Ripensare il rapporto tra movimenti e sindacati per rinnovare l’organizzazione del lavoro

scale mobili in magazzino deserto pieno di scatole

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di F. Barbetta

1. Da dove partire

Il saggio The Neoliberal Low Point di Chris Howell contenuto nel libro The Handbook of Labour Unions esplora il lungo declino del movimento sindacale nei paesi capitalistici avanzati collocandolo all’interno della transizione dal modello di crescita fordista a un regime neoliberista che ha ristrutturato il rapporto tra capitale e lavoro. L’analisi prende avvio dal confronto con gli anni ‘70, decennio in cui il movimento operaio raggiunse il massimo della sua forza politica, organizzativa ed economica. In quel periodo la crescita della militanza sindacale operaia mise in discussione i fondamenti del compromesso keynesiano-fordista nelle democrazie occidentali, i piani di sviluppo guidati dallo stato nelle economie emergenti e le forme di organizzazione del lavoro in alcuni paesi socialisti. Queste mobilitazioni furono dirette contro il padronato, il governo e talvolta contro le stesse burocrazie sindacali attraverso scioperi non ufficiali e azioni spontanee. Per rispondere a queste pressioni, i governi, inclusi quelli socialdemocratici, ampliarono i diritti sindacali, estendendo in alcuni paesi la codeterminazione, rafforzando i sistemi di protezione sociale e sperimentando forme di socialismo, autogestione operaia e pianificazione industriale. Questa fase di radicalizzazione sindacale fu seguita da un’inversione di tendenza inattesa.

Se nel 1975 pochi avrebbero previsto l’avvio di una crisi sindacale quarantennale, un’eccezione fu Eric Hobsbawm. Nel 1978 alla conferenza The Forward March of Labour Halted? ipotizzava che i mutamenti nella composizione della classe lavoratrice e nella struttura del capitalismo postbellico avrebbero compromesso la capacità organizzativa del movimento operaio. Quella che all’epoca era solo una previsione è oggi una realtà consolidata. Il neoliberismo, considerato da Howell l’architrave della trasformazione capitalistica dell’ultimo mezzo secolo, ha prodotto un declino sindacale persistente, le cui dinamiche e variazioni geografiche sono al centro della sua analisi. La riduzione delle iscrizioni al sindacato ha seguito tempistiche diverse nei vari paesi, il che ha in parte occultato la portata globale del fenomeno. La contrattazione collettiva ha mostrato una maggiore resilienza rispetto al tasso di sindacalizzazione ma questa tenuta non riflette la forza organizzativa dei sindacati, bensì il ricorso a meccanismi statali di estensione automatica e il ruolo delle associazioni imprenditoriali. Anche in questo ambito è emersa una tendenza generalizzata alla decentralizzazione, con un progressivo spostamento dalla contrattazione settoriale a quella aziendale, e una limitazione del potere contrattuale dei sindacati. Analogamente, la ripresa dei patti sociali dagli anni ‘80 in poi non è stato il segnale di una rinnovata forza sindacale perché è stata una strategia adottata dagli Stati per gestire la liberalizzazione del mercato del lavoro e neutralizzare le resistenze operaie. Un ulteriore indicatore della crisi sindacale è il crollo degli scioperi. Se durante l’apogeo del compromesso socialdemocratico la bassa conflittualità poteva essere interpretata come un segno della capacità dei sindacati di ottenere concessioni senza dover ricorrere a scioperi, oggi questa interpretazione non è più valida perché il drastico calo della conflittualità è direttamente collegato alla perdita di potere dei lavoratori. Howell individua l’inizio dell’era neoliberista nella stretta repressiva sui sindacati imposta dai governi di Thatcher e Reagan nei primi anni ‘80. Il simbolo di questa svolta fu la repressione dello sciopero dei minatori britannici del 1984-85 e il licenziamento di massa dei controllori di volo americani nel 1981. Da quel momento, i sindacati hanno sperimentato il neoliberismo come una guerra di classe di lunga durata, caratterizzata dall’erosione sistematica delle loro risorse, dalla deregolamentazione del mercato del lavoro e dalla crescente precarizzazione della forza lavoro. I sindacati iniziano, quindi, ad operare in un contesto nuovo che Howell intende analizzare attraverso il prisma della teoria della regolazione secondo cui i regimi di accumulazione si sviluppano a partire da specifiche istituzioni capaci di determinare le condizioni della crescita capitalistica. La tesi che ne deriva è semplice: la forza dei sindacati è determinata dal modello di crescita economica dominante e dal grado in cui la contrattazione collettiva contribuisce o entra in conflitto con esso. Durante il periodo socialdemocratico il modello di crescita dominante era il fordismo, caratterizzato dal legame tra produzione di massa e consumo di massa, mediato da istituzioni che garantivano la distribuzione dei guadagni di produttività ai lavoratori. Questo sistema mirava a risolvere il problema strutturale della sovrapproduzione attraverso un meccanismo virtuoso. La crescita della produttività permetteva aumenti salariali che a loro volta stimolavano la domanda e sostenevano l’accumulazione capitalistica. La contrattazione collettiva, soprattutto a livello settoriale e industriale, assicurava che i salari non entrassero in competizione tra loro e favoriva la stabilità occupazionale, rafforzando così la posizione sindacale. Sebbene il compromesso fordista fosse fragile e caratterizzato da frequenti conflitti industriali, esso rappresentò un equilibrio capace di restare in piedi fino alla fine degli anni ‘70. Anche nei paesi con economie più piccole e orientate all’export, quindi prive di una struttura industriale fordista, il modello di crescita era influenzato dal fordismo attraverso meccanismi di sostituzione statale, come la gestione keynesiana della domanda, l’imposizione di un salario minimo o l’estensione delle contrattazioni collettive ad ampi segmenti dell’economia. In questo contesto il ruolo dei sindacati era funzionale alla crescita economica, il che li proteggeva da attacchi diretti da parte del capitale e dello Stato. All’inizio degli anni ‘80 il modello fordista entrò in crisi e venne sostituito da nuove forme di regolazione economica e di conseguenza ci fu un radicale mutamento del rapporto tra capitale e lavoro. Ciò che emerse venne definito post-fordismo e viene analizzato dall’autore seguendo due principali traiettorie teoriche. La prima, influenzata dall’approccio delle Varieties of Capitalism, distingue due tipi di economie: le economie liberali di mercato, basate su produzioni a basso costo, bassa qualificazione e deregolamentazione del lavoro e le economie coordinate di mercato, in cui la cooperazione tra Stato, imprese e sindacati regola la crescita attraverso salari elevati, alta qualificazione e produzione di beni di qualità diversificata. Mentre nel secondo modello il lavoro organizzato continuava a svolgere un ruolo importante, nel primo risulta sempre più marginalizzato. La seconda traiettoria, legata alla teoria della regolazione, si concentra sulle nuove caratteristiche del capitalismo post-fordista, individuando tre elementi chiave. Il primo è l’inversione del modello fordista, descritta da David Harvey come accumulazione flessibile, in cui la crescita si basa sull’innovazione continua, sulla precarizzazione del lavoro e sulla compressione dei salari. Questo modello è esemplificato dalla crescita del settore dei servizi a basso costo e dalla gig economy, dove la digitalizzazione consente nuove forme di estrazione del valore senza un corrispettivo aumento della domanda aggregata. Il secondo elemento è la finanziarizzazione che impone una disciplina sul mercato del lavoro attraverso l’imperativo del valore per gli azionisti e sostituendo la crescita dei salari con il debito privato come motore del consumo. I lavoratori sono stati progressivamente inglobati nel sistema finanziario attraverso il credito al consumo, il debito studentesco e la precarizzazione del welfare, rendendoli dipendenti dai mercati finanziari per la propria sicurezza economica. Il terzo elemento è la comparsa di modelli di crescita basati sull’export e sul consumo privato, nessuno dei quali prevede un ruolo centrale per i sindacati o per la domanda da lavoro salariato. Il declino del fordismo significa, quindi, una trasformazione del ruolo dei sindacati. Nel periodo 1945-1979 la loro sopravvivenza e influenza erano state facilitate dal modello di crescita dominante. La struttura delle grandi fabbriche, caratterizzata da un’alta concentrazione di lavoratori semi-qualificati e dalla stabilità occupazionale, favoriva la consapevolezza dell’importanza del sindacato e l’iscrizione a questa organizzazione. Il capitale stesso, attraverso meccanismi come le closed shop o la riscossione automatica delle quote sindacali, contribuiva all’organizzazione dei lavoratori. Inoltre, i governi, indipendentemente dal loro orientamento politico, tolleravano o addirittura sostenevano i sindacati, riconoscendone il ruolo nella regolazione dell’economia. I legami tra sindacati e partiti di sinistra erano particolarmente stretti. In molti paesi, come Australia, Regno Unito e Svezia, i sindacati avevano un ruolo costituzionale all’interno dei partiti socialdemocratici, mentre altrove esercitavano un’influenza indiretta sulla formulazione delle politiche economiche. Questo rapporto era basato su un duplice scambio: politicamente, i partiti di sinistra garantivano rappresentanza ai sindacati in cambio del sostegno elettorale; economicamente, i sindacati accettavano moderazione salariale e stabilità industriale in cambio di politiche di piena occupazione e di un’espansione del welfare. Con la crisi del fordismo tutti questi elementi vennero progressivamente erosi. La fine del compromesso socialdemocratico e l’affermazione del neoliberismo portarono a un cambiamento radicale nei rapporti tra capitale e lavoro. Gli anni ‘80 e ‘90 videro un aumento dell’ostilità del capitale nei confronti dei sindacati. La deindustrializzazione ridusse la quota di occupazione manifatturiera e le imprese del settore terziario e della gig economy si dimostrarono molto meno disposte a riconoscere i sindacati mentre le associazioni imprenditoriali adottarono un atteggiamento sempre più militante contro la regolazione collettiva del lavoro, investendo risorse politiche per contrastare la contrattazione collettiva e ridurre il ruolo dei sindacati nei sistemi di relazioni industriali. Parallelamente i governi, inizialmente quelli di destra ma poi anche quelli di sinistra, iniziarono a considerare i sindacati sempre meno utili. Nei governi conservatori questo portò a veri e propri attacchi legislativi contro i sindacati e alla riduzione delle tutele legali per la contrattazione collettiva. Nei governi di sinistra si tradusse in un progressivo distacco dai sindacati e, successivamente, nell’adozione di politiche economiche neoliberiste. Sebbene il grado di isolamento dei sindacati abbia variato tra i diversi paesi, il trend generale è stato quello di un crescente allontanamento tra capitale, Stato e lavoro organizzato. Nel prossimo paragrafo proveremo ad analizzare come i sindacati in Italia hanno risposto a questo nuovo scenario.

2. Uno sguardo sul sindacato in Italia

Recentemente è stato pubblicato un libro di Giulio Marcon dal titolo Il sindacato nell’Italia che cambia che consente di fare alcune riflessioni sullo stato dei sindacati nel nostro paese mostrando anche delle interessanti piste da seguire per il loro rinnovamento. Al momento in Italia ci sono 16 milioni di persone iscritte ai sindacati. CGIL, CISL e UIL hanno insieme 11,2 milioni di iscritti, seguono realtà come UGL, 1,8 milioni di iscritti, confederazioni come CISAL e CONFSAL con 3,2 milioni di iscritti e infine qualche centinaia di migliaia di iscritti collegabile a sigle del sindacalismo di base come USB e CUB. Oltre a queste realtà, però, esistono i cosiddetti sindacati pirati, in molti casi creati dalle stesse imprese, che contano pochi iscritti ma hanno comunque la possibilità di firmare contratti di lavoro. In Italia abbiamo circa 900 contratti nazionali nel settore privato ma solo il 23% di loro è firmato da CGIL, CISL e UIL mentre il resto è sottoscritto da sigle minori o sindacati pirati che favoriscono interessi particolari, clientelari o corporativi. L’analisi di Marcon prosegue descrivendo le modalità di organizzazione del sindacato. Esse si basano essenzialmente sulla suddivisione in categorie ognuna delle quali rappresenta un gruppo di lavoratori legati ad uno specifico settore. In passato questa organizzazione prevedeva anche l’esistenza di sindacati specializzati per specifiche funzioni rendendo ancora più frammentata la rappresentanza. Nel momento in cui le categorie hanno iniziato ad accettare un’impostazione unica sono nate le unioni, le federazione e le confederazioni che sono il livello più alto di solidarietà e unità tra i lavoratori di diversi settori. La CGIL è il sindacato italiano più convintamente affine a questa modalità di organizzazione ma deve fare i conti con una trasformazione del mercato del lavoro capace di limitare la presenza sindacale nei luoghi di lavoro. Il sindacato è assente nella spina dorsale del sistema produttivo del paese, ovvero le piccole imprese. Infatti dei 16 milioni di lavoratori nelle imprese industriali, agricole e dei servizi 9 milioni sono impiegati in aziende con meno di 19 dipendenti mentre 10,7 milioni di lavoratori sono impiegati in aziende con meno di 49 dipendenti. Allo stesso tempo si è espanso il lavoro precario e atipico. Marcon ci dice che i lavoratori precari senza un luogo collettivo di lavoro (come collaboratori domestici, a progetto, occasionali) sono circa 2,5 milioni mentre quasi 1 milione ha un rapporto estremamente limitato con un luogo di lavoro (voucher, lavoro a chiamata, in somministrazione). Su 23,5 milioni di lavoratori occupati il sindacato ne rappresenta poco più di un terzo ma allo stesso tempo la percentuale di pensionati iscritti al sindacato è del 45%. A peggiorare il dato c’è la costante riduzione del numero delle grandi fabbriche. Ne consegue che la rappresentanza dei lavoratori non può avvenire solo nei luoghi di lavoro tradizionali. Il sindacato deve fare lo sforzo di espandersi nello spazio sociale e pubblico per intercettare il proletario moderno. Su questo fronte la CGIL sta rispondendo con la strategia del sindacato di strada descritta dal segretario Maurizio Landini come un modo per rilanciare la centralità del sindacato e della mobilitazione sociale che parte dalla constatazione della necessità di trovare nuove modalità di organizzazione e rappresentanza a partire dalla frammentazione del lavoro. Bisogna ricostruire la solidarietà tra i lavoratori con strumenti capaci di unire ciò che il neoliberismo ha diviso orientando l’azione anche verso la costruzione di progetti di trasformazione e la lotta per nuovi diritti in collaborazione con altre realtà sociali. Il termine sindacato di strada è relativamente recente ma il suo significato richiama esperienze storiche precedenti che Marcon ripercorre brevemente. Pierre Carniti, storico segretario dei metalmeccanici della CISL, si definiva sindacalista sul marciapiede, indicando con questa espressione la necessità di un’azione sindacale vicina ai lavoratori e radicata nella quotidianità. Negli anni ’80 Giorgio Benvenuto, allora segretario della UIL, parlava di sindacato dei cittadini, concetto che oggi la UIL ripropone come sindacato delle persone. Benvenuto aveva colto le prime trasformazioni del mondo del lavoro, caratterizzate da una crescente frammentazione e dalla crisi del modello fordista. Sebbene negli anni ’80 non si fosse ancora arrivati ai livelli di precarizzazione attuali, il processo era già in corso e imponeva un ripensamento del ruolo del sindacato. L’idea del sindacato dei cittadini nasceva proprio dalla consapevolezza che la comunità dei lavoratori, un tempo unita nei luoghi di produzione, stava progressivamente dissolvendosi. Per contrastare questa tendenza il sindacato doveva ricostruire forme di aggregazione basate su temi di interesse comune come il fisco, il welfare e la qualità dei servizi pubblici. La frammentazione del lavoro, secondo Benvenuto, poteva essere compensata attraverso una nuova solidarietà, costruita su battaglie collettive che andassero oltre la dimensione strettamente lavorativa. Nel 1991, sotto la segreteria di Bruno Trentin, il congresso della CGIL adottò lo slogan “Il sindacato dei diritti e della solidarietà”, riaffermando la necessità di un sindacato che non si limitasse alla contrattazione ma che esercitasse un ruolo politico e sociale più ampio. Il dibattito tra il sindacato che fa politica e quello che si concentra esclusivamente sulla negoziazione salariale e contrattuale è antico, risale agli albori del movimento sindacale. Già tra Ottocento e Novecento si confrontavano due modelli. Da un lato le Camere del lavoro, che avevano una funzione orizzontale e territoriale, e dall’altro i sindacati di mestiere, più verticali e legati alla contrattazione specifica per settore. Negli anni ’60 e ’70 l’esperienza del movimento consiliare e delle lotte per le riforme aveva rafforzato l’idea di un sindacato capace di trascendere gli interessi immediati delle categorie per diventare un soggetto di cambiamento sociale. Questa tradizione si riflette nelle parole di Natale Di Cola, dirigente della CGIL di Roma con un passato nei movimenti studenteschi e nelle mobilitazioni del 2001 a Genova. Di Cola ribadisce che non esiste una contrapposizione tra il sindacato che fa i contratti e quello che esercita un’azione generale. Un sindacato come la CGIL non si rivolge solo ai suoi iscritti ma a tutti i lavoratori, compresi i disoccupati e i pensionati. Questo approccio si contrappone a quello di altri sindacati che si limitano a tutelare esclusivamente i propri iscritti, rinunciando a una funzione più ampia. Un concetto come il sindacato di strada, quindi, non si pone in alternativa alla contrattazione collettiva perché la rafforza. Un sindacato con maggiore peso politico ha infatti più forza nella negoziazione. Bruno Trentin insisteva su questo punto quando sosteneva che la contrattazione non è un fine ma un mezzo, condizionato dagli obiettivi etici e politici del sindacato. Il vero obiettivo deve essere la dignità della persona, garantita attraverso diritti sociali e nuovi strumenti di partecipazione democratica. In questo quadro, la contrattazione nazionale assume un ruolo decisivo perché crea condizioni unitarie tra i lavoratori e impedisce che la frammentazione contrattuale alimenti corporativismi e divisioni interne. L’attacco alla contrattazione collettiva, oggi, è una strategia per indebolire il sindacato e favorire modelli organizzativi più settoriali e individualistici. La forza del sindacato di strada risiede nella sua capacità di rispondere a questi processi, recuperando l’insegnamento di Trentin e affrontando le sfide della precarietà, della frammentazione e della crisi delle identità sociali. Il lavoro non è più l’unico centro della vita delle persone e quindi il sindacato deve essere in grado di rappresentarne i bisogni e le aspirazioni, sviluppando nuove forme di aggregazione e lotta. Marcon propone degli esempi concreti di applicazione di questa nuova modalità di fare sindacato. Ad esempio in Puglia la FLAI-CGIL, il sindacato del settore agroindustriale con oltre 251.000 iscritti, ha sviluppato un modello di sindacato di strada per contrastare il caporalato. Nel 2009, durante la campagna Oro Rosso, sono stati coinvolti 20.000 lavoratori nella raccolta del pomodoro nel foggiano. La FLAI ha utilizzato camper attrezzati con sindacalisti, mediatori culturali e operatori umanitari per raggiungere i braccianti nei campi, denunciare lo sfruttamento e offrire assistenza. Questo modello è stato replicato in altre regioni, come Calabria, Sicilia e Piemonte, dove il sindacato di strada si è concentrato sulla regolarizzazione dei lavoratori migranti e sulla lotta al caporalato. A San Ferdinando, in Calabria, vicino Rosarno, il sindacato di strada ha affrontato le difficoltà dell’accoglienza dei migranti, collaborando con associazioni come la Caritas per promuovere l’inclusione e contrastare i ghetti. Nel 2019 la baraccopoli di San Ferdinando, uno dei più grandi ghetti d’Europa, è stata smantellata senza un piano di accoglienza alternativo, lasciando migliaia di migranti in condizioni precarie. Il sindacato di strada ha lavorato per garantire loro assistenza legale e sanitaria e ha denunciato la mancanza di volontà politica nel risolvere il problema. A Roma, la CGIL, insieme all’ARCI, ha creato l’associazione Nonna Roma che offre servizi di mutuo soccorso, distribuzione alimentare e inclusione lavorativa nei quartieri più disagiati della capitale. Nel 2017 Nonna Roma ha attivato una rete di servizi che include la distribuzione di prodotti di prima necessità, corsi di italiano per migranti, assistenza legale e progetti di inclusione lavorativa. Durante l’inverno, la sede della CGIL del Lazio ha aperto le sue porte ai senza fissa dimora, offrendo loro un posto dove dormire. Con la progressiva cancellazione del reddito di cittadinanza, Nonna Roma ha lanciato la campagna Ci vuole un reddito! per contrastare la povertà e promuovere misure di protezione sociale. In Piemonte, nelle vigne dell’astigiano, la CGIL e la FLAI hanno organizzato un camper anti-sfruttamento per assistere i lavoratori stagionali, promuovendo la regolarizzazione e combattendo il lavoro nero. A Saluzzo, nel distretto della frutta, il sindacato ha collaborato con enti locali e cooperative per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei migranti impiegati nella raccolta. Nel 2021 è stato attivato un hub vaccinale per garantire la vaccinazione anti-Covid a 850 lavoratori migranti. Grazie a queste iniziative, le tendopoli che ospitavano migliaia di lavoratori in condizioni disumane sono state eliminate. A Torino, il 27 maggio 2023, la CGIL del Piemonte ha organizzato una manifestazione per la difesa della sanità pubblica, coinvolgendo migliaia di persone e collaborando con associazioni di utenti e operatori sanitari. La manifestazione è stata il risultato di un lavoro capillare sul territorio, con presenze costanti davanti agli ospedali e alle strutture sanitarie. La CGIL ha denunciato il progressivo indebolimento del sistema sanitario nazionale e la privatizzazione dei servizi, chiedendo un aumento degli investimenti pubblici nella sanità. Uno dei risultati più significativi del sindacato di strada è stata l’approvazione della legge 199 del 2016 che contrasta lo sfruttamento lavorativo e il caporalato. Questa legge riconosce che il caporale non è l’unico responsabile dello sfruttamento perché è parte di una rete che coinvolge anche gli imprenditori agricoli. La legge rappresenta un punto di svolta, frutto delle lotte sindacali e della pressione dal basso. Il sindacato di strada ha molto lavoro ancora davanti a sé. Deve superare le logiche corporative e rafforzare la confederalità, ovvero la capacità di coordinare le diverse categorie e territori. Questo richiede un cambiamento culturale e organizzativo, con una maggiore attenzione alle nuove generazioni e alle trasformazioni del mercato del lavoro, come la digitalizzazione e l’automazione. Inoltre, il sindacato deve allearsi con movimenti sociali e associazioni per affrontare temi trasversali, come la difesa della sanità pubblica e la lotta alla povertà. Solo uscendo dalle sedi e andando incontro ai lavoratori, il sindacato può tornare a essere un attore centrale nella difesa dei diritti e nella promozione della giustizia sociale. La strada è lunga, ma le esperienze descritte da Marcon dimostrano che un sindacato più vicino ai territori e alle persone è possibile e necessario. Chiudiamo questa rassegna sul sindacato in Italia parlando brevemente di come il modo di fare vertenza nel nostro paese è stato profondamente rinnovato dalla lotta più importante degli ultimi decenni con cui abbiamo avuto a che fare, ovvero quella dell’ex GKN di Campi Bisenzio. La nostra fonte è il libro di Dario Salvetti, carismatico leader operaio della fabbrica, Questo lavoro non è vita. La lotta di classe nel XXI secolo. Il caso GKN. La vertenza si sviluppa a partire dal 9 luglio 2021, quando i 422 lavoratori dello stabilimento di Campi Bisenzio ricevono un’email con cui la proprietà, la multinazionale britannica Melrose Industries, comunica l’avvio della procedura di licenziamento collettivo. La decisione viene presa pochi giorni dopo la fine del blocco dei licenziamenti imposto dalla pandemia, senza alcun preavviso o consultazione sindacale. La reazione operaia è immediata: un centinaio di lavoratori si raduna davanti ai cancelli, riesce a rientrare nello stabilimento e proclama l’assemblea permanente per impedire lo smantellamento della fabbrica. La mobilitazione si intensifica rapidamente e assume una dimensione ampia. Il 19 luglio si tiene uno sciopero generale provinciale con 10.000 persone in piazza Santa Croce a Firenze. Il 24 luglio, un corteo di 8.000 persone sfila attorno alla fabbrica. L’11 agosto, la manifestazione serale coinvolge 5.000 persone e unisce il Collettivo di fabbrica, le organizzazioni sindacali, l’ANPI e altre realtà solidali. Il 18 settembre, la manifestazione più imponente porta a Firenze 40.000 persone, sancendo la centralità della vertenza nel dibattito nazionale. L’azione legale della FIOM CGIL porta il 19 settembre all’annullamento della procedura di licenziamento per condotta antisindacale ma solo per irregolarità formali, il che significa che l’azienda può ripetere la procedura in modo corretto. Gli operai restano in assemblea permanente e, consapevoli del rischio di una nuova chiusura, iniziano un percorso di convergenza con movimenti sociali e ambientalisti. La lotta degli operai ex GKN infatti non si limita a una battaglia sindacale per il mantenimento del posto di lavoro poiché si intreccia con le lotte sociali e ambientali, creando un nuovo modello di mobilitazione. Già nell’autunno del 2021, mentre lo stabilimento rimane formalmente aperto ma senza produzione, il Collettivo di fabbrica avvia assemblee con movimenti studenteschi, centri sociali e attivisti ambientali. Nasce l’idea di una reindustrializzazione dal basso, con un progetto di Polo pubblico della mobilità sostenibile sviluppato in collaborazione con esperti della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Parallelamente il Collettivo elabora una proposta di legge contro le delocalizzazioni, scritta con giuristi solidali, che viene presentata in Parlamento e puntualmente ignorata. Il governo approva invece il decreto Orlando-Todde (legge 234/2021), che introduce misure limitate contro le delocalizzazioni senza alcun intervento strutturale. Il rapporto con i movimenti si consolida con l’Insorgiamo Tour, una serie di incontri in tutta Italia per unificare le lotte del paese. Il 26 marzo 2022 un corteo nazionale organizzato con Fridays for Future porta in piazza 30.000 persone, segnando una convergenza tra movimento operaio e ambientalista. Il motto della lotta diventa: “Per questo, per altro, per tutto”. Nel dicembre 2021 Francesco Borgomeo rileva lo stabilimento e firma un accordo quadro con sindacati e istituzioni per la reindustrializzazione. Già nel novembre 2022, tuttavia, smette di pagare gli stipendi e gli operai entrano a Palazzo Vecchio, occupandolo per 30 ore. Il Collettivo organizza quindi un referendum popolare autogestito che raccoglie 17.000 voti favorevoli all’intervento pubblico in GKN. Nel febbraio 2023 l’azienda viene messa in liquidazione volontaria, impedendo così l’accesso alla cassa integrazione per riorganizzazione. Il 25 marzo un corteo nazionale di 15.000 persone sfila a Firenze per chiedere il pagamento degli stipendi. Di fronte a tutti questi problemi il Collettivo di fabbrica decide di creare la Società operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo (SOMS Insorgiamo), raccogliendo fondi per il sostegno ai lavoratori e per il progetto di reindustrializzazione. Nel luglio 2023 il governo sblocca la cassa integrazione ma i pagamenti arrivano con mesi di ritardo. Nel dicembre 2023 il Tribunale del Lavoro annulla nuovamente i licenziamenti grazie all’intervento della FIOM CGIL senza però produrre effetti concreti sugli stipendi. Per sostenere i lavoratori il Collettivo avvia una campagna di azionariato popolare, raccogliendo oltre un milione di euro. Quest’ultime scelte sono funzionali alla creazione della cooperativa GKN for Future (GFF), concepita come un’entità mutualistica e socialmente integrata. La cooperativa nasce con l’obiettivo di garantire la reindustrializzazione dello stabilimento di Campi Bisenzio attraverso la produzione di cargo bike e pannelli solari. Questa idea si sviluppa in parallelo alla nascita della SOMS Insorgiamo, che funge da agente di reindustrializzazione e distribuisce microcredito ai lavoratori, mentre ancora non esiste una produzione avviata. SOMS Insorgiamo ha stretto un patto con il Comune di Firenze, ponendosi come soggetto economico e sociale per la reindustrializzazione della fabbrica. Un elemento centrale della cooperativa è il modello di proprietà collettiva, garantito tramite un azionariato popolare che ha permesso di raccogliere oltre un milione di euro in sottoscrizioni. Questo strumento è stato pensato per evitare il rischio di autosfruttamento tipico di molte cooperative e per mantenere il controllo della fabbrica nelle mani della comunità. GKN for Future si lega idealmente al movimento Fridays for Future, sia per il nome che per l’obiettivo di produrre mezzi di trasporto ecologici e sostenibili. La prima prova della sostenibilità del progetto si è avuta con un tour in Germania, durante il quale sono stati presentati i prototipi delle cargo bike, raccogliendo 60.000 euro di pre-ordini. L’approccio della cooperativa si basa sulla fabbrica socialmente integrata, un modello che include non solo i lavoratori ma anche le comunità e i movimenti che hanno supportato la vertenza. L’idea è che il valore della produzione non si misuri solo in termini economici ma anche in termini di impatto sociale e ambientale. Il futuro della cooperativa è strettamente legato alla capacità di costruire una rete di supporto ampia e alla possibilità di coinvolgere il capitale pubblico, un aspetto su cui il Collettivo di fabbrica continua a esercitare pressione attraverso la mobilitazione. Il caso dell’ex GKN è diventato un simbolo di resistenza operaia, unendo sindacati, studenti, movimenti per il diritto alla casa e ambientalisti in un’unica mobilitazione per il lavoro e la giustizia sociale. La convergenza tra queste realtà dimostra che la vertenza non è solo una battaglia per il lavoro. Siamo davanti ad un tentativo di ridefinire il modello economico e produttivo. Come affermano gli operai, “insorgere” significa convergere e convergere significa cambiare i rapporti di forza nella società. La vertenza dell’ex GKN mette in risalto quanto sia fondamentale per la buona riuscita di uno sciopero o di una vertenza la connessione tra sindacato e movimenti. Se a Campi Bisenzio questo rapporto è trainato dalla colta classe operaia fiorentina, in Francia, come dimostra il caso dei gilets jaunes, il rapporto si ribalta totalmente.

3. L’esempio dei gilets jaunes

All’interno del libro European Trade Unions in the 21st Century. The Future of Solidarity and Workplace Democracy troviamo il saggio Organised Labour and Fluid Organisations: Insights from the Gilets Jaunes Movement di Barry Colfer e Yoann Bazin. Il saggio inizia descrivendo la manifestazione del 17 novembre 2018, quando circa 300.000 persone manifestarono a Parigi e in altre città della Francia contro una nuova tassa sui carburanti proposta dal governo francese e l’agenda di liberalizzazione economica e sociale portata avanti dal presidente Emmanuel Macron dalla sua elezione nel maggio 2017. Nei mesi successivi, coordinati principalmente attraverso i social media, migliaia di persone occuparono rotonde, bloccarono strade e si radunarono nei centri urbani, specialmente di sabato, per opporsi alle riforme proposte dal presidente. Il movimento prese il nome dai gilet gialli ad alta visibilità (gilets jaunes in francese), indossati dagli attivisti e obbligatori per legge in ogni veicolo in Francia. Il picco delle sue attività si ebbe tra il novembre 2018 e la fine del 2019. L’emergere dei gilets jaunes solleva importanti interrogativi sulla natura dell’attivismo dei movimenti sociali e sul ruolo degli attori tradizionali, come i sindacati. Sebbene la Francia sia nota per la sua tradizione di manifestazioni e scioperi, i gilets jaunes si distinguono per alcune caratteristiche uniche rispetto ai movimenti anti-establishment precedenti, come ATTAC negli anni ’90, i bonnets rouges nel 2013 o Nuit Debout nel 2016. Il movimento è emerso rapidamente e su scala nazionale senza strutture centralizzate, leadership formale o il sostegno di sindacati, partiti politici o organizzazioni della società civile. Nonostante ciò, ha continuato a crescere nei mesi iniziali, ottenendo importanti concessioni dal governo. Molti rappresentanti dei gilets jaunes che hanno cercato di parlare a nome del movimento o di esprimere preoccupazioni specifiche sono stati accolti con scetticismo, rifiuto e persino minacce di violenza da parte di altri attivisti. Inoltre, molti manifestanti volevano esprimere il loro malcontento verso l’agenda di Macron ma erano riluttanti a impegnarsi nella politica convenzionale, come dimostrato dalla mancata partecipazione coordinata alle elezioni europee del 2019 e a quelle locali del 2020. Questo è in parte dovuto al fatto che il movimento ha attratto sostenitori da tutto lo spettro politico, formando una coalizione eterogenea contraria al governo Macron da diverse prospettive. L’obiettivo del saggio è duplice: in primo luogo, cercare di comprendere come sia emerso questo fenomeno e come sfidi gli elementi chiave della teoria dell’organizzazione dei movimenti sociali. In secondo luogo, vengono esaminate le implicazioni dei gilets jaunes per il movimento operaio francese, dato che sindacati e gilets jaunes condividono obiettivi, tattiche e sostenitori simili. Ad esempio si analizza come gli scioperi organizzati dalla CGT (Confédération Générale du Travail) nel 2018 alla SNCF (Société Nationale des Chemins de Fer Français) abbiano preparato il terreno per i gilets jaunes. Si considera come la struttura più fluida e senza leader dei gilets jaunes abbia permesso la creazione di un movimento efficace ma potenzialmente insostenibile che ha coinvolto un’ampia fascia della società su temi simili a quelli affrontati dai sindacati. La differenza principale tra i due movimenti risiede nella struttura altamente gerarchica e organizzata della CGT, contrapposta alla natura decentralizzata e non gerarchica dei gilets jaunes. Confrontando questi due modelli, ci si chiede se ci siano lezioni che i sindacati francesi possano trarre dai gilets jaunes e viceversa. Il sistema di relazioni industriali in Francia è storicamente caratterizzato da un approccio pluralista, con un significativo intervento dello Stato nelle dinamiche tra datori di lavoro e lavoratori. I sindacati francesi sono spesso percepiti come potenti, soprattutto per la loro capacità di organizzare scioperi e mobilitare i lavoratori. Tuttavia questa forza non deriva dal numero di iscritti, poiché meno dell’8% dei dipendenti in Francia è affiliato a un sindacato, una percentuale che rappresenta un crollo significativo rispetto al 30% registrato negli anni ’50. Dagli anni ’70 i sindacati francesi hanno perso circa due terzi dei loro membri, un declino che li colloca al di sotto di paesi come il Regno Unito, la Germania, la Svezia e persino gli Stati Uniti in termini di tasso di sindacalizzazione. Nel settore privato la situazione è critica, con solo il 5% dei lavoratori iscritti a un sindacato, mentre tra i dipendenti pubblici la percentuale raggiunge il 14%. Tra le principali confederazioni sindacali la CFDT (Confédération Française Démocratique du Travail) è la più grande, con un orientamento riformista e moderato, radicato in una tradizione cristiano-democratica. Segue la CGT, storicamente vicina al Partito Comunista Francese e nota per le sue tattiche più radicali. Infine c’è FO (Force Ouvrière), nata nel 1948 da una scissione della CGT, si è distanziata dalle influenze comuniste mantenendo un profilo indipendente. Queste tre confederazioni rappresentano circa l’80% degli iscritti ai sindacati in Francia. Altre organizzazioni minori includono la CFTC (Confédération Française des Travailleurs Chrétiens), di orientamento cristiano-democratico, e la CFE-CGC (Confédération Française de l’Encadrement – Confédération Générale des Cadres) che rappresenta principalmente dirigenti e quadri aziendali. La CFDT è nota per il suo approccio conciliante verso datori di lavoro e governo diversamente dalla CGT e FO che sono più propense a ricorrere a scioperi e azioni dirette per far valere le proprie rivendicazioni. La CGT è particolarmente forte nei settori tradizionali come le ferrovie e la produzione di energia mentre la CFDT ha una presenza significativa tra gli impiegati d’ufficio. Nonostante il basso tasso di sindacalizzazione, i sindacati francesi mantengono un ruolo rilevante grazie ai poteri statutari garantiti dalla legge. Nei luoghi di lavoro con più di 50 dipendenti i delegati sindacali eletti rappresentano tutti i lavoratori, partecipando ai consigli di fabbrica e ai comitati per la salute e la sicurezza. Questi organismi devono essere consultati regolarmente su una serie di decisioni manageriali, conferendo ai sindacati un ruolo attivo nella gestione delle aziende. Un aspetto unico del sindacalismo francese è la sua indipendenza formale dai partiti politici, sancita dalla Carta di Amiens del 1906, uno dei documenti fondanti del movimento sindacale europeo. Questo principio, promosso dalla CGT, afferma l’autonomia dei sindacati dalle influenze politiche. Nella pratica i legami tra sindacati e partiti non sono del tutto assenti. Come abbiamo già detto, la CGT ha storicamente mantenuto stretti rapporti con il Partito Comunista Francese mentre la CFDT ha relazioni più informali con il Partito Socialista. Nonostante il basso tasso di sindacalizzazione la Francia è uno dei paesi europei con il più alto numero di giorni di sciopero. Tra il 2010 e il 2018 i lavoratori francesi hanno perso in media 120 giorni all’anno ogni mille lavoratori a causa di scioperi, un dato secondo solo a Cipro (289 giorni). Rispetto a economie simili come Germania, Polonia, Spagna e Regno Unito, la Francia si conferma come uno dei paesi con la maggiore propensione allo sciopero. È interessante notare che molti di coloro che partecipano agli scioperi non sono iscritti a un sindacato. Questo fenomeno è in parte spiegato dal fatto che in Francia, come in gran parte d’Europa, i benefici degli accordi collettivi negoziati dai sindacati si estendono a tutti i lavoratori, sindacalizzati e non. Circa il 98% dei dipendenti francesi è coperto da contratti collettivi, il che riduce l’incentivo a iscriversi a un sindacato. Il potere dei sindacati francesi, quindi, non deriva tanto dal numero di iscritti quanto dai poteri statutari e dalla capacità di influenzare le politiche aziendali e nazionali attraverso meccanismi di regolamentazione congiunta. Questo modello ha portato a una progressiva professionalizzazione del sindacalismo, con un ruolo sempre più centrale dei funzionari sindacali e una partecipazione limitata dei membri ordinari. Questa dinamica ha alimentato sentimenti di distanza e alienazione tra i lavoratori che spesso percepiscono le élite sindacali come distanti dalle loro esigenze quotidiane. Negli ultimi anni il potere dei sindacati francesi è stato ulteriormente sfidato dall’agenda di riforme del presidente Emmanuel Macron che ha cercato di ridurre il ruolo dei sindacati nelle dinamiche aziendali e nelle relazioni industriali, introducendo maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e limitando alcuni dei poteri tradizionali dei sindacati. Queste misure hanno incontrato una forte opposizione da parte dei sindacati ma hanno anche evidenziato le difficoltà di un movimento sindacale già in declino nel mantenere la sua influenza in un contesto economico e politico in rapida evoluzione. Tra le principali azioni messe in campo da Macron vi fu l’introduzione di un tetto massimo ai risarcimenti per i licenziamenti ingiustificati, la semplificazione delle procedure di assunzione e licenziamento e la decentralizzazione della contrattazione collettiva, permettendo alle singole aziende di negoziare direttamente con i dipendenti, senza l’intervento dei sindacati. Inoltre, le riforme ridussero il numero degli organismi di rappresentanza dei lavoratori da tre a uno, rendendo più difficile l’azione sindacale. Questo intervento si inseriva in una tendenza più ampia a livello europeo verso la frammentazione della contrattazione collettiva. L’Eliseo giustificò questi cambiamenti sostenendo che il diritto del lavoro francese non fosse più adeguato alle esigenze della globalizzazione, delle nuove tecnologie e della diversificazione settoriale, creando rigidità e ostacoli alla crescita economica. Macron godeva di un’ampia maggioranza parlamentare grazie al suo partito La République En Marche e ai suoi alleati, rendendo improbabile una sconfitta delle riforme in sede legislativa. L’opposizione puntò quindi sulle proteste e sul tentativo di influenzare l’opinione pubblica. Nel 2017 la CGT, FO e i sindacati degli insegnanti organizzarono scioperi e manifestazioni contro le riforme, cercando di coinvolgere altre sigle sindacali. Emersero subito profonde divisioni nel movimento sindacale. La CGT e i suoi alleati rimasero su posizioni intransigenti nella lotta mentre la più grande confederazione sindacale francese, la CFDT, adottò una strategia più moderata, evitando gli scioperi e concentrandosi sulla formazione dei lavoratori per aiutarli ad adattarsi ai cambiamenti. Il primo grande scontro con il governo avvenne alla SNCF, la compagnia ferroviaria statale, dove le riforme revocarono ai nuovi assunti benefici storici, tra cui il diritto a contratti a vita, la possibilità di andare in pensione a 55 anni e il privilegio dei viaggi gratuiti per i familiari. I sindacati temevano che queste misure fossero il preludio a una privatizzazione in stile britannico del servizio ferroviario. Il 22 marzo 2018 le quattro principali sigle sindacali del settore avviarono una serie di scioperi a intermittenza, prolungandoli fino al 28 giugno. Le agitazioni provocarono gravi disagi, con treni cancellati e perdite giornaliere di 21 milioni di euro per la SNCF. CGT e SUD-Rail tentarono di ampliare la protesta includendo altri settori del pubblico impiego e organizzarono manifestazioni a Parigi per difendere i servizi pubblici. Purtroppo la solidarietà dagli altri lavoratori si rivelò fragile. I dipendenti pubblici non aderirono con la stessa intensità e gli studenti, dopo una fase iniziale di mobilitazione, non riuscirono a mantenere attiva la protesta oltre il periodo degli esami estivi. Anche la sinistra politica cercò di rilanciare il movimento. François Ruffin, all’epoca deputato di La France Insoumise (FI), organizzò un evento provocatorio per l’anniversario del primo anno di Macron alla presidenza, attirando 40.000 partecipanti. Il 26 maggio 2018, in un raro momento di unità tra sindacati e partiti politici, 30.000 attivisti di FI, CGT e gruppi contro la violenza della polizia sfilarono a Parigi. Nonostante alcune manifestazioni di successo, gli scioperi alla SNCF si esaurirono tra aprile e novembre 2018. Il conflitto fu economicamente devastante per la SNCF, con perdite superiori al miliardo di euro, ma portò a concessioni parziali. Il governo si impegnò a investire 3,6 miliardi di euro nelle infrastrutture ferroviarie e ad assumersi parte del debito dell’azienda ma i sindacati non riuscirono a impedire le modifiche contrattuali per i nuovi lavoratori. Il 14 giugno 2018 il Senato approvò la riforma con 245 voti favorevoli e 82 contrari, sancendone l’entrata in vigore dal gennaio 2020. L’esperienza della lotta alla SNCF dimostrò che i soli lavoratori ferroviari non potevano fermare il programma di liberalizzazioni di Macron senza un sostegno più ampio da parte di altri settori, sindacati, partiti politici e attivisti. Tuttavia le proteste del 2018 rivelarono la presenza di un malcontento sociale profondo che esplose pochi mesi dopo con il movimento dei gilets jaunes. Come abbiamo già anticipato, esso nasce spontaneamente dal basso e si sviluppa inizialmente attraverso l’utilizzo dei social network. Il 16 gennaio 2018 un muratore di 32 anni creò un gruppo Facebook denominato Colère 24 per protestare contro una serie di misure governative considerate penalizzanti per le fasce a basso reddito che vivevano nelle zone rurali e nelle periferie delle città francesi. Tra le principali rivendicazioni figuravano l’opposizione alla riduzione dei limiti di velocità sulle strade secondarie, l’aumento dei pedaggi autostradali, l’innalzamento del costo della vita e varie misure di austerità e privatizzazione. Il gruppo propose di organizzare manifestazioni il 17 febbraio sulle rotatorie e nei centri cittadini della Nuova Aquitania. La protesta si diffuse rapidamente in altre zone della Francia, dove nacquero gruppi simili con denominazioni analoghe, come Colère 33 in Gironda, Colère 17 nella Charente-Maritime e Colère 19 in Corrèze, che adottarono gli stessi metodi organizzativi e si mobilitarono nella stessa data. Nei servizi televisivi locali iniziarono ad apparire manifestanti che indossavano gilet gialli, alcuni dei quali recavano slogan esplicitamente critici nei confronti del presidente Macron. Sebbene la mobilitazione di Colère 24 fosse circoscritta a un ambito locale e avesse dimensioni limitate, nelle settimane successive un altro gruppo, Les Gilets Jaunes, riprese il simbolo del gilet giallo e lo utilizzò in successive proteste. Il 29 marzo, manifestanti contrari alla costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità vicino a Le Mans indossarono gilet gialli, contribuendo alla diffusione del simbolo come segno distintivo della protesta. A partire da questo momento si delineò uno schema ricorrente: manifestazioni e mobilitazioni coordinate a livello locale, organizzate principalmente attraverso piattaforme online e accomunate da un’ampia gamma di rivendicazioni anti-Macron. Nonostante la mancanza di una struttura centralizzata e di una leadership definita, il movimento iniziò a prendere forma rapidamente e ad assumere una dimensione nazionale. L’elemento scatenante della protesta fu l’aumento del prezzo del carburante. Il 29 maggio 2018, Priscillia Ludoski, che sarebbe diventata una figura di spicco del movimento, lanciò una petizione su Change.org per chiedere una riduzione dei prezzi della benzina, raccogliendo oltre 1,2 milioni di firme. Il 10 ottobre, due camionisti, Eric Drouet e Bruno Lefevre, crearono una pagina Facebook per promuovere un blocco nazionale contro la tassa sui carburanti, invitando a una mobilitazione generale prevista per il 17 novembre. Nei giorni precedenti iniziarono ad esplodere manifestazioni spontanee: il 9 novembre, ad Albert, nel nord della Francia, alcuni manifestanti indossarono gilet gialli, e il giorno successivo scene simili si verificarono a Neubourg, in Normandia. Il 14 novembre Macron confermò che le tasse non sarebbero state ritirate e cercò di delegittimare la protesta sostenendo che fossero oggetto di infiltrazioni da parte di oppositori politici ed estremisti. Parallelamente il primo ministro Édouard Philippe adottò una posizione più dura, dichiarando che chiunque avesse partecipato ai blocchi si sarebbe assunto un rischio. Il 17 novembre ebbe luogo la prima grande mobilitazione, con circa 282.000 manifestanti che occuparono rotatorie, strade e autostrade in tutta la Francia, dando ufficialmente inizio al movimento. Nel giro di poche settimane la pressione esercitata dalle proteste costrinse il governo a fare marcia indietro. All’inizio del dicembre 2018 la tassa sul carburante venne annullata e furono introdotti un aumento del salario minimo e alcuni tagli fiscali, segnando una vittoria significativa per i gilets jaunes. Il successo del movimento in questo ambito sollevò interrogativi sul motivo per cui la loro protesta avesse ottenuto risultati concreti mentre lo sciopero della SNCF, avvenuto nello stesso periodo, non aveva avuto lo stesso esito. La peculiarità del movimento risiedeva nella sua struttura decentralizzata e nell’assenza di un’organizzazione tradizionale. Le manifestazioni si svolgevano senza il supporto di sindacati o partiti politici e senza una leadership centrale, rendendo difficile per il governo individuare interlocutori con cui negoziare. Le forme di mobilitazione comprendevano l’occupazione delle rotatorie, il blocco del traffico e le manifestazioni nei centri cittadini, con variazioni significative tra le diverse località. In alcuni casi venivano costruite strutture temporanee nei pressi delle rotatorie, per garantire una presenza costante e visibile ai passanti, mentre in altre situazioni i blocchi stradali erano più sporadici o intermittenti. La diversità delle strategie adottate portò a numerosi dibattiti interni al movimento, con posizioni spesso discordanti su quale fosse il metodo di lotta più efficace. Le manifestazioni più rilevanti si svolgevano principalmente di sabato, giorno in cui avvenivano i blocchi più massicci e le proteste più visibili, attirando così maggiore attenzione mediatica e politica. Sebbene il numero di partecipanti sia calato progressivamente dopo l’iniziale mobilitazione di 282.000 persone, nel mese di dicembre 2018 si contarono ancora circa 136.000 manifestanti. Dopo un periodo di minore attività a fine anno, il movimento riprese forza a gennaio 2019 con 85.000 partecipanti, per poi registrare un declino graduale nei mesi successivi. Nonostante la concessione del governo a metà dicembre, migliaia di manifestanti continuarono a presidiare le rotatorie e a scendere in strada per protestare settimanalmente, persino durante i mesi invernali. Questo dimostrò la capacità del movimento di mantenere un alto livello di mobilitazione nel tempo, un risultato che i sindacati, in particolare la CGT, non erano riusciti a ottenere durante lo sciopero dell’estate precedente. Questo movimento ha suscitato diverse reazioni da parte loro. Ad esempio il 12 novembre 2018 il segretario generale della CFDT, Laurent Berger, prese ufficialmente posizione contro i blocchi stradali promossi dal movimento. Dichiarò che il suo sindacato non avrebbe sostenuto queste azioni per il rischio di manipolazioni e infiltrazioni politiche da parte dell’estrema destra, riprendendo così un’argomentazione già avanzata dal presidente Macron. Questa presa di posizione rifletteva una diffidenza radicata nei confronti di un movimento che si sviluppava al di fuori delle strutture tradizionali della rappresentanza sindacale e che non sembrava condividere i metodi e le strategie storiche del sindacalismo francese. Nello stesso periodo la CGT pubblicò un memorandum interno in cui esprimeva perplessità riguardo alla protesta. Pur riconoscendo che il movimento nasceva da una rabbia legittima, il sindacato sottolineava che le sue motivazioni profonde restavano oscure e le possibili soluzioni per uscire dalla crisi erano indeterminate, se non addirittura pericolose per gli interessi dei lavoratori. Inoltre il documento avanzava il sospetto che alcuni partiti di estrema destra stessero strumentalizzando la protesta, rafforzando così la narrazione già proposta dal governo. In questo senso, sia la CFDT che la CGT adottarono inizialmente una posizione scettica e distaccata, non riconoscendo il movimento come un interlocutore legittimo e non vedendolo come parte della lotta sindacale tradizionale. Non tutti i sindacati mantennero un atteggiamento di chiusura. Ad esempio FO, nella persona di Yves Veyrier, pur non sostenendo ufficialmente i gilets jaunes adottò un tono più comprensivo. Egli dichiarò che la rabbia espressa dal movimento non era affatto sorprendente e che essa non rappresentava un fallimento dei sindacati, bensì il fallimento delle istituzioni nel dare ascolto alle rivendicazioni sindacali. Veyrier sottolineò inoltre che il suo sindacato aveva da tempo denunciato gli effetti negativi dell’aumento dei prezzi del carburante per i lavoratori e che, di conseguenza, la CFDT e la CGT sbagliavano a considerare il movimento come un’entità estranea alla lotta sociale. Dunque, sin dall’inizio, i sindacati notarono il fenomeno ma lo osservarono con una forte diffidenza, preoccupati per la sua eterogeneità e per la possibilità che venisse cooptato da forze politiche estranee al mondo del lavoro. Nei primi mesi la maggior parte del sindacalismo francese rimase ostile al movimento, non riconoscendolo come un soggetto con cui dialogare, anche perché le mobilitazioni si svolgevano spesso in modo spontaneo e privo di strutture organizzative consolidate. Dall’altro lato, anche i gilets jaunes nutrivano un forte disprezzo nei confronti dei sindacati. Attorno al primo “atto” del 17 novembre 2018, il movimento esprimeva una posizione marcatamente ostile alle organizzazioni sindacali, viste come parte del problema, troppo vicine al potere e ormai incapaci di rappresentare veramente le istanze dei lavoratori. In molti ambienti dei gilets jaunes i sindacati venivano percepiti come burocratici e distanti dalla realtà sociale delle fasce più precarie, incapaci di ottenere risultati concreti per le classi popolari. Nel corso del 2019, con il proseguire delle mobilitazioni e l’ottenimento di concessioni significative da parte del governo, si verificò un graduale cambiamento. A novembre 2019, durante un incontro nazionale degli attivisti dei gilets jaunes, denominato “assemblea delle assemblee”, il movimento approvò una risoluzione in cui invitava i propri aderenti a partecipare a uno sciopero generale indetto per il 5 dicembre. Questo segnò un primo tentativo di avvicinamento tra i gilets jaunes e il mondo sindacale, dopo un anno di sostanziale ostilità reciproca. Da quel momento si aprì una nuova fase di proteste: dal 5 dicembre 2019 fino all’inizio della pandemia di COVID-19, una serie di grandi scioperi paralizzò la Francia, con i sindacati impegnati in battaglie per il costo della vita, i salari, la disoccupazione e la precarietà. Queste rivendicazioni si sovrapponevano in parte a quelle sollevate dai gilets jaunes creando un terreno di convergenza. Durante le proteste di dicembre la CGT si fece notare per la sua presenza nei cortei dei gilets jaunes a Parigi e Tolosa, con una partecipazione significativa da parte dei ferrovieri, molti dei quali avevano già preso parte allo sciopero della SNCF del 2018. Nonostante questa convergenza, i due movimenti non si fusero completamente, rimanendo distinti nei metodi e negli obiettivi. Tuttavia il cambiamento di atteggiamento da parte del sindacato fu evidente. Il segretario confederale della CGT, Fabrice Angéï, riconobbe che il movimento dei gilets jaunes non era nato dal nulla ma era stato in qualche modo alimentato dalle lotte sindacali precedenti, ammettendo così che le rivendicazioni del movimento avevano radici comuni con quelle dei lavoratori organizzati. A questo punto, utilizzando ancora il saggio di Colfer e Bazin, proviamo a fare un bilancio delle novità introdotte dai gilets jaunes. Questo movimento si distingue per almeno tre caratteristiche fondamentali. In primo luogo opera senza leader o rappresentanti riconosciuti, con un potere decentralizzato e distribuito tra i partecipanti. In secondo luogo non è allineato con alcuna organizzazione politica tradizionale e attinge sostegno da tutto lo spettro politico. Infine manca di una struttura di coordinamento coerente e si sviluppa attraverso una serie di eventi e iniziative decentralizzati. Nonostante queste peculiarità, il movimento ha ottenuto più di quanto abbiano fatto i sindacati o i movimenti dei dieci anni precedenti, superando le aspettative di molti politici e commentatori. Toni Negri interpreta il movimento dei gilets jaunes come un’esperienza di contropotere che, pur nella sua frammentazione e nella sua spontaneità, pone le basi per una nuova forma di organizzazione politica e sociale. Nel libro collettivo Gilets Jaunes sostiene che il movimento non si è limitato a una protesta contro il governo Macron perché esprime una crisi più profonda dell’intermediazione tra Stato e società, rivelando la rottura delle lealtà costituzionali tradizionali. I gilets jaunes non si limitano a dire “no” ponendo anche la questione di un “altro potere”, una forma di sovranità non centralizzata, capace di articolarsi attraverso le singolarità e la moltitudine senza riproporre il modello dello Stato sovrano. Il movimento si inserisce in una genealogia di lotte che dal 2011 hanno contestato il neoliberismo, come Occupy e il 15M spagnolo, ma con una portata più ampia e articolata. Negri evidenzia come i gilets jaunes abbiano messo in crisi il modello neoliberale, svelando la precarietà come condizione egemonica del lavoro e la valorizzazione del lavoro sul piano sociale. Di conseguenza il movimento si distingue per la sua capacità di rivelare il processo di ricomposizione della classe lavoratrice e di sperimentare nuove forme di lotta. Il governo francese ha risposto con la repressione e, in assenza di un’intermediazione politica, l’unico rapporto tra lo Stato e i gilets jaunes non poteva che essere quello poliziesco. Per Negri la politica dovrà necessariamente riorganizzarsi per raccogliere l’eredità di questa mobilitazione. Il movimento dei gilets jaunes, infatti, ha costretto anche la sinistra a ripensare le forme della lotta e dell’organizzazione, aprendo nuove prospettive per una politica radicale anticapitalista. Questo mutamento ha delle ripercussioni anche nel sindacato che deve riadattarsi colmando le lacune dei movimenti grazie alle sue strutture. Di questo parlano nel dettaglio Toni Negri e Michael Hardt in Assemblea.

4. Ripensare il sindacato

Il sindacato di strada della CGIL, la vertenza dell’ex GKN e la forza degli scioperi e delle manifestazioni dei gilets jaunes ci parlano della necessità del sindacato di muoversi fuori dai luoghi di lavoro abituali. Questo movimento obbligato viene spiegato in Assemblea dalla presenza di processi produttivi che avvengono in misura sempre maggiore dentro delle reti cooperative non imposte dall’alto tramite gerarchie aziendali o strutture autoritarie ma nate dal basso, grazie alle relazioni sociali tra gli stessi produttori. I risultati di queste produzioni non si esauriscono nella produzione di una merce perché esse producono relazioni sociali e di conseguenza riproducono la stessa vita umana. La produzione contemporanea è di conseguenza biopolitica e strettamente legata al concetto di comune. Per Negri e Hardt ormai la proprietà privata, storicamente alla base dell’organizzazione capitalisitca della produzione, è un ostacolo alla produttività sociale perché blocca le reti di cooperazione che la rendono possibile e le loro relazioni sociali. Non bisogna però dimenticare come il passaggio da produzione sociale a comune non sia qualcosa di automatico e inevitabile. Questo ci riconduce al tema di questo saggio perché abbiamo bisogno di azioni consapevoli e organizzate in cui il sindacato può giocare la sua partita a patto che si adatti alle trasformazioni della produzione spostandosi sul terreno della produzione e della riproduzione sociale dove prende forma l’imprenditorialità della moltitudine. Negri e Hardt spingono per nuove alleanze tra sindacati e movimenti sociali che sappiamo dare vita al sindacato sociale. In questo modo sarà possibile superare le pratiche conservatrici dei sindacati garantendo, allo stesso tempo, stabilità ed efficacia ai movimenti sociali tramite la struttura organizzativa del sindacato. Il sindacalismo sociale, inoltre, sovverte il tradizionale rapporto tra lotte economiche e lotte politiche che nella concezione classica venivano considerate due ambiti distinti, con le prime relegate a un ruolo tattico e le seconde a una dimensione strategica, generalmente guidata da un partito politico. Nell’ambito del sindacalismo sociale questa distinzione si dissolve visto che le lotte economiche non si rapportano più a un potere costituito ma a un potere costituente e non si organizzano sotto la guida di un partito perché si intrecciano con il movimento sociale stesso. Questa dinamica consente ai movimenti sociali di usufruire delle strutture organizzative sindacali, estendendo il loro raggio d’azione e garantendo maggiore stabilità alle lotte dei lavoratori precari, dei disoccupati e delle fasce più deboli della popolazione. Allo stesso tempo, permette ai sindacati di ampliare la propria sfera di intervento, superando la tradizionale focalizzazione sulla questione salariale e sul luogo di lavoro per includere l’intero ambito della vita della classe lavoratrice. Esperienze storiche di sindacalismo sociale si possono ritrovare nell’alleanza anti-apartheid in Sud Africa, dove nel 1990 il congresso dei sindacati sudafricani entrò in un’alleanza tripartita con l’African National Congress e il Partito Comunista Sudafricano. In altri contesti vi sono stati esempi come l’alleanza tra Reclaim the Streets e i portuali licenziati di Liverpool nel 1997, la collaborazione tra ambientalisti e sindacati nelle proteste contro la World Trade Organization del 1999 a Seattle e le sperimentazioni di sindacalismo sociale condotte da organizzazioni italiane come la FIOM CGIL. Oggi questi esperimenti devono compiere una svolta ulteriore perché non si tratta più soltanto di costruire alleanze tra soggetti separati ma di riconoscere la produzione sociale e il comune come terreno comune di lotta. La metropoli diventa quindi un’enorme fabbrica della produzione e riproduzione sociale, uno spazio prodotto collettivamente che funge da mezzo per ulteriori forme di cooperazione. Il comune si configura così come la base stessa della produzione e della riproduzione sociale, trasformandosi in un concetto chiave per comprendere la società contemporanea. In questo scenario per Hardt e Negri l’arma principale del sindacalismo sociale è lo sciopero sociale che non si limita al rifiuto del lavoro ma assume una dimensione più ampia. Se in passato la forza dello sciopero risiedeva nella sua capacità di interrompere la produzione capitalistica tramite il rifiuto del lavoro, oggi il suo potenziale si estende all’intero ordine sociale, dal momento che la produzione è sempre più diffusa e basata sulla cooperazione sociale. Tutti coloro che partecipano alla riproduzione sociale possono esercitare una forma di rifiuto e di interruzione del sistema, anche i soggetti tradizionalmente esclusi dalle lotte sindacali, come i precari, i disoccupati o i lavoratori del settore informale. Lo sciopero sociale è sia rifiuto che affermazione grazie alla sua capacità di mettere in luce le reti di cooperazione sociale esistenti e le possibilità di autonomia dalla logica del capitale. Allora il comune diventa il punto di convergenza tra la produzione sociale e la lotta politica, aprendo la strada a nuove forme di organizzazione e di trasformazione sociale.