La vendetta del welfare

di A. Fumagalli

Pubblicato in origine il 16/03/2020 su Effimera

Le ultime disposizioni del governo in materia di Coronavirus hanno ulteriormente ristretto diverse attività economiche e, soprattutto, sociali. È la cooperazione sociale che viene infatti intaccata, per favorire ulteriormente forme monadiche di auto- sfruttamento e di individualismo. Certamente la situazione presenta elementi di emergenzialità. Questa banale considerazione non ci deve chiudere gli occhi sulle possibili strumentalizzazioni al fine di incrementare i già esistenti processi di controllo e governance della popolazione. C’è modo e modo, infatti. Un conto è comunicare alcune regole di buon senso per evitare la diffusione del contagio (evitare assembramenti, lavarsi le mani, stare a un metro di distanza, insomma cautelarsi, avere cura di se stessi e degli altri), altro conto è mettere in atto imposizioni che creano allarmismo e panico. Quale più ghiotta occasione per insinuare e sperimentare le più sofisticare forme di controllo sociale su vasta scala? La novità sta nel fatto che sinora tali forme sono state fatte su scala minore.

L’emergenza del Coronavirus pone, tuttavia, una serie di importanti questioni di altra natura, di carattere sociale ed economico e, paradossalmente, può rappresentare un’opportunità.

Sanità

Secondo l’oramai noto rapporto Osservatorio GIMBE n. 7/2019, dal significativo titolo: “Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale”, il finanziamento pubblico è stato decurtato, in termini reali, di € 37 miliardi, di cui circa € 25 miliardi nel periodo 2010-, per tagli conseguenti a varie manovre finanziarie, ed oltre € 12 miliardi nel periodo 2015-2019, quando alla sanità sono state destinate meno risorse di quelle programmate per esigenze di finanza pubblica.

Il dato più diffuso da buona parte della stampa nazionale è che in  10 anni il finanziamento pubblico sia, invece, aumentato di € 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo. Come è possibile, se sono stati decurtati nel medesimo periodo, ben 37 miliardi? La risposta è semplice:  ci si dimentica di dire che si tratta di una crescita in termini nominali, ad un tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,1%). Il che significa che, in termini di potere d’acquisto, le risorse sono in realtà, appunto, diminuite.

Inoltre, il Def 2019 ha ridotto progressivamente il rapporto spesa sanitaria/PIL dal 6,6% nel 2019-2020 al 6,5% nel 2021 e al 6,4% nel 2022 e il tanto sbandierato aumento del fabbisogno sanitario nazionale per gli anni 2020 (+€ 2 miliardi) e 2021 (+€ 1,5 miliardi) è subordinato alla stipula tra Governo e Regioni del Patto per la Salute 2019-2021, tuttora al palo.

Tale situazione, secondo i dati OCSE aggiornati al luglio 2019 , pone l’Italia sotto la media Ocse, sia per la spesa sanitaria totale pro capite ($3.428 vs $ 3.980), sia per quella pubblica pro-capite ($ 2.545 vs $3.038), precedendo solo i paesi dell’Europa orientale oltre a Spagna, Portogallo e Grecia. Nel periodo 2009-2018 l’incremento percentuale della spesa sanitaria pubblica si è attestato al 10%, rispetto a una media OCSE del 37%.

Tra i paesi del G7 le differenze assolute sulla spesa pubblica sono ormai incolmabili: ad esempio, se nel 2009 la Germania investiva, pro capite,  “solo” $ 1.167 (+50,6%) in più dell’Italia ($ 3.473 vs $ 2.306), nel 2018 la differenza è di $ 2.511 (+97,7%), ovvero $ 5.056 vs $ 2.545. Una differenza che nella realtà risulta ancora maggiore se si considera che la quota di persone anziane (quelle che più necessitano di cure sanitarie) è in Italia maggiore.

Infine, secondo lo studio Anao-Assomed  del 4 febbraio 2020, il numero degli istituti di cura è passato da 1.165 (2010) ai 1.000 del 2017 (-14%) e il numero dei posti letto da 245.000 (2010) ai circa 210.000 del 2017. A tutto questo, dobbiamo aggiungere l’effetto devastante del blocco del turnover sull’organico del SSN, sul numero di medici e infermieri, a fronte di un invecchiamento della popolazione che richiederebbe invece nuove assunzioni: l’ISTAT ha stimato che il gap occupazionale con l’UE (15) ammonta a quasi 1,5 milioni di addetti nel settore della sanità e dell’assistenza sociale.

A tale calo del finanziamento pubblico ha fatto riscontro l’aumento del sostegno alla spesa sanitaria privata, soprattutto nelle regioni del Nord. In Lombardia su un totale di spesa sanitaria complessiva di 22,5 miliardi di euro, ben 7 miliardi vanno alla sanità privata (31,1%). I posti letto dei nosocomi privati rappresentano circa il 22% del totale. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca l’Emilia-Romagna. Il peso della sanità privata in Veneto risulta invece inferiore (i posti letto privati sono di poco superiori all’8%).

È necessario ricordare che la sanità privata (con alcune eccezioni) offre i servizi che rendono maggiori profitti. Degenze lunghe che richiedono particolari macchinari come le terapie intensive (non solo per il Coronavirus ma anche per altre patologie) sono poco profittevoli per gli elevati costi fissi e quindi poco presenti. Ne consegue che quasi tutte le cure “importanti” e “vitali”, in quanto più dispendiose, sono a carico della sanità pubblica. E’ in questa luce che deve essere letta la carenza relativa dei letti di terapia intensiva nelle ragioni del Nord a maggior contagio, come ben spiegato da  Andrea Capocci.

L’emergenza virus ha così sortito un effetto positivo: far comprendere come la sanità pubblica sia importante e come sia necessario nei prossimi anni recuperare quei 37 miliardi che negli ultimi 10 anni sono stati sottratti e ridurre i finanziamenti al business della sanità privata. Non è un caso che sia in Lombardia il polo di sanità privata più grande d’Europa: si tratta del  Gruppo Ospedaliero San Donato (GSD) composto dall’Istituto San Raffaele, da  un centro diagnostico e da 18 ospedali (di cui 3 IRCCS)  situati in Lombardia e uno in Emilia Romagna a Bologna. Solo ora, anche alla luce dei nuovi finanziamenti messi a disposizione dai decreti governativi e da donazioni private, il San Raffaele annuncia che adibirà un nuovo reparto alla terapia intensiva.

Reddito e lavoro

Con il blocco di parte delle attività economiche e con l’invito di rimanere a casa (“non sapete come è bello stare sul divano di casa” declama Fiorello), si registra la riscossa dei supposti “fannulloni” o anche “divanisti”. I politici che più si sono spesi contro il reddito di cittadinanza in nome dell’etica del lavoro a ogni costo e contro il lassismo sono ora quelli che invocano le misure più restrittive. E chiedono a gran voce sussidi al reddito per le imprese e per il business.

Per i lavorator* e i precar*? Poco più che briciole. Per il lavoro dipendente subordinato a tempo indeterminato, si auspica il ricorso forzato alle ferie o il lavoro “agile”, i cui costi ricadono anche su di loro. Per i grandi stabilimenti, al limite il sindacato chiede il ricorso alla casa integrazione straordinaria, quindi a carico dei contributi sociali (pagati anche dagli stessi lavoratori). Per chi subisce rovesci finanziari in seguito al forte calo delle borse, si auspica un drastico intervento della Bce finalizzato a iniettare elevati ammontare di liquidità per compensare le banche, le assicurazioni, le Sim (Società di Intermediazione Mobiliare) dalle perdite subite. Per chi ha attività commerciali e/o imprenditoriali, il calo dei profitti e del fatturato richiede un immediato aiuto economico.

Per i precari e i lavoratori autonomi a partita Iva, etero-diretti, parasubordinati, ecc., invece, si prospetta un drastico calo di reddito. Tutti coloro che hanno contratti a somministrazione e tuti coloro che sono pagati ad ore, hanno contratti a tempo con obbligo di scadenza vedranno diminuire in modo significativo il proprio reddito (dagli operatori sociali, ai magazzinieri, agli operatori in subfornitura, ai dipendenti interinali, …). Molti contratti a tempo determinato rischiano di non essere rinnovati. E spesso, tali figure non possono godere degli ammortizzatori sociali. Al momento in cui scriviamo, le parti sociali hanno raggiunto l’accordo sul garantire la sicurezza sanitaria per chi lavora. Ma la sicurezza sociale è ancora lungi dal venire. Al limite si parla di un generico ricorso alla casa integrazione per i/le lavorator* subordinat* (tutt*?) e briciole di indennizzo per i lavoratori autonomi [1].

Salvini giustifica la richiesta di blocco totale (al netto dei servizi essenziali) per non creare lavoratori di serie A (quelli che possono stare a casa) e di serie B (costretti a lavorare). Ancora una volta non capisce (e non ce ne stupiamo) che la vera divisione è tra chi sarà in grado di mantenere un reddito e chi no. La questione è infatti non tra lavoro e non lavoro (anche perché tutti noi, sia che lavoriamo o non lavoriamo, siamo comunque inseriti, volenti o nolenti, in un processo di valorizzazione del capitale) ma tra chi ha reddito e chi no.

Ne consegue che l’unica misura è l’estensione di un reddito di base incondizionato, a partire da chi si trova in una situazione economica più difficile per poi estenderlo gradualmente. Non si tratta di chiedere un “reddito da quarantena” (che è comunque meglio di niente), che è comunque temporaneo (una tantum) Né si tratta di elargire un reddito minimo universale pari al costo della sopravvivenza materiale (secondo l’Istat pari a 751 euro mensili), con l’intento di salvaguardare i patrimoni degli italiani (colpiti dai tracolli finanziari e dalla riduzione dell’attività economica) come strumento temporaneo della durata di un trimestre. Una misura di tal genere avrebbe un costo di 19,2 miliardi al mese, cioè 57,5 miliardi per il trimestre: una cifra esorbitante che potrebbe essere finanziata interrompendo le normali voci di spesa del governo. “Detto altrimenti sarebbero tagliati anche i costi dei dipendenti pubblici (cioè 28,9 miliardi nel trimestre), le pensioni (altri 49,1 miliardi di risparmi) e il reddito di cittadinanza (1,8 miliardi), per un totale di 79,8 miliardi di euro”. Secondo tale proposta di un ricercatore dell’Università Bocconi e ripresa dalla stampa, “vorrebbe dire congelare l’economia. Farsi un lungo weekend generale della durata di tre mesi. Sarebbe come spostare le ferie di agosto in primavera, salvaguardando il patrimonio economico italiano per avere liquidità, solidità e fiato per gli investimenti che serviranno quando in tarda estate bisognerà ripartire”.

Sarebbero quindi i dipendenti pubblici e i pensionati a finanziare questa proposta, sacrificandosi a ricevere solo 751 euro al mese (per molti, un reddito sicuramente inferiore a quello normalmente percepito) al fine di garantire il sostegno all’economia privata. Ecco un bell’esempio di socializzazione delle perdite a vantaggio dei profitti privati.

Una vera riforma del welfare

Crediamo sia necessario, invece, procedere in una direzione opposta, rovesciando il punto di vista dominante attuale, limitato alla sola emergenza e quindi temporaneo. La riforma strutturale del welfare pubblico rappresenta oggi il miglior vaccino al contagio, sia dal punto di vista della sostenibilità sociale che da quello del rilancio economico. La sostenibilità e la sicurezza sociale vanno di pari passo con il contenimento dell’epidemia, al di là dei provvedimenti restrittivi che sono stati adottati. Garantire un reddito incondizionato a partire dai soggetti più deboli, pover*, migrant*, precar*, oltre a permettere di avere le risorse necessarie per fronteggiare la situazione di emergenza, ha anche lo scopo di favorire una maggior equità nella distribuzione del reddito con l’effetto di aumentare il moltiplicatore del reddito e sostenere la domanda interna, quella che è stata maggiormente penalizzata dalle politiche di austerity. Inoltre, dal momento che il welfare è oggi un modo di produzione e componente sempre più essenziale nel sistema di accumulazione capitalistica, una ripresa degli investimenti pubblici nei due settori che hanno maggiormente subito i tagli delle privatizzazioni (sanità e istruzione) può rappresentare la chiave di volta per un rilancio economico che privilega il bene comune come perno dell’organizzazione sociale.

Il governo ha la possibilità di utilizzare 25 miliardi di euro, grazie alla maggior flessibilità concessa dalla Commissione Europea. A tale somma, si possono aggiungere altri 15 miliardi, sulla base dei risparmi del settore pubblico relativi alla spesa militare, ad alcune spese in infrastrutture e il recupero di risorse grazie a un oculato intervento fiscale in favore di una maggior progressività e l’introduzione dell’imposizione sui profitti delle grandi corporation (web tax) e a salvaguardia dell’ambiente (plastic e carbon tax).

Riteniamo che una somma di 40 miliardi di Euro, se, una volta indennizzati coloro che hanno più subito perdite dalle misure restrittive (attività commerciali al dettaglio, ecc.), viene in buona parte devoluta a misure di reddito incondizionato e a sostegno di investimenti strutturali (e non una tantum) nei servizi pubblici base, a partire dal potenziamento della sanità, possa essere per il 2020 più che sufficiente. In tal proposito, già sono state avanzate in un appello firmato da 157 economisti e economiste alcune proposte importanti da attuare su un piano europeo, relativamente al finanziamento immediato dei sistemi sanitari dell’Unione europea per l’aumento del personale sanitario e dei posti letto degli ospedali, per le spese riguardanti i test clinici e per le attrezzature per la protezione del personale sanitario, sussidi e apertura di linee di credito alle imprese che devono sospendere temporaneamente l’attività a causa della messa in quarantena del personale o della caduta della domanda da parte dei consumatori., assistenza ai minori nel caso di ricovero di entrambi i genitori e agli anziani non auto-sufficienti nel caso di ricovero delle persone che li assistono, un finanziamento straordinario del sistema scolastico per l’acquisto di apparecchiature che consentano la didattica a distanza. Si tratta, in ultima analisi, di realizzare un grande piano d’investimenti, relativo a infrastrutture sociali e ambiente, che rilanci l’economia europea già fortemente colpita dalla crisi finanziaria e ora  messa in ginocchio dalla crisi sanitaria.

E qui che si gioca la vera partita contro il Coronavirus.

Corollario # 1

È interessante notare come il Coronavirus abbia evidenziato una carenza infrastrutturale nel grado di connettività dell’Italia. Nel momento stesso i cui si verifica, a causa del lavoro da casa, delle lezioni scolastiche e universitarie via streaming, l’incremento di incontri in teleconferenza, ecc., un sovraccarico sulle reti informatiche, il sistema si trova sull’orlo di una crisi di nervi, al limite del collasso (come è successo per alcune aree e per alcuni gestori). Come è noto, a seguito della totale privatizzazione del settore delle telecomunicazioni a partire dagli anni ’90, la rete in Italia viene gestita da un oligopolio di poche multinazionali (Tim, Vodafone, Tre-Wind, Fastweb, e poche altre), con posizioni di rendita ed elevati profitti. Ne consegue che il diritto alla rete, oltre a essere costoso, non viene neanche garantito, evidenziando che anche in Italia esiste e persiste una sorta di “digital divide”.

L’accesso alla rete, come bene comune, dovrebbe essere un diritto sociale e non gestito e organizzato da imprese private, che oltre a godere dei profitti derivanti dall’attività, hanno anche un indiretto guadagno dalla possibilità di accedere a una serie di dati personali da utilizzare all’interno dell’industria dei big data.

Si tratta di un altro tassello di quella riforma del welfare che auspichiamo, per la costruzione di quel welfare del comune (commonfare), di cui più volte abbiamo parlato sulle pagine di Effimera

Come ricorda Mario Pianta, “l’intervento pubblico, …, non si deve limitare alla fornitura dei servizi di welfare. Deve indirizzare le traiettorie di sviluppo dell’economia e dei mercati, assicurando la coerenza tra comportamenti delle imprese e gli obiettivi sanitari, sociali e ambientali”.   Al riguarda voglio ricordare la proposta di (quasi) nazionalizzazione dell’industria farmaceutica fatta recentemente da Mariana Mazzucato e da Henry Lishi Li.

Corollario #2

L’emergenza creata dal Coronavirus può essere anche uno stimolo per ripensare una nuova idea di Europa, non più governata dalla tecno-burocrazia del Washington Consensus e dagli interessi dei potentati economici e finanziari ma pensata come spazio pubblico sociale aperto e democratico.

Uno degli aspetti positivi del Coronavirus è mettere in evidenza come le politiche sovraniste siano del tutto ridicole e soprattutto inutili e di come sia necessaria l’esigenza di un coordinamento tra gli stati Europei. Faccio riferimento, tra gli altri, a due aspetti. Il primo riguarda la necessità di attuare una politica fiscale comune europea, soprattutto con riferimento a una gestione comune della crisi, in vista del fatto che quando  la congiuntura economica verrà intaccata negativamente dagli effetti dell’epidemia (contrazione del commercio globale e quindi dell’export, riduzione della domanda interna, ricadute sul mercato del lavoro con aumento della precarietà e della disoccupazione, ecc., ecc.) diverrà impellente avviare una politica espansiva anche sul piano degli stimoli fiscali e di incremento della spesa pubblica europea. Il secondo aspetto, strettamente dipendente dal primo, è l’esigenza di imbastire una politica europeo antivirus, come sostenuto da alcuni economisti italiani (Realfonzo, Brancaccio, Gallegati e Stirati) sul Financial Times,  al fine di sviluppare uno sforzo coordinato tra i paesi, con finanziamento centralizzato e collaborazione tra politiche fiscali e monetarie.

Ma, al momento attuale, tale prospettiva non sembra incontrare i favori dei poteri forti europei. Le dichiarazioni della nuova governatrice Bce, Christine Lagarde (“non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per gestire quelle questioni”) alludono ad un cambio di rotta nella gestione della politica monetaria europea rispetto all’era Draghi e al suo impegno “whatever it takes”  (“costi quel che costi”) per difendere gli stati europei dagli attacchi speculativi. Neanche 5 minuti dopo la dichiarazione di Lagarde, lo spread tra Bot italiani e Bund tedeschi si è impennato del 25% in poche ore, passando da 202 punti a oltre 250, con grande felicità degli speculatori.

Nonostante la retromarcia del giorno dopo, i fatti sembrano confermare il ritorno a una politica monetaria fedele al credo (oramai decotto) neoliberista, quella basata sull’idea che sono le politiche fiscali nazionali e i singoli governi, in quanto responsabili della propria situazione debitoria, a dover prendere i provvedimenti necessari per ridurre tale situazione e quindi abbassare lo spread (in altre parole, adottare politiche di austerity!). L’espansione monetaria infatti, sarà di 120 miliardi di euro da qui a fine 2020, ovvero poco meno di 15 miliardi al mese e la messa a disposizione di liquidità immediata per 27 miliardi (25 miliardi è la richiesta fatta dalla sola Italia!). Se ricordiamo che quando Draghi comincio la politica di Quantitative Easing, in una situazione meno emergenziale di quella di oggi, le iniezioni di liquidità mensili erano più del doppio, che solo nel giovedì nero del 12 marzo sono stati bruciati in un solo giorno più di 800 miliardi di Euro, che la Federal Reserve ha programmato di mettere a disposizione 1500 miliardi di dollari, i 120 miliardi di euro in 6 mesi non sembrano proprio risolutivi.

NOTE

[1] Le proposte al vaglio del CdM, secondo quanto riportato dai giornali, alludono alla Cassa integrazione in deroga allargata a tutti i settori mentre agli autonomi sarà riconosciuta una indennità una tantum di 600 euro per il mese di marzo. A ciò segue il rinvio delle scadenze fiscali. L’una tantum di 600 euro per il solo mese di marzo sa proprio di mancetta mentre non è chiaro a chi spetta la Cassa integrazione. Se, come sembra, spetta solo a chi ne avrebbe diritto, tutto il mondo del precariato ne è escluso.