La Federazione contro i signori dei dati

di F. Sganga

The centralization of the Internet began with its commercialization”  Vince Tabora, Hackermoon.com

Re-Decentralizzare, ossia fare in modo che il sistema non abbia più bisogno di trattenere i nostri dati per fornire servizi”

Edward Snowden, intervista a Repubblica 13 settembre 2019

La Rete che non è più una rete

Da qualche anno è comune leggere analisi in cui si sostiene che il potenziale liberatorio di Internet si è esaurito e che ora abbiamo di fronte una rete colonizzata dalle grandi piattaforme commerciali e divisa in “giardini recintati” che offrono servizi per qualsiasi esigenza al prezzo però di profilazione e standardizzazione dei comportamenti permessi ai nostri avatar digitali. Quello che fino a non molto tempo fa era un dibattito confinato a siti specializzati o alla sezione “Scienza&Tecnologia” dei grandi quotidiani è ormai arrivato nei telegiornali della sera e nelle prime pagine dei giornali. Come spesso succede, l’esplosione di un tema non sempre porta a un approfondimento ed ecco allora i pensosi editoriali sugli adolescenti che non si staccano da Instagram, l’indignazione per le fake news diffuse sui social e le stentoree richieste di un maggiore controllo in generale.

In mezzo a tutto questo rumore, è comunque possibile distinguere le voci di chi ragiona sulle reti in modo non superficiale e cerca di capire quali sono le dinamiche di potere (economico, politico, simbolico) che costituiscono l’Internet reale. E traspare un certo sconforto: se negli anni ‘90 si parlava di un cyberspazio attraversabile dai movimenti sociali e in cui delle competenze raffinate potevano sostituire i grandi mezzi caratteristici delle economie di scala fordiste, ormai abbiamo di fronte un mondo di venture-capitalism, estrazione di valore dallo sviluppo Open Source e aziende specializzate nella propaganda su misura; un mondo in cui rimangono ben poche alternative a chi voglia abolire lo stato di cose eccetera: le prospettive sembrano oscillare fra il romanticismo offline (felice espressione di Geert Lovink) e l’uso politico delle piattaforme esistenti, con alcuni autori che teorizzano anche una loro nazionalizzazione. La matrice sembra aver definitivamente preso il posto del rizoma.

Queste critiche, che hanno il merito di decostruire il tecno-ottimismo incantato dalle sempre nuove funzionalità messe a disposizione dalle aziende della Silicon Valley, allo stesso tempo lasciano parzialmente insoddisfatti per un certo tono nostalgico che sembra pervaderle: quando c’era più consapevolezza, quando c’erano più hacker e meno utenti, quando c’era la classe operaia-il Partito-lo Stato che gestiva le infrastrutture…In questo articolo vorrei presentare invece una prospettiva forse minore ma che ha il pregio di mettere al centro la potenza della cooperazione sociale e non le sue presunte debolezze o mancanze.

A dispetto delle passioni tristi che sembrano dominare la Rete in questi anni post-crisi (ma forse si dovrebbe risalire fino all’esplosione delle dot-com del 2001) la talpa ha infatti continuato a scavare e ha prodotto alcuni dei progetti di uso sociale delle tecnologie più interessanti dai tempi di Indymedia. Si tratta di un insieme di servizi, applicazioni e piattaforme che hanno lo scopo di decentralizzare l’internet garantendo allo stesso tempo un alto livello di interoperabilità. Un attimo, è una cosa da nerd comprensibile solo agli iniziati? In breve: no. Nelle prossime righe cercherò di spiegare cos’è il Fediverso, come funziona e perché è una buona idea.

Come funziona un servizio commerciale?

Per prima cosa partiamo da quello che tutti noi facciamo quando ci svegliamo, accendiamo lo smartphone e andiamo a vedere le notifiche arrivate durante la notte. Ogni volta che vogliamo leggere un post su un social network commerciale ci colleghiamo con il server di proprietà del social stesso, il quale ci trasmette i dati e contemporaneamente raccoglie quante più informazioni possibile sul nostro comportamento (in realtà questo può avvenire anche senza connettersi a quella pagina, ma per ora questo aspetto non ci interessa) che rivenderà poi a terze parti. Questo è il modo in cui i social network (ma anche i grandi provider di posta, i servizi di messaggistica più diffusi o quel famoso motore di ricerca) funzionano; e non potrebbero funzionare altrimenti: i costi di un’infrastruttura che deve gestire miliardi di utenti non possono certo essere coperti con le donazioni per cui se è gratis il prodotto non puoi che essere tu. La centralizzazione garantisce che per accedere alle informazioni che ci interessano passiamo proprio per quel server, che potrà quindi raccogliere i nostri dati: in poche parole “nel cloud vuol dire nel computer di qualcun altro”.

Il primo commento di molti sarà: ma in fondo lo so e mi va bene così. A me piace stare sui social. Mi permettono di sapere cosa c’è in giro, chiacchierare con gli amici, tenermi informato, distrarmi dalla noia al lavoro, flirtare con chi mi piace… se usano i dati per un po’ di pubblicità non importa. Per non parlare poi di come sono utili tutte quelle applicazioni per scrivere documenti, condividere file, chattare o semplicemente vedere dei video.

Ora, a parte che dopo il caso Cambridge Analytica questo discorso dovrebbe risultare molto meno sostenibile, la buona notizia è che lo scopo del fediverso è esattamente quello di costruire un’infrastruttura che permetta di fare ciò che si fa con i servizi commerciali (ok, non esattamente le stesse cose ma con l’idea di rispondere ad alcune esigenze che al momento vengono soddisfatte usando quei servizi) ma senza la centralizzazione e la profilazione degli utenti.

Come funziona il Fediverso?

Il fediverso si basa sul principio della decentralizzazione e dell’interoperabilità fra servizi diversi. Abbiamo diverse piattaforme (circa 40, secondo il collettivo Bida), ognuna costituita di diversi nodi indipendenti che però condividono uno stesso sistema di comunicazione e possono quindi parlarsi senza bisogno di una gestione centralizzata.

Con il mio account Mastodon (un servizio di microblogging simile a Twitter) posso seguire e interagire con persone che hanno invece preferito iscriversi a un nodo Friendica (che permette messaggi lunghi e gruppi), condividere un video mandato su peertube o commentare un post di un blog in cui sia stato installato il plugin corretto. Per insultare l’autore di questo articolo non dovrete fare un’account friendica apposito, basterà menzionarlo da un qualsiasi punto del fediverso includendo anche il nome del server, come siamo abituati a fare quando mandiamo un’email: “@filosganga@rizomatica.org sceeeeemo sceeeeemo sceeeeeemo”. Quello che ho descritto ora (un unico account per molti usi) è uno dei modi di frequentare il fediverso, ma c’è anche chi fa l’opposto e apre diversi profili a seconda del luogo in cui si trova: dato che molte istanze Mastodon sono a base tematica o hanno policy differenti c’è chi preferisce tenere divisi i propri account per non andare offtopic o semplicemente per giocare con le proprie identità online.

La base software del fediverso è ActivityPub, un protocollo sviluppato dal W3C che permette a servizi diversi di scambiarsi informazioni in un formato comune. È stato definito l’SMTP del social networking e mi sembra una definizione calzante. Vi sono anche altri protocolli che sono supportati da questa o quella piattaforma ma per semplificare ci basta sapere che esiste un linguaggio comune.

Come mai questo approccio è così desiderabile? Partiamo da un presupposto che pensiamo sia condivisibile: i servizi commerciali sono molto comodi ma il loro funzionamento è criticabile per tutta una serie di motivi (modello di business basato sulla cessione dei dati, gamificazione spinta, meccanismi di moderazione non chiari e carattere quasi monopolistico)

Ora, se volessimo costruire delle repliche “buone” servirebbero enormi investimenti anche solo per i datacenter su cui far girare l’infrastruttura, per non parlare del lavoro umano necessario per la gestione. Se si trattasse di servizi statali e ci fosse la volontà politica ci sarebbe la disponibilità economica ma si porrebbe comunque il complesso problema della gestione dei dati.

Il vantaggio della federazione è che con una piccola spesa e alcune competenze tecniche è possibile aprire un nodo Mastodon, Friendica, Pleroma o Hubzilla le cui esigenze di gestione saranno commisurate alle forze disponibili senza che il limite alle iscrizioni sia un limite alle interazioni: io posso essere iscritto a un’istanza con 10 membri ma ciò non mi impedirà di comunicare con gli altri milioni di iscritti. La decentralizzazione rende più difficile la raccolta dei dati e il codice aperto garantisce che le piattaforme del fediverso non traccino i comportamenti degli utenti: “by decentralizing content you deprive advertisers of a controlled and quantifiable audience”.

Tutto molto interessante ma… a cosa serve?

Il fediverso è un’infrastruttura, anzi un’insieme di infrastrutture con scopi diversi per cui non si può dire in anticipo quali saranno le sue funzioni. Dal mio punto di visita al momento serve a una sola cosa ma molto importante: dimostrare che si può fare. Come più volte si è detto, da Mark Fisher in giù, sembra che non riusciamo più a immaginare il futuro se non come una continua riproposizione delle stesse dinamiche che muovono il presente. Ecco, l’idea di decentralizzare internet, di imparare a costruire e far funzionare gli strumenti di cui abbiamo bisogno, di poter decidere collettivamente quali sono le regole delle nostre vite online (ammesso che siano separabili da quelle offline) mi sembra abbastanza forte da costituire uno dei primi mattoni su cui reinventare il futuro.

Per quanto riguarda il progetto rizomatica.org, il punto non è costruire un ecosistema di strumenti uguali-ma-alternativi ai social network commerciali: l’idea è soprattutto di esplorare le potenzialità di soggettivazione della tecnologia. Da una parte allora pensiamo all’etica hacker e anche a quello che scrive Bernard Stiegler a proposito dell’espropriazione dei saperi: ricominciare a “mettere le mani” negli strumenti che usiamo, a capire come funzionano e, se possibile, a modificarli per i nostri scopi. Dall’altra abbiamo in mente le analisi critiche sui social network prodotte da gruppi come Ippolita e all’ipotesi di Reti Organizzate di Lovink e Rossiter (2016): la parte interessante non è creare cloni di Facebook o vedere Trump che posta su Mastodon (per essere presumibilmente bannato da ogni istanza con l’esclusione di Gab); la posta in gioco è costruire infrastrutture che siano durature, funzionanti e adatte alla creazione di legami diversi da quelli prodotti dal misero uso commerciale che viene fatto di internet al giorno d’oggi. L’ambizione non è sostituire il grande centro commerciale con il mercatino biologico ma creare spazi in cui ognun* possa imparare, sperimentare, giocare e progettare.

Qui troviamo una lista dei principali “pianeti” del fediverso: abbiamo social network come Mastodon, Friendica e Pleroma; Peertube, un servizio di condivisione video; un software aperto per costruire archivi di file in stile Dropbox (Nextcloud); e ancora chat, blogging, condivisione immagini, ecc. Si tratta di progetti già funzionanti ma che esistono da poco tempo per cui il ruolo di chi non è programmatore o sistemista è ancora più importante: solo con la sperimentazione degli utenti potranno essere sviluppati fino a diventare qualcosa di utile e funzionale e, cosa ancora più importante, sono sempre i frequentatori a rendere interessante un luogo fisico o virtuale.

Il fediverso non è il paradiso

Ma che significa, in termini di capitale sociale, dare al tuo progetto di rete il nome di rizoma? I media minori sono veramente orgogliosi di considerarsi tali, al di là del significato positivo e produttivo che Deleuze e Guattari assegnano al termine? Chi vuole essere minore?

Geert Lovink – Internet non è il paradiso

Come tutti gli spazi, anche le reti decentrate non sono prive di contraddizioni. Vorrei qui discutere brevemente quelli che mi sembrano gli aspetti più critici del progetto.

  • L’infrastruttura fisica: il server su cui gira il nodo Friendica di Rizoma è noleggiato su un provider commerciale ed è probabile che questo valga anche per molti altri nodi (non sono però riuscito a trovare delle statistiche). In generale, questo interessante paper, sulle sfide che devono affrontare le reti decentrate parla di una spinta alla centralizzazione delle infrastrutture: non è casuale se, parlando dei problemi dei social network, Lovink ha parlato anche di gestione pubblica dei datacenter. La questione dell’infrastruttura fisica porta con sé anche quella dell’impatto ambientale e a questo proposito è in corso una mappatura delle istanze che funzionano con energie rinnovabili sotto il nome greenfediverse.

  • Se la gestione di ogni nodo può essere democratica (per esempio Bida, la principale istanza Mastodon in lingua italiana, fa regolarmente delle assemblee in cui discute le policy) lo stesso non si può dire del codice. All’interno della comunità di Mastodon, ad esempio, vi sono state critiche per l’eccessiva centralizzazione dello sviluppo del software, che darebbe al fondatore/inventore Eugen Rochko un potere troppo grande rispetto alle nuove feature da adottare. Così, se la vecchia formula “consenso di massima e codice funzionante” sembra tutto sommato ancora valida fra i programmatori con spirito free, rimane il problema che, trattandosi di scelte tecniche cariche di significato politico, sarebbe opportuno sperimentare dei metodi di decisione maggiormente inclusivi anche per quanto riguarda gli utenti.

  • Interoperabilità non significa necessariamente decentralizzazione. La serie di tweet in cui Jack Dorsey ha parlato della creazione di un gruppo di lavoro su uno “standard aperto e decentralizzato per i social media” ha reso più concreta una preoccupazione che era già stata al centro di discussioni nel Fediverso. Che fare nel momento in cui dovesse nascere una compagnia che, tramite pesanti investimenti, dovesse diventare per i social media decentrati quello che Google è per l’email?

Non è difficile immaginare che, se il numero degli utenti dovesse crescere, ci sarebbero aziende pronte a investire il dovuto per creare dei nodi particolarmente performanti, magari con servizi aggiuntivi, ben pubblicizzati, accompagnati da app appositamente progettate e così via. A questo punto nulla impedirebbe di guadagnare raccogliendo i dati degli utenti che transitassero sul tali nodi, riproponendo lo stesso modello di business delle piattaforme attuali. Quella della tendenziale centralizzazione non è una questione puramente teorica, basti pensare che dei circa 2,5 milioni di utenti mastodon 400.000 sono iscritti al nodo aperto dal fondatore mastodon.social (non commerciale e sostenuto da donazioni).

Al momento non ci sono risposte a questi problemi: si ipotizzano limiti al numero di iscritti (ma posti e fatti rispettare da chi e come?), si suppone che gli admin potrebbero bloccare le istanze che si comportassero in modo scorretto, si rivendica la capacità di costruire strumenti migliori (dal punto di vista degli utenti) di quelli pensati dalle grandi corporation; nessuna di queste proposte sembra convincente e probabilmente la soluzione non potrà prescindere da una messa in discussione del livello sottostante: ancora una volta, le infrastrutture e i rapporti di proprietà che incorporano. Già ora è opportuno chiedersi con @z428: “How decentralized would this eventually be given a majority of “decentralized” mastodon instances runs on Amazon AWS or Google Cloud?” e non casualmente c’è chi inizia a pensare a cooperative per l’hosting come tasselli di una sfera pubblica non statale del XXI secolo.

  • Secondo alcun* è il concetto stesso di social network ad essere problematico: “Mastodon non risolve, perché non è un progetto originale, la gamificazione. Perché dovrebbe riprogettare il sistema senza il suo cuore pulsante: la delega delle fonti di piacere alla piattaforma. Federare non basta. Occorre ripensare dalle basi tutta l’infrastruttura a partire dal piacere e dall’immaginario”.

L’autore del brano è membro gruppo Ippolita, un collettivo che da oltre 15 anni si occupa dell’intreccio fra tecnologia, politica e soggettività (consigliamo di leggere i loro testi, in particolare, riguardo ai social network, “Nell’acquario di Facebook” e “Anime Elettriche”) e nel breve articolo scritto per il manifesto espone un punto di vista molto preciso: “Facebook è uno strumento di governo e […] Gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone”. A determinare questa funzione di governo non è la proprietà privata del mezzo o l’algoritmo pensato per estrarre dati personali bensì l’interfaccia stessa, e per questo i social federati “non risolvono la gamificazione” e rimangono quindi strumenti per mettere in vetrina le identità e non per l’organizzazione politica. Ora, si tratta di una critica che ha implicazioni assai profonde e meriterebbe ben altro spazio di discussione; in queste righe mi limito a dire che l’ambizione di Rizoma è esattamente quella di imparare a fabbricare strumenti di organizzazione, cercando di costruire saperi e relazioni a partire dalle forme di vita in cui siamo immersi e che, nonostante la loro problematicità, non vediamo come semplicemente tossiche o alienate. O forse, come scrive il collettivo Laboria Cuboniks: “XF si impadronisce dell’alienazione come impulso a generare nuovi mondi. Siamo tutt* alienat* – c’è mai stato un tempo in cui non lo eravamo?”.

  • Infine, è tutto molto bello ma alla fine nel fediverso non c’è nessuno. Non è proprio così: Mastodon conta nel mondo circa 2500000 di utenti (fra cui sono contati, ahinoi, anche quelli di Gab), pochi rispetto ai 300000000 di twitter ma senza dubbio una cifra rispettabile.

Ci sono comunque visioni differenti di ciò che i social network decentrati dovrebbero diventare da grandi: sostituti delle grandi reti commerciali o una cosa diversa, che funziona con un altro scopo (comunità più piccole, senza esigenze di business e con ritmi più rilassati). Già ora chi ha sperimentato Mastodon dopo Twitter si accorgerà di come i semplici numeri dei post in TL e delle notifiche siano infinitamente minori, e questo può essere a mio parere un positivo effetto collaterale che va nella direzione di una maggiore attenzione alle interazioni significative (discussione ed elaborazione) rispetto alla sola condivisione di contenuti.

Tutte le critiche discusse nelle righe precedenti sono fondate e hanno il grande merito di porre questioni più politiche che tecniche: meriterebbero uno spazio di elaborazione apposito. Tuttavia la nostra scommessa è che, nonostante i problemi che dovranno affrontare, le reti decentrate abbiano un futuro e che possano essere un nuovo punto di partenza per le sperimentazioni dei movimenti sociali e di tutti coloro che vogliono sfruttare le potenzialità di internet per andare oltre il “feudalesimo digitale”. Join the federation!