Dio non ama giocare a Doom. Il rizoma e la terza tesi su Feuerbach

img Elisatron

di Rattus Norvegicus e G. Nicolosi

Armonie buie / rabbie oscure / toni negri

Tommaso Di Francesco

*.*

Non c’è cosa peggiore, per iniziare un breve saggio, che l’excusatio non petita. Tuttavia qualche autolimitazione mi sembra indispensabile. Non sono un frequentatore abituale dei testi filosofici di Gilles Deleuze e, in generale, dei grandi intellettuali francesi del secondo dopoguerra. Sebbene consideri Deleuze un autore di notevole interesse, per il momento lo trovo eccessivamente impegnativo. Analogamente, come psicologo che, sia pure in modo piuttosto occasionale, ha avuto a che fare con la clinica, sono rimasto colpito dalla statura intellettuale di Felix Guattari, dalla sua concezione dell’inconscio e dalla serie di problemi teorici che L’anti-Edipo1 (scritto con Deleuze) ha posto alla psicoanalisi. Tuttavia, anche in questo caso, non ho competenze sufficienti per esprimere pareri fondati sulla critica che Guattari ha rivolto a Lacan o sulla sua concezione dell’inconscio. Come militante di quella che, per farla breve, chiamerò con espressione dubbia “sinistra radicale”, posso però senz’altro dire che sono sempre stato incuriosito dall’aura che da oltre quarant’anni avvolge l’espressione rizoma nell’ambito dei movimenti libertari e socialisti. Sebbene nel 1977 avessi solo tredici anni, mi pare di ricordare l’esistenza di un “Collettivo Rizoma” a Roma. Cosa che trova conferma in un’opera recente del cantautore, romanziere e sceneggiatore Gianfranco Manfredi, interamente dedicata al movimento del 19772. Manfredi situa il “Collettivo Rizoma” proprio a Roma insieme a una serie di altre organizzazioni dai nomi piuttosto bislacchi (“Festa contro i sacrifici”, “Strippo teorico”, “Margine ambiguo” etc.). Di quello che dovrebbe essere un altro “Collettivo Rizoma”, questa volta di origini bolognesi, si parla invece in un delizioso librettino del fumettista Pablo Echaurren, sempre dedicato al ’77, che mi ha gentilmente segnalato Rossana De Simone3. Qui la cosa è anche divertente, perché il “Collettivo Rizoma” in questione distribuiva un volantino con scritto «Libertà per i compagni arrestati per aver diffuso questo volantino». Si trattava evidentemente di una balla, spiega Echaurren, perché se fossero stati veramente arrestati, i compagni in questione non avrebbero potuto distribuire il volantino. Chi abbia letto Logica del senso4 di Deleuze, con le sue considerazioni sul paradosso, capirà al volo che quel “Collettivo Rizoma” il nome non se l’ era scelto a caso.

Alla luce di questi fatti non ho potuto evitare di chiedermi come fosse possibile che il concetto di Rizoma circolasse così platealmente nel movimento del ’77 italiano quando Mille Piani5 sarebbe uscito nelle librerie solo nel 1980. Rizoma è, in effetti, il titolo della prima sezione di Mille Piani che, a sua volta, è il secondo volume di un’opera scritta a due mani da Gilles Deleuze e Felix Guattari e costituita da due volumi: L’anti-Edipo uscito nel 1972 e, appunto, Mille Piani uscito nel 1980. Se un giorno l’opera completa dovesse uscire in un’edizione unica il titolo dovrebbe essere Capitalismo e schizofrenia che compare come sottotitolo sia de L’anti-Edipo che di Mille Piani. Perché dunque Rizoma, che abbiamo detto essere la prima sezione di Mille Piani, iniziò a circolare in Italia con largo anticipo rispetto alla prima pubblicazione ufficiale francese di Mille Piani datata 1980 ? Semplicemente perché venne pubblicato già nel 1976 con titolo Rhizome6 in un’edizione dello stesso editore che poi pubblicherà in Francia il volume Mille plateaux nel 1980 (Les Edition de Minuit). È da Rhizome (1976) che vennero tratte le traduzioni in lingua italiana che circolavano, anche in forma di ciclostilati, nel movimento del ’77. Di Rhizome uscì nel 1977 anche una traduzione italiana ufficiale pubblicata dalla casa editrice Pratiche con il titolo di Rizoma7. È certo, in ogni caso, che quel testo si diffuse in modo virale esercitando una significativa influenza sul il pensiero politico antagonista italiano. Inutile ricordare lo straordinario successo che Capitalismo e Schizofrenia ha raggiunto nelle librerie e la sua grandissima diffusione in ambito accademico. Tentare, anche per sommi capi, una storia della critica al lavoro di Deleuze e Guattari richiederebbe un volume a parte che chi scrive non sarebbe certo in grado di realizzare. Ciò che posso proporvi come risposta alla call for papers che avete lanciato a novembre è una lettura piuttosto insolita del concetto di rizoma. A voi decidere che uso farne. Scrivere da outsider, ignorando norme e/o convenzioni implicite o esplicite nella pubblicistica di settore in talune occasioni può anche dare buoni risultati. A patto, naturalmente, che lo si faccia con rispetto nei confronti degli autori e dei lettori. Deleuze e Guattari anche in questo furono dei maestri inimitabili. Speriamo che la pazienza che vorrete accordarmi risulti, infine, ripagata.

Lo strutturalismo francese, nel dibattito interno alla sinistra, viene di solito considerato, almeno nelle trattazioni più schematiche e scolastiche, come una sorta di reazione alla fenomenologia di Husserl. Quest’ultima, soprattutto nella lettura che ne dava quell’esistenzialismo che ha dominato la filosofia francese nel corso degli anni Cinquanta, iniziava ad essere considerata eccessivamente soggettivistica e disattenta nei confronti delle “strutture” che condizionano e regolano, spesso imperativamente, la vita delle donne e degli uomini. Fin dove il termine “strutturalismo” in Francia ha avuto un significato generale, questo viene di solito individuato nella ritrovata attenzione nei confronti delle strutture, che siano quelle economiche, quelle dell’inconscio, quelle del linguaggio, quelle della narrazione o dell’antropologia. Strutture che, si potrebbe dire, “sovrastano” quel soggetto che l’esistenzialismo fenomenologico aveva portato al diapason. Il più classico degli esempi potrebbe essere la discussione sul libero arbitrio, dove l’esistenzialista Jean Paul Sartre assegnava al soggetto cosciente la responsabilità – tutta intera – del proprio comportamento8. Lo strutturalismo invece, segnato dall’influenza della psicoanalisi, era meno rigido e arrivava ad ammettere che l’inconscio (in quanto struttura) avrebbe potuto guidare il comportamento anche senza l’assenso del soggetto consapevole.

Se mi venisse chiesto di scegliere un simbolo che colga “icasticamente” lo strutturalismo francese, non avrei esitazioni: sceglierei il labirinto. Basta dare un’occhiata alle illustrazioni di un’opera che ha visto partecipare alla sua realizzazione un gran numero di celebri studiosi strutturalisti quale è stata l‘Enciclopedia Einaudi, per rendersi conto di quanto frequenti siano le immagini di labirinti su quelle pagine. Il labirinto, rappresentazione dello smarrimento del soggetto dinanzi alla potenza della struttura, può essere considerato l’emblema della risposta strutturalista all’esistenzialismo. Non che il soggetto resti del tutto annichilito davanti alla costruzione che lo avvolge e quasi lo chiude da ogni lato, ma non ha altra scelta che non sia quella di interpretare pazientemente il percorso che sta attraversando, di costruire il suo filo d’Arianna.

Buenos Aires 1970

Borges sa che la rischiosa dignità della letteratura non consiste nel farci supporre dietro al mondo la presenza di un grande autore assorto in fantastiche mistificazioni, ma nel farci provare la vicinanza di una strana potenza, neutra e impersonale.   Maurice Blanchot

Per comprendere come il post-strutturalismo di Deleuze e Guattari (d’ora in poi D.G.) rimetta in gioco le singolarità (non il soggetto) con modalità che non hanno più quasi nulla a che fare con la fenomenologia, non credo esista operazione più convincente di quella di confrontare il labirinto con il rizoma. Tuttavia, per farlo occorrerà, per dirla con i fotografi di una volta, alternare l’uso dello zoom a quello del grandangolo. Effettuare, in altri termini, dei rapidi passaggi dal dettaglio alla visione panoramica.

Indispensabile, intanto, ricordare che proprio quel labirinto che lo strutturalismo francese privilegiava come metafora della condizione umana, da almeno cinquant’anni era anche il principale apparato sperimentale utilizzato dalla ricerca comportamentista statunitense (grandangolo). Quei ratti che, fin dai primi anni del secolo scorso, venivano costretti a percorrere dedali assai intricati per avere accesso a una scarsa razione di cibo, finiranno per diventare una delle principale ragioni della crisi metodologica che determinò il tanto celebrato passaggio dal comportamentismo al cognitivismo. Quando lo studioso comportamentista Edward Chace Tolman iniziò a individuare la presenza ineliminabile di “mappe cognitive” nella memoria dei ratti che attraversavano i suoi labirinti (zoom), il postulato metodologico comportamentista secondo cui si sarebbe potuto studiare il comportamento indipendentemente da quel che accadeva nella “scatola nera”, vale a dire nel cervello dell’animale, iniziò a traballare vistosamente per poi entrare, nei trent’anni successivi, in una crisi sempre più profonda9.

Ma le due tradizioni di studi sul labirinto, quella continentale, di impronta strutturalista, con la sua vocazione letteraraia e filosofica, e quella anglosassone, con il suo empirismo sperimentale e il suo naturalismo darwiniano, hanno continuato a guardarsi in cagnesco, con poco rispetto e molto timore, senza mai giungere a momenti di confronto significativi. Il dibattito televisivo sulla natura umana fra Noam Chomsky e Michel Foucault10 che si tenne in Olanda nel Novembre 1971 (zoom) è stato considerato prezioso da alcuni studiosi anche perché si è trattato di una delle rare occasioni in cui queste due correnti di ricerca, sicuramente diverse ma con alcune importanti tematiche in comune, ebbero modo di confrontarsi. Chomsky, tuttavia, non rappresentava il mainstream nella ricerca cognitivista e Foucault non era il tipo di interlocutore che avrebbe permesso alla discussione di spostarsi sul rapporto tra strutturalismo e cognitivismo.

Qui vi proporrò un altro, sia pur breve, incontro tra la tradizione sperimentale anglosassone e lo strutturalismo, che avvenne a Buenos Aires nel 1970, in forma privata, tra due figure altrettanto eminenti: il premio Nobel per l’economia e padre dell’Intelligenza Artificiale Herbert Simon, statunitense, all’epoca cinquantaquattrenne, e il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges.

In realtà mentre Simon, pur con tutte le sue ambiguità, è oggi considerato a ragion veduta uno dei padri storici delle cosiddette scienze cognitive, Borges non ha avuto rapporti diretti con lo strutturalismo e, apparentemente, non ha nulla a che fare con la serra intellettuale parigina e con le sue accanite diatribe filosofiche. Senonché, volente o nolente, ha sempre rappresentato per gli intellettuali francesi una sorta di bandiera. Di fatto è stato lo scrittore più osannato dagli strutturalisti, vuoi per la sua vocazione ermeneutica, vuoi per una sensibilità linguistica e semiotica fuori dal comune, vuoi, insinuerei, per il suo talento con i labirinti. In Italia suoi estimatori furono, tra gli altri, intellettuali umanisti acclaratissimi quali Italo Calvino e Umberto Eco (peraltro assai vicini ai colleghi d’oltralpe). Nel 1970, quando avvenne l’incontro, Borges era già molto celebre e ricopriva l’incarico di direttore della Biblioteca Nazionale Argentina. Herbert Simon era invece uno stimatissimo professore universitario americano ma non era una figura pubblica di dimensioni paragonabili a quelle di Borges. Il premio Nobel per l’economia giunse per lui otto anni più tardi mentre i suoi successi nel campo dell’Intelligenza Artificiale erano conosciuti, fino a quel momento, da un cerchia di studiosi piuttosto ristretta. Fu lui a fare richiesta formale di un incontro con Borges. Il motivo per cui Simon era interessato a incontrare Borges va individuato in un racconto dello scrittore argentino, comparso nella celebre raccolta Finzioni e intitolato La biblioteca di Babele. In particolare, Simon era affascinato dalla struttura labirintica della biblioteca che Borges aveva descritto in quel racconto. Riporto, dall’ autobiografia di Simon11, la lettera con cui chiese a Borges di incontrarlo:

La mia professione è quella dello specialista in scienze sociali e io cerco di capire il comportamento umano per mezzo di modelli matematici (o, più recentemente, con modelli di simulazione programmati per computer). Nel 1956 ho pubblicato un articolo che descriveva la vita come una ricerca, lungo i corridoi di un labirinto con moltissime biforcazioni e un gran numero di mete da raggiungere. Qualche anno dopo, mi sono imbattuto in Finzioni, e in particolare nel racconto La Biblioteca di Babele, per scoprire che anche lei concepisce la vita come una ricerca attraverso il labirinto. Mi sono chiesto se mai si fosse verificato un’analoga trasmigrazione dal corpo inerte di un modello matematico alla carne viva della letteratura.

Il contenuto dell’incontro, che si svolse alla biblioteca Nazionale, presso l’ufficio di Borges, viene riportato da Simon in modo parziale. Ma è chiarissimo che i due, al di là dei convenevoli, non riuscirono ad intendersi. Simon scrive lapidario a chiusura del paragrafo dedicato a quell’incontro:

«Così Borges negò che alla base de La Biblioteca di Babele e de Il Giardino dei Sentieri che si biforcano vi fosse un modello astratto. Scriveva racconti, non esemplificava modelli. Era un narratore di favole.» (ivi)

Insomma, con un certo disappunto da parte di Herbert Simon, non si era verificata nessuna trasmigrazione dal corpo inerte di un modello matematico alla carne viva della letteratura. L’argentino aveva educatamente respinto tutte le chiamate in correità dello scienziato statunitense riguardo labirinti e ipotesi filosofiche a loro riguardo.

Per quale motivo Borges si era sottratto alle richieste di Simon? In nome di che cosa aveva rifiutato così testardamente le sue lusinghe? Conviene riflettere su come Borges, durante l’incontro, risponderà alla più insidiosa delle osservazioni di Simon, quella in cui Simon afferma:

«Io trovo senza ombra di dubbio che la nozione del labirinto ha, nei suoi scritti, un’unità genuinamente concettuale, nonostante le interessantissime differenze nelle specifiche sfumature attribuitegli da ogni storia o narrazione». (ivi)

È lo snodo teorico su cui ruota tutto l’incontro. Secondo Herbert Simon, lo scrittore argentino aveva dimostrato in quei racconti di avere delle capacità di astrazione paragonabili a quelle degli scienziati cognitivisti, di possedere il concetto trascendentale di labirinto oltre e al di là dei labirinti empirici di cui si serviva nella scrittura dei suoi racconti. Borges, però, non se ne da per inteso e tenta di spostare il discorso sul suo ruolo di narratore:

«In verità, credo che questa unità derivi dal fatto che tutti i miei racconti che parlano del labirinto corrispondono a un mio particolare stato d’animo che mi porta precisamente a questo tema.»(ivi)

Quando Simon gli chiede le fonti cui aveva attinto per i sui labirinti, Borges, dopo qualche riferimento testuale, inizia a raccontare in modo sibillino della sua infanzia e del padre che, quando era bambino, gli sottoponeva continue osservazioni di carattere filosofico:

«Ereditai da mio padre il gusto per questo tipo di ragionamenti. Era solito prendermi da parte a chiacchierare o a interrogarmi sulle mie convinzioni. Una volta prese un’arancia e mi disse “Secondo te il sapore è dentro l’arancia?” io risposi “Sì”. Allora mi chiese: “Bene, pensi allora che l’arancia stia continuamente assaggiando se stessa?”» (ivi)

L’ironia è sottile. Borges non intende essere offensivo, ma pone la questione del soggetto in tutta la sua problematicità. Il sapore dell’arancia, evidentemente, non è nell’arancia ma nei nostri organi del gusto, nella nostra percezione. Un chiaro messaggio all’indirizzo del comportamentismo filosofico che ispirava da anni il lavoro di Simon. La “scatola nera”, negli esseri umani, contrariamente alle idee comportamentiste, guida il comportamento dall’interno, sulla base di scelte soggettive più o meno consapevoli, che spesso vengono declinate anche in termini culturali. Per Borges non c’erano astrazioni concettuali che potessero spiegare fino in fondo, da sole, la scelta di un dato percorso piuttosto che di un altro da parte di un essere umano collocato all’interno di un labirinto. E non c’era nessuna argomentazione teorica che potesse spiegare perché lui, come scrittore, avesse scelto un certo labirinto piuttosto che un altro in un racconto. Nella visione soggettiva di Borges il labirinto non esiste in natura né in qualsivoglia iperuranio matematico, è soltanto una costruzione del narratore (o, se del caso, un’astrazione dello sperimentatore).

A Simon non resterà che replicare con l’argomentazione filosofica del solipsismo: «Devo supporre che la soluzione di tali quesiti l’abbia portata a un profondo solipsismo». E qui Borges ha buon gioco nel rimandare l’obiezione al mittente. Nessun solipsismo, quelli che il padre gli sottoponeva erano “problemi molto concreti”. Capire dove sta il sapore dell’arancia non ha nulla a che fare con qualsivoglia fuga nell’idealismo. Al contrario, si tratta di materialismo inteso nei suoi significati più sottili e profondi.

Si obietterà che Herbert Simon, come pioniere della rivoluzione cognitivista, avrebbe dovuto essere ben consapevole del ruolo del soggetto nella costruzione della realtà. Vero. Ma le cose di fatto non stanno così, perché Simon, per sua stessa ammissione, è stato uno scienziato di confine, cresciuto nel comportamentismo e rimasto fedele, in larga parte, a quella tradizione di pensiero. Quando, nel 1960 uscì Piani e strutture del comportamento di Miller, Galanter e Pribram* che, nelle parole di Simon, “diede larga eco al metodo della simulazione computerizzata in psicologia come alternativa radicale al paradigma comportamentista allora prevalente”, Simon la prese malissimo e i suoi rapporti con Miller “si guastarono all’uscita del libro e per un breve periodo furono molto tesi”. Simon non ha mai pensato che nel passaggio dal comportamentismo al cognitivismo si fosse consumata una frattura, un qualche tipo di rottura epistemologica, riteneva si trattasse soltanto di un necessario cambio di passo. Per questo l’enfasi posta sulla discontinuità nel celebre libro dei tre cibernetici lo fece imbufalire. Vale almeno notare che Simon, tra gli studiosi del settore, non era certo il solo a vedere le cose in questo modo12.

Quel che sappiamo dell’incontro di Buenos Aires proviene dalla autobiografia di Simon, che ha riportato ciò che ha voluto. Ma, da quel poco che ha riportato, si capisce che vi fu anche un confronto sul tema del libero arbitrio. Che cosa disse Borges non lo sappiamo, ma Simon replicò seccamente:

«Questa è la forma in cui io concepisco il libero arbitrio: esso risiede nel fatto che sono io quello che agisce quando compio una data azione. E il fatto che qualcosa abbia causato questo comportamento non priva me (l’io che agisce) in alcun modo della mia libertà».

È l’etica del comando nel capitalismo del controllo: farai solo ciò che io voglio tu faccia, ma sia ben chiaro che sei sempre tu che scegli. Qui le riflessioni sul libero arbitrio nella situazione contemporanea, in presenza di fenomeni quali la gamification o la cosiddetta spinta gentile13, sarebbero infinite.

Rizoma vs. labirinto

La dottrina materialistica che gli uomini sono prodotti dell’ambiente e dell’educazione, e che pertanto uomini mutati sono prodotti di un altro ambiente e di una mutata educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano l’ambiente e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa perciò giunge necessariamente a scindere la società in due parti, una delle quali sta al di sopra della società (per esempio in Roberto Owen).

La coincidenza nel variare dell’ambiente e dell’attività umana può essere concepita e compresa razionalmente solo come pratica rivoluzionaria.

Karl Marx. 1845. Terza tesi su Feuerbach

Nel 1997, leggendo per la prima volta Rizoma nell’edizione pubblicata da Castelvecchi con l’introduzione di Franco Berardi, ebbi l’impressione di avere a che fare con una forma, sia pur molto singolare, di ciò che da qualche tempo ero abituato a definire un “modello”. Per spiegare perché uso questa espressione e come mi sia divenuta familiare, devo cimentarmi in un breve excursus sulle metodologie di ricerca in psicologia.

Quando, nel 1993, mi sono laureato in psicologia sperimentale, la ricerca in psicologia stava attraversando una fase particolare in cui gli sperimentalisti erano letteralmente ossessionati dal concetto di “modello”. Un tormentone che arrivava in Italia con trent’anni di ritardo rispetto agli USA, fomentato da una pletora di professori che s’erano fatti paladini di una sorta di campagna di chiarificazione epistemologica. Attraverso il cosiddetto “approccio modellistico” speravano di mettere un punto alle interminabili diatribe dottrinarie tra ambientalisti e genetisti. Come dire: non ci interessa se il funzionamento psichico dipende dalle condizioni ambientali o dai fattori genetici, quel che conta è mettersi al lavoro per fornirne rappresentazioni scientificamente valide e convincenti. Il che si traduceva in una sorta di consenso informato degli studiosi all’uso crescente del calcolatore digitale nella ricerca scientifica in psicologia e in un riconoscimento del ruolo chiave che in essa stava assumendo l’intelligenza artificiale.

Si tenga conto che solo in minima parte i modelli cognitivisti sono paragonabili a quelli utilizzati in scienze hard come la fisica. Per dirla in modo assai sbrigativo, la simulazione di una data funzione psicologica al calcolatore, che sia la memoria, la percezione o altro, postula “l’indipendenza dal sostrato”. Significa che una data simulazione delle funzioni cognitive può essere considerata valida indipendentemente dal fatto che la sua base materiale sia un calcolatore digitale, un cervello biologico o un pezzo di formaggio. Chi ha tenuto d’occhio la palla si sarà accorto che questa dell’indipendenza dal sostrato è un’eredità comportamentista: adesso si riconosce che la scatola nera esiste, ma pare non interessi di che roba sia fatta. Basta simularne, in qualche modo, il funzionamento.

Tuttavia al modello, in quanto tale, viene richiesto un “isomorfismo strutturale” all’universo che intende rappresentare. Nel caso di Simon, come abbiamo visto, il modello è il labirinto. Si tratta di una scelta teorica ben precisa e di carattere generale. Il labirinto è considerato da Simon strutturalmente isomorfo alla vita stessa, costituisce la dimensione abituale in cui l’organismo si trova a dover affrontare il suo ambiente. Nella autobiografia di Simon, il cui titolo originale è, non a caso, “Models of my life”, compare anche un raccontino di una decina di pagine, francamente squallido e desolante, in cui una persona (tale Hugo) vive da solo, confinato in un ambiente che ricorda molto da vicino gli interminabili e ripetitivi garage sotterranei che ci si trova a percorrere in videogame “sparatutto” come Doom. Un labirinto in cui il protagonista si sposta all’infinito da una stanza all’altra, in cerca di cibi migliori e novità. La ricerca può costargli maggiore o minore fatica, può richiedere maggiore o minore impegno intellettuale, ma la cosa, per l’essenziale, finisce lì.

Herbert Simon, nell’invitare il lettore a cimentarsi nella lettura del racconto, lo definirà “una introduzione relativamente facile alla mia teoria delle decisioni”. Siamo alle prese con i fondamenti della teoria cognitivista delle decisioni applicata alla vita umana. Sotto molti profili si tratta del modello che, a tutt’oggi, viene considerato alla base del funzionamento dei sistemi economici e politici occidentali. Hugo, il protagonista del racconto è l’individuo lavoratore/consumatore nella visione neoliberista.

Se poi si soffermiamo sul fatto che Simon applicava le sue teorie principalmente al management e, segnatamente, alla pubblica amministrazione, sorge il sospetto che un’espressione infelice quanto efficace come “labirinto kafkiano” , diventata di uso corrente nella seconda metà del Novecento per definire gli aspetti deteriori della burocrazia pubblica (facendo grave torto a Kafka), abbia oscure parentele con questi studi sulla razionalità limitata.

In che modo e per quali ragioni il rizoma dovrebbe costituire un modello alternativo ?

In genere, quando nell’ambito di un corso universitario viene presentato il rizoma di D. G. si sostiene che il suo obiettivo reale sia una sorta di ribaltamento semantico nei confronti dell’albero e del principio gerarchico di arborescenza. Principio di arborescenza che, si noti, alimenta da millenni gli organigrammi delle fabbriche, delle chiese e degli eserciti (nonché quelli dell’organizzazione dello stato, delle università pubbliche e private e, aimé, dei partiti politici). Che dal rizoma spiri questo vento libertario e antigerarchico è senz’altro vero. La radice a fittone scava e si diffonde nella parte ipogea, fino a raggiungere una lunghezza dieci volte superiore alla parte esterna e visibile della pianta. I diritti del sottosuolo non sono rivendicati per vezzo, è questione di proporzioni e di sacrosanta avversione nei confronti dello strapotere della “parte emersa”, dell’albero o, riorientando la metafora, del famoso un per cento. Chi abbia visto Metropolis di Fritz Lang (1927), film di culto dell’operaismo italiano, ricorderà come i proletari nel film vivessero confinati nel sottosuolo mentre i potenti abitavano nei piani alti dei grattacieli della metropoli. Aggiungerei che il rizoma è a scorrimento orizzontale, “fascicolante” in modo da privilegiare lo scambio tra pari. Le strutture del rizoma suggeriscono una sorta di solidarietà naturale. Comunque, al di là dei principi di funzionamento del rizoma, elencati esaustivamente nel testo di D.G., la questione che qui si vuole evidenziare riguarda il rapporto del rizoma con il modello inteso nel senso di Simon e delle scienze cognitive. Se si decidesse di intendere il rizoma come un modello generale, si avrebbe un modello non soltanto alternativo all’albero, ma, come forse si inizia a comprendere, alternativo al labirinto. Meglio, si tratterebbe di un modello alternativo all’albero labirintico, che è la reale struttura gerarchica della società secondo la rappresentazione che ne ha dato Herbert Simon. E questo per le stesse ragioni adombrate da Borges nel colloquio del 1970: come lo scrittore argentino ha pazientemente dato ad intendere allo scienziato degli apparati burocratici, il ruolo delle singolarità nella costruzione del labirinto è un ruolo sensibilmente attivo. L’attività rizomatica non consiste nel tentativo, più o meno disperato, di interpretare il labirinto per orientarsi al suo interno, ma nella possibilità di contribuire, con le proprie scelte e le proprie azioni, al farsi dinamico del labirinto stesso. Si tratta, per ammissione di D.G. di un progetto costruttivista. Non si sta nel rizoma, si fa rizoma. Questo è il punto in cui il post-strutturalismo si distacca in modo netto dallo strutturalismo. E qui la marxiana terza tesi su Feuerbach si rivela in tutta la sua potenza. Ci sono due modi possibili di modificare l’ambiente costruendo labirinti: come pratica del potere o come pratica rivoluzionaria. Nel secondo caso, facendo rizoma, si fa un passo oltre l’ermeneutica. Siamo all’undicesima tesi: i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.

1 – Gilles Deleuze, Felix Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, 2002.

2 – Gianfranco Manfredi, Ma chi ha detto che non c’è, Agenzia X, 2017.

3 – Pablo Echaurren, il mio ’77, edizioni dell’Arengario, 2013.

4 – Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975.

5 – Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille piani, Orthotes Editrice, 2017.

6 – Gilles Deleuze, Felix Guattari, Rhizome, Minuit, Paris 1976.

7 – Gilles Deleuze, Felix Guattari, Rizoma, Pratiche editrice, Parma-Lucca 1977.

8 – Sergio Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, 2004. (Il paragrafo intitolato “Psicoanalisi esistenziale ed ermeneutica dell’uomo come soggetto libero” contiene un compendio del pensiero di Sartre su libero arbitrio e teoria dell’inconscio).

9 – Robert Boakes, Da Darwin al comportamentismo, Franco Angeli, 1986.

10 – Michel Foucault, Noam Chomsky, Della natura umana, DeriveApprodi, 2005.

11 – Herbert A. Simon, Modelli per la mia vita, Rizzoli, 1992.

12 – Non sorprende, dunque, che l’eredità del comportamentismo torni ad emergere in forma inquietante e spettrale nelle discussioni odierne su Big Data e manipolazioni dell’attenzione nel web.

13 – La spinta gentile (Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness) è un saggio scritto da Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein. Il libro, basato su ricerche in psicologia ed economia comportamentale, cerca di difendere il “paternalismo libertario”, cioè un approccio attivo nell’architettura delle scelte.