensate da chi le ha progettate (su indicazione di chi paga progettisti e sviluppatori), ma questo non significa che siamo dipendenti e non possiamo assolutamente farne a meno. È possibile modificare il proprio comportamento praticando una costante attenzione al contesto, ai dettagli (colori, suoni legati alle interazioni, numeri e così via) e alle nostre reazioni fisiologiche.

Il punto fondamentale è il focus dell’attenzione. Certamente se rispondiamo in maniera tempestiva alzando i toni a un messaggio su un gruppo (Facebook, WhatsApp o qualsiasi altra piattaforma), il nostro comportamento è frutto di una scelta: nessuno ci costringe a farlo. Tuttavia, se facciamo attenzione, probabilmente scopriremo sensazioni fisiche ripetutamente legate a quella specifica azione: un senso di calore alle tempie, per esempio, è tipico dell’ira. Il jingle delle suonerie e delle notifiche è fatto apposta per irritare e al tempo stesso farci reagire in maniera automatica. Ciò significa che i nostri stati d’animo e i motivi che ci spingono a interagire possono essere fortemente condizionati dalle interfacce.

Rendersene conto può aiutarci a reagire in maniera più calma e proficua a quelle che percepiamo come provocazioni, ricordando che la piattaforma è un luogo comune in cui tutti ci troviamo, a cui tutti siamo esposti, a cui tutti reagiamo con i nostri punti di forza e vulnerabilità. Una notifica rossa ha lo stesso effetto su tutti quelli che sono in grado di percepire il colore rosso e sono abituati ad associarlo a una richiesta impellente di attenzione! Siamo tutti sulla stessa barca, ma possiamo allenarci a guidarla meglio.

Ricordate: non ci sono soluzioni definitive, ma solo procedure e metodi per affrontare la complessità delle interazioni con un’attitudine hacker. Di certo, ogni cambiamento e trasformazione comporta fatica!

Un po’ di psicologia spiccia

Portare la vostra attività fuori dai social network non vi darà nessuna soddisfazione immediata. Siamo sinceri: probabilmente la vostra pagina smetterà di crescere e il vostro gruppo avrà molti meno partecipanti di quanti eravate abituati ad averne.

Chiunque vi prometta una transizione indolore e senza fatica mente sapendo di mentire, oppure è un ingenuo convinto di avere una miracolosa soluzione (che non esiste, o, se esiste, è una fregatura).
Non è escluso che vi scoprirete attanagliati da una fortissima sensazione di FOMO (Fear of Missing Out) e sarete proprio voi i grandi assenti da quella vetrina social dove, fino a poco tempo prima, vi battevate per essere protagonisti. Social media strategies, piani editoriali, foto e video per accrescere l’engagement… nessuno corre più a commentare i vostri post che si limitano a essere un freddo e insipido feed del vostro blog, non riuscite più a inseguire le metriche di vanità… sentite un buco allo stomaco, forse è fame… di riconoscimento? Delle vecchie abitudine che non vi sembrava fossero poi tanto invadenti? Eppure ne eravate certi, il vostro uso del social era solo per lavoro! Solo ora vi rendete conto di quanto fosse entrato nella vostra quotidiana routine 1.

Però, piano piano, lentamente, un passo alla volta e un piccolo sforzo dopo l’altro, insieme a quelle sensazioni sgradevoli, cominciate a sentirvi un po’ più liberi. Anche perché, come diceva il vecchio rivoluzionario anarchico Errico Malatesta, all’inizio del XX secolo,

incominciando a gustare un po’ di libertà si finisce col volerla tutta 2

La memoria vi aiuta a ricostruire, selezionando alcuni dettagli e scartandone altri. Quello che fino a ieri era indispensabile sfuma progressivamente nell’irrilevante.

Anche perché vi ricordate magari di quando ben 87 persone avevano cliccato su «Parteciperò» al vostro evento propagandato su FB e, dopo aver messo insieme un rinfresco per 100, vi siete ritrovati con 15 partecipanti effettivi. Sempre più di frequente, vi rammentate con imbarazzo di quel tempo, che sembra ormai lontano, allorquando ogni mattina controllavate in modo compulsivo se il numero di fan della pagina fosse cresciuto o meno nottetempo. Forse cercate di contare quanti dei millemila fan della vostra pagina sono poi diventati sostenitori attivi della vostra attività nel mondo disconnesso oltre che in quello mediato dai social, e, stupefatti, vi accorgete che vi bastano le dita di due mani, e che si tratta perlopiù di vecchi amici.
Liberiamo il tempo da dedicare a far crescere la nostra attività, piuttosto che occuparlo per curare un’immagine distorta di quella stessa attività, riflessa nella bacheca pubblicata (ma del tutto privata) del social network.

Pedagogia Hacker

Questa storia è stata scritta per mostrare come funziona la pedagogia hacker.

Lavorare con i nuovi (pre)adolescenti, ragazze e ragazzi cresciuti in ambienti e pseudo-ambienti ad alta intensità digitale, ma anche lavorare con insegnati, attiviste, formatori, educatrici e chi più ne ha più ne metta, richiede un approccio nuovo alle tecnologie stesse. Né tecnofobo, né tanto meno tecno-entusiasta, ma consapevole delle potenzialità e dei rischi delle connessioni interattive. Senza stravolgere la ricchezza dei rispettivi impianti disciplinari, siamo chiamati come insegnanti e adulti a formarci insieme ai ragazzi. Chiamiamo questo approccio «pedagogia hacker».

Hacker, cioè persone capaci di condividere e usare le tecnologie in un mondo interconnesso, si diventa insieme. Attraverso attività per imparare a prestare attenzione ai dettagli, ai sottintesi, a ciò che «sta dietro» le apparenza degli schermi. Possiamo diventare curiosi esploratori, ampliando il bagaglio del pensiero critico. Pedagogia si richiama alla tradizione della pedagogia degli oppressi (Paulo Freire), per imparare a riconoscere le oppressioni delle tecnologie del dominio e a liberarcene; ma anche alla pedagogia esperienziale (Boud-Cohen-Walker) e alla tradizione critica della filosofia della tecnica (Mumford, Ellul, Illich).

Io Vulgo, e tu?

Tante altre storie sono state raccolte in Internet, Mon Amour. Un libro particolare, che non è stato distribuito su cartaceo prima di essere interamente disponibile online! Perché pensiamo che «il metodo è il contenuto» e perciò non si può raccontar di storie del genere senza renderle disponibili e accessibili.

«Dove si scarica il PDF?», chiederanno i lettori desiderosi di avere la propria copia digitale. Eh no, niente PDF. Si legge male, soprattutto sugli schermi piccoli; il copia-incolla non funziona bene; è un formato proprietario. Insomma non ci convince per distribuire in digitale, perché è un formato adatto per la stampa, non per la lettura né per la diffusione.

I PDF, Portable Document Format, sono in effetti documenti portabili, nel senso di leggibili su diversi sistemi. Ma nella rete web vagano orfani, file da stampa in un mare da leggere; non banale risalire all’autrice. Spesso vengono caricati su piattaforme proprietarie, che ne ostacolano la libera circolazione.

E poi, il vantaggio del web è l’ipertestualità, ma sul web è difficile creare un riferimento a una sezione di un file PDF, ad esempio a un capitolo o a un paragrafo di un libro; ancora più difficile collegare fra loro diversi PDF in maniera che siano reperibili via web.

Al contrario, è facile creare o inserire riferimenti a sezioni di un sito web (HTML), o collegamenti a punti specifici, per saltare da un luogo all’altro: è la bellezza degli ipertesti. Se correttamente formati, questi riferimenti vengono (di solito) indicizzati e possono contribuire al posizionamento e dunque alla facile reperibilità del contenuto.

Ecco perché abbiamo deciso di rendere questo libro disponibile integralmente all’indirizzo https://ima.circex.org dove verranno pubblicate nuove storie come questa. C’è chi si è scaricato il sito intero per averlo sempre a disposizione, anche offline; non ha dovuto chiederci il permesso, la licenza permette di copiare e diffondere, con menzione d’autore, mantenendo la stessa licenza e a scopi non commerciali. Per procurarsi una copia integrale, è bastato un semplice wget…

Ci piacerebbe che questa idea di pubblicazione, che abbiamo chiamato VULGO, fosse applicata anche ad altri libri e testi ora pubblicati in PDF online. E per aiutare la diffusione, abbiamo pensato di facilitare la condivisione in maniera da mantenere il collegamento alla fonte, con almeno la citazione dell’autore, del testo, della licenza: un pezzetto di codice molto semplice, che abbiamo chiamato FLOShare.

Il metodo è il contenuto

Insomma, come si fa a usare bene le tecnologie digitali? Non lo sappiamo; abbiamo ascoltato delle storie, da cui abbiamo imparato, e cerchiamo di raccontarle. Di certo, sappiamo che non ci basta poter leggere i testi online. Vorremmo anche che i lettori ci aiutassero a diffonderli, facendo copia incolla. Ecco un esempio dal nostro libro, Internet, Mon Amour

    - vai su https://ima.circex.org e
    - leggi > seleziona > condividi con i bottoni di FLOShare

E se leggere questa storia ti ha fatto venire in mente altre storie vissute o raccontate, non esitare a mandarcele! Scrivi a ima  @ circex.org. 

1Per una breve introduzione sul tema dell’abitudine legata al rinforzo comportamentale, si veda il video Facebook: per un amico questo e altro, serie Dopamina (2/8), Léo Favier, Francia, 2019, disponibile su Arte fino al 29/07/2022

2Errico Malatesta, Il nostro programma, in L’anarchia. Il nostro programma. Datanews, Roma, 2001. Liber liber, p. 86 versione digitalizzata – PDF