Bolle, totem, echo chambers. Intervista a W. Quattrociocchi.

Intervista di M. Kep a W. Quattrociocchi

Abbiamo intervistato il Prof. Walter Quattrociocchi, docente di Social network analysis e Knowlwdge, interaction and intelligent systems al’università Cà Foscari di Venezia, nonché autore di numerosi studi e libri sul tema della interazione sociale in rete:

assieme ad Antonella Vicini Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità del 2016 e Liberi di crederci. Informazione, internet e post-verità del 2018.

MK: Ciao Walter, grazie di esserti prestato a questa intervista. La nostra non è né una rivista divulgativa o giornalistica, né una rivista accademica, quindi ci piace andare ad approfondire dei temi, con delle pretese anche scientifiche, ma non ci rivolgiamo a degli esperti in materia. Di cosa ti occupi principalmente nelle tue ricerche e qual è l’oggetto principale di queste ricerche?

WQ: Io mi occupo di analisi di quelli che vengono detti sistemi complessi, una parola come tante per descrivere il focus sull’interazione di grandi moli di dati per capire come evolve il comportamento umano di massa, non del singolo. Perché il comportamento del singolo, è più oggetto delle scienze morbide quali sociologia e altre che, chiamarle scienze, dal mio punto di vista, è abbastanza una forzatura. Perchè spesso vanno per materia interpretativa e sono attività in qualche modo di deduzione o di scrittura creativa. Invece I’idea è quella di cercare di fare degli esperimenti che ti danno un minimo di segnale su comportamenti di massa.

Abbiamo fatto degli esperimenti, sono sei anni che porto avanti questa linea di ricerca, e alcuni lavori hanno avuto una notevole rilevanza internazionale, perchè abbiamo definito in maniera quantitativa il concetto di echo chamber. Cioè l’echo chamber è il gruppo di riferimento dove le persone si trovano l’informazione che più gli aggrada, la narrativa che più aderisce alla loro visione del mondo e trovano gruppi di persone che fanno la stessa cosa, quindi cooperano.

Tante obiezioni sostengono, “sì ma questa cosa esisteva già da tanto tempo.” Sì, ma noi abbiamo misurato, è un pò diverso. Una cosa è “cascano i sassi..” altra cosa se misuri l’accelerazione della gravità, è un po’ diverso l’approccio, l’oggetto è diverso. Esci dalle supercazzole e dalla fuffa perchè fai modelli matematici che, per quanto approssimativi, danno una indicazione di massima del fenomeno.

Abbiamo visto che la polarizzazione è un effetto. Che per esempio, smentire le bufale non serve a nulla. Lo abbiamo fatto con un esperimento su 55 milioni di persone, non sono numeri da 1000, 2000 che puoi raggiungere con le scienze sociali empiriche. Abbiamo visto che, con la polarizzazione, cioè se tu vai da qualcuno e gli dici che la pensa in maniera sbagliata, quello, mediamente si incazza. Che è normale, è l’ovvio. Però l’ovvio misurato porta tutto su un’altra dimensione.

Poi da lì ci siamo spostati alla fruizione dei contenuti giornalistici on-line, ma non solo. In generale noi osserviamo l’interazione degli utenti con l’ informazione, perché ogni gruppo di riferimento definisce, esiste e resiste intorno a delle fonti ben precise. Che sono quelli che catalizzano l’oggetto e quindi andiamo a vedere quanto questi cluster si formano e come varia il comportamento umano. Questo è più o meno l’oggetto. Cioè, non c’è una dinamica delle opinioni. C’è il tentativo di capire l’essere umano con una strategia un po’nuova, perché abbiamo, negli esperimenti di psicologia sociale, che non sono riproducibili nel 50% dei casi. Significa che se tu prendi un esperimento di psicologia sociale, lo rifai, nel 50% dei casi non riesci ad ottenere lo stesso risultato che hai ottenuto. Quindi, fondamentalmente, stai parlando di aria fritta. C’è una grande disponibilità di dati. C’è un enorme proliferare di scrittura creativa, teorizzazioni che, senza relazione empirica, lasciano il tempo che trovano e tendono un po’ al discorso da bar. Quindi in qualche modo un approccio un po’ più, non dico empirico o empirista, positivista a tutti i costi, però quantomeno cerchiamo di fare un’ipotesi, vediamo se è possibile misurarla. Questo è il discorso, invece di dare voce a ipotesi e basta. Questo è quanto.

MK: Come ti poni rispetto alla Opinion dynamics? (Agente razionale, comportamenti, imitazione, concordanza, echo chambers, dissenso, polarizzazione…) quali sono attualmente, i modelli prevalenti e In che modo vengono modellizzati come se fossero fenomeni fisici?

WQ: Allora… È analogo ad un fenomeno fisico perché in teoria c’è la modellazione di spin glass positivo-negativo(1), le dinamiche dell’elettromagnetismo, diciamo della termodinamica, che afferma che le particelle si polarizzano positivamente o negativamente sottoposte ad una determinata temperatura. L’idea, negli anni ’60 – ’70, fu di provare a fare delle equazioni che descrivono questo moto applicandolo, invece che alle particelle che si scaldano, agli esseri umani ma banalmente sono dei giochi, dei giochini matematici che uno applica per fare degli studi asintotici, ma non sono verificabili.

È un puro modello matematico che tu lanci senza nessuna verifica empirica. Ce ne stanno diversi. C’è il voter model, il bounded confidence model, l’essenza è che sono dei giochini matematici che avevano una ragion d’essere, ammesso che ce ne fosse una, prima che ci fosse la disponibilità dei dati. Adesso che hai dati a disposizione, fare un modellino senza un minimo di analisi, di ground, di verità sottesa all’analisi dati, non ha molto senso.

Il modello iniziale nasce con Axelrod (2), che era un matematico: persone con attitudini simili tendono a parlare con persone con attitudini simili, parlando tenderanno a trovare una posizione che si uniforma, quindi da lì arriva Deffuant, Weisbuch, Amblard, che diranno: “ma allora piuttosto che usare tutto il vettore delle preferenze faccio un numero solo, vado a vedere come va asintotico all’infinito, che succede? La gente si polarizza.” Questo è, ma sono giochini. (3)

MK: Ah.. Quindi tu non applichi questi modelli ai dati o cerchi di dimostrare la validità di questi modelli con i dati. E’ una analisi analisi di tipo differente che viene fatta.

WQ: L’approccio nostro è questo: tu fai l’analisi dei dati, poi se trovi qualche correlazione, cioè dei meccanismi che sono connessi, provi a fare un modello che descriva quel cambiamento, cioè quell’ interconnessione e testi il modello sui dati. Praticamente il modello ti serve come test per vedere se hai capito qualcosa. Se c’ha capacità di classificazione, se in qualche modo ti ritorna. Quei modellini lì sono carini, perché sono matematicamente semplici e permettono di fare tutta una serie di giochini. Sono stati studiati matematicamente ma non hanno nessuna rilevanza dal punto di vista dei processi, si chiama opinion dynamics ma è l’equivalente della sociologia fatta in matematica.

MK: Questa cosa infatti non mi ispirava molta fiducia, mi sembrava in effetti esattamente questo. Invece puoi farmi una sintesi di quelli che sono i modelli che sono emersi da questa analisi dei dati? Non sono dei modellini già prefatti e semplici, però, diciamo, c’è un qualcosa che si può osservare?

WQ: Secondo me c’è un po’ di confusione sulla questione modello. Il modello è un attrezzo matematico, un’equazione dove tu hai dei valori e vedi se in qualche modo quei valori descrivono quello che hai trovato nei dati significa che hai trovato una buona legge che descrive quello che hai trovato nei dati. Niente di più.

MK: Invece io pensavo che il modello fosse una descrizione matematica di un fenomeno fisico in questo caso sociologico.

WQ: Di alcune parti del fenomeno. Il nostro modello quello che noi utilizziamo se vuoi è di una banalità allucinante. Noi abbiamo fatto questo esperimento. Gente che è sempre esposta a determinati tipi di contenuto se gli passo un contenuto che è simile ma contiene elementi falsi che fa? Lo prende o non lo prende? Il risultato è che lo prende. Perché l’importante è che parli la narrativa. Pure se contiene elementi falsi. Se invece vado da questa persona, che segue questa narrativa e gli dico che mediamente sono cazzate, come reagisce? E troviamo che si incazza. Misuriamo quanto si incazza. Come reagisce, come non reagisce. A quel punto il modello che fai è banale. Il modello è: hai un mare magnum di informazioni, quindi tu utente vai su internet e prendi una informazione a caso, che però è la più vicina al tuo. Siccome sei finito là, c’è una buona probabilità di fare amicizia con persone che la pensano in quel modo, banalmente. Facendo questa cosa qui si creano dei cluster. Noi andiamo a vedere quanto questi cluster sono grandi, quanto crescono quelli che troviamo su internet al variare di alcuni parametri. Cioè ci serve per verificare la bontà di quello che abbiamo trovato, questo è il marchingegno. Non è che faccio analisi predittiva sui comportamenti sociali. Quello che fai è: sembra che chi si somiglia si piglia, persone simili vanno vicino al simile. Quindi c’è l’omofilia. Omofilia, struttura delle comunità chiuse, dentro queste comunità chiuse l’informazione circola, il massimo delle persone coinvolte da quel determinato tipo di informazioni sarà la massima grandezza di quel gruppo di persone di riferimento. Sembra banale, non è del tutto banale perché apre tutta una serie di problematiche di cose che si possono capire, per esempio l’effetto dell’algoritmo. Per esempio, quanto l’algoritmo di Facebook o Reddit implementato facilità questa polarizzazione? Quanto questa polarizzazione correla con la disinformazione? Per esempio. Il marchingegno ti dà delle misure che poi puoi applicare per studiare altri livelli del fenomeno. Questo è il processo. Quando avremo il modello definitivo penso che alla fine, semplicemente, avremo un modello teorico che afferma: “guarda funziona così perché i dati sono questi questi e questi altri”. Più o meno funziona così questo èl’ordine quando arrivi al modello completo.

MK: Dove vengono presi data set? Su quali dati si possono andare a fare queste misurazioni? C’è tutta una narrativa rispetto all’uso dei metadati che viene fatto da Google, Facebook , eccetera.. di cui però ovviamente “si dice che…”, nel senso che poi, come vengono usati questi metadati da queste grande compagnie non lo sappiamo esattamente. Ci sono stati alcuni leaks, tipo quelli di Cambridge analytica, che però non hanno svelato quali sono poi effettivamente il tipo di analisi che vengono fatte.

WQ: Cambridge analytica, dal mio modesto punto di vista, è un po’ un fuoco di paglia, non è possibile fare quello che affermano di aver fatto, capito? Spostare i voti, non li sposti. La gente, al massimo, si convince un po’ di più di quello di cui è già convinta. Non inneschi meccanismi in cui riesci a far cambiare opinione alle persone. Scientificamente non è dimostrato che questa cosa funzioni, non si sa. Il che non vuol dire che non sia vero. Per me, a occhio, è difficile che si riesca a far cambiare idea anche ad un target specifico. Se vedi le pubblicità che ti mandano.. Quante volte ti hanno convinto a comprare quello che ti propongono? Non è lontano da quello. Non la vedo questa grande efficacia. Cosa ci fanno Facebook e Google con i dati, io non lo so.

MK: No infatti non ti chiedevo questo. Volevo sapere tu, ad esempio, per fare le tue ricerche di analisi di dati, dove prendi i dataset?

WQ: Allora all’inizio Facebook metteva a disposizione degli scienziati una cosa che si chiamava Facebook Graph API. Praticamente sono dei server a cui tu ti attacchi, fai delle richieste e ti danno alcuni dati, la maggior parte sono aggregati, anonimizzati. Fondamentalmente hai una serie temporale storica con dei post, dei like, dei commenti. Lì potevi provare, analizzando il linguaggio di quei post, cosa c’era scritto in quei post, a creare l’aggregazione. Twitter pure mette a disposizione una cosa del genere. Poi Facebook ha ristretto molto l’accesso ai dati, ha chiuso i bocchettoni, allora i dati sono diventati molti di meno, tant’è che molte ricerche si sono concentrate su altre piattaforme, tipo Reddit, Twitter, Gab, che è quello dell’estrema destra americana, queste cose qui.

I dati che prendiamo noi sono ciò che è pubblicamente visibile. Lo prendiamo, lo aggreghiamo, lo anonimizziamo e cerchiamo di vedere come, al livello di massa, succede una cosa piuttosto che un’altra. Cioè esce la la parola virus, poi esce la parola vaccino, con che velocità si spostano, quanto è grosso il gruppo che c’è che ha interagito con il primo post, quant’è il numero dei contagiati, come cresce il numero dei contagiati coinvolti nel processo… Quindi è tutta roba pubblica, non è che abbiamo accesso a dati particolari o altro.

MK: quindi avete usato le API di Facebook soprattutto e di Twitter. Anche GAB e questi altri ti forniscono le API, oppure devi fare tipo data grabbing con dei bot?

WQ: Non abbiamo mai rubato, sempre con le API, anche perché, per un articolo scientifico, se rubi i dati non te lo pubblicano. Quei dati li poteva scaricare chiunque. Adesso, ti dicevo, hanno ristretto per cui non si può più fare quel tipo di analisi, perché ti danno meno dati a disposizione, però di fatto, c’era roba accessibile a tutti: scaricavi da un codice, facevi le query giuste, ti davano i risultati dalle varie librerie.

MK: quindi sono dati messi a disposizione dalle piattaforme.

WQ: Adesso abbiamo cominciato a partecipare al progetto data for good. Facebook mette a disposizione di alcuni ricercatori o scienziati alcuni dataset per le pandemie, ma sono tutte cose aggregate su come si è spostata la gente. Tu vedi i flussi di persone che hanno la App di Facebook installata nel cellulare, quelle che si sono spostate da una cella di 500 m x 500 m ad un’altra cella di 500 m x 500 m, facendo un rilevamento ogni 8 ore. Ogni 8 ore chi stava qui dentro lo riconta, chi si è spostato lo riconta e ti fa un link da una parte all’altra di chi si è spostato. Con quello non riesci neanche a fare reverse rngineering, non sai minimamente chi è, chi non è e tutto. Durante la cosa del covid, per fare analisi dell’impatto economico del lockdown, è stato utile per tutta una serie di circostanze, quel tipo di dati.

MK: l’altra domanda era sul valore attribuito a questo tipo di dati. Ora mi hai fatto un esempio, quelli che si sono spostati dal luogo A al luogo B. Quali altri tipi di valori possono assumere i dati? Quelli che prendi da un social, come vengono classificati? Se gli viene dato semplicemente un valore sì no, presenza non presenza, oppure c’è anche un valore qualitativo che può essere attribuito a questi dati. Ad esempio, su un post, se questo è cospirazionista, è negazionista rispetto ad un tema o no, deve essere deciso da un essere umano, che in un certo senso lo classifica..

WQ: Quanti like fai è quantitativo. Si/no è boleano… Questa cosa qua non l’abbiamo fatta noi. Nel primo lavoro noi abbiamo fatto una distinzione tra testate scientifiche e testate cospirative. Ma testate cospirative costruite come? Tu prendi un gruppetto iniziale di pagine cospirazioniste, poi queste pagine si mettono like fra loro. Quindi costruisci la rete delle pagine, ti fai una navigazione fino a che non hai preso tutti. Poi controlli, per ogni nodo, che si definisce: alternativo, ciò che non ti dicono, le verità nascoste.. poi prendi sta roba, la dai a un gruppo di debunker indipendenti, gli dici:” Mi controlli queste notizie?” Quelli ti rispondono: “questo sì, questo no, questo forse..” e ripulisci. Fatto questo non ti metti a dire: questo c’ha ragione, questo c’ha torto. Per me sono semplicemente A e B. A me non interessa il valore di verità dei contenuti pubblicati. Anche perché anche testate scientifiche possono scrivere cavolate. Cioè non penso che il mondo possa essere diviso in vero e falso, quindi non c’è questa aggregazione.

A me interessava capire due punti: tu utente che segui la pagina della Juve e sei circondato da persone della Juve, come reagisci se uno ti dice il prossimo allenatore della Juve sarà Guardiola? (quindi è falsa) oppure uno che ti dice guarda che la Juve non si è meritata gli scudetti che ha vinto.. Come reagisci? Questo era l’oggetto. Quindi il quantitativo è nel numero di risposte, cioè quanti like, quanti commenti. L’engagement, quanto sei attivo.

Analizzare i contenuti sarebbe come ripartire con la speculazione

MK: Quindi questa analisi può riferirsi soltanto ad aspetti quantitativi. Comunque mi hai risposto alla domanda su quale valore hai attribuito a questi dati: hai consultato un gruppo di debunker che ha classificato i contenuti in base alla loro attendibilità scientifica.

WQ: Sì, l’esperto di dominio è un po’ uno standard. Ci fai tagging. Adesso stiamo facendo un altro tagging sui commenti di hate speech, il che mi fa un po’ paura, perché cosa significa hate speech? Ancora non l’ho capito. Però vogliono fare tagging per capire come il discorso d’odio evolve on-line.

MK: questa cosa mi interessa molto anche perché ho fatto un lavoro a scuola su L’odio non è un’opinione, una campagna europea che ha prodotto un documento, e anche con l’Associazione Carta di Roma e mi sembra tu hai collaborato anche con loro.

WQ: Sì, io sto nella commissione hate speech del Parlamento. Però, indipendentemente, abbiamo vinto un progetto europeo insieme all’autorità garante per le telecomunicazioni e altri, dove praticamente si pone proprio il problema: è possibile fare la catalogazione algoritmica dell’hate speech? La domanda è: è possibile? Secondo me no.

MK: Certo, dovresti fare una analisi del linguaggio e del contesto: se c’era un doppio senso, se era ironico.. Perché, immagino, vogliono cercare di mettere un sistema di censura automatica che segnali i contenuti di possibile hate speech per inviarli, ad esempio ad una moderazione.

WQ: Diciamo che vedo molto difficile, nella realizzazione, questa cosa.

MK: Io insegno, ho fatto a scuola questo lavoro sull’ hate speech facendo fare agli studenti una analisi delle notizie e dei commenti alle notizie. Questa cosa è stata molto interessante per gli studenti anche per prendere contatto con dei mondi che alcuni di loro, probabilmente essendo fuori da certe bolle, non riuscivano a conoscere. Dopodiché ci siamo anche interrogati sul fatto che spesso, e questo era anche un po’ il senso della terza domanda, la stessa persona che on-line o in un certo ambiente, in una certa bolla, dice alcune cose fuori da quella bolla ne dice altre. Cioè quello che vai a descrivere, osservando i comportamenti online, sono dei profili molto appiattiti di persone che che in quel momento vogliono apparire così, e magari in un altro momento sono diverse. Per cui spesso la dinamica on-line polarizza le personalità portandole a identificare dei nemici o a soggettivarsi in un modo semplificato. Cioè quando vai a misurare, misuri dei profili non misuri delle persone. Cioè non è detto che la persona che ha scritto quella cosa, poi la pensi davvero così o la pensi sempre così.

WQ: Non è neanche nell’ambizione di quello che facciamo. Il discorso, se lo vogliamo vedere tutto, deve pure considerare la matrice psicologica del processo. Il social è una piattaforma che facilita il narcisismo, facilita quella prassi di deriva narcisistica. Per cui vai in bulimia di like. La bulimia di like va verso la stereotipizzazione e lì entri in quella che si definisce la legge della polarizzazione dei gruppi. Cioè, se sei dentro un gruppo dove ci sono persone omofile, tenderai ad essere più estremo, più che preso singolarmente. Questo vale pure nelle giurie. Quindi noi questi meccanismi on-line li abbiamo studiati, effettivamente se stai dentro l’eco chamber tendi a essere molto più estremo che se ne stai fuori. Cioè il commento tende a essere molto più negativo, al crescere della persistenza dell’echo chamber. Però, ripeto, questi studi non hanno mai avuto la pretesa di descrivere l’essere umano nella sua totalità. Noi diciamo che il social permette di studiare cose che prima non si potevano studiare. Cioè, hai accesso a dei dati che ti possono dare delle informazioni piuttosto interessanti. Come si studiano? Cioè, con questi dati a quali domande riesco a rispondere? E quindi per esempio scopri che tutta la storia delle fake news, se declinata così come viene fatto, cioè informazione vera versus informazione falsa, è un po’ ridicola. Su Facebook su Twitter su Instagram uno ci va per cazzeggiare, quindi la gran parte dei contenuti che circola è fake. Poi il fake c’ha senso in un contesto di echo chamber? Boh, credo neanche perchè ogni echo-chamber ha le sue verità le sue forzature quindi che significa ricerca di fake? Chi è che si permette di dire che questo è vero e questo è falso, quando il contesto è molto variegato e molto articolato? Però quello che sappiamo di certo, quello che siamo riusciti a capire, è che tu non cambi opinione. Al massimo confermi quella che avevi, perché cerchi informazioni che aderiscono al tuo e se qualcuno ti va contro tu ti incazzi. Di questo siamo abbastanza sicuri che funziona così, misurato. Il resto è tutto atto di speculazione in cui non mi voglio spingere più di tanto, se no faccio quello che che non voglio fare. Cioè rischio di entrare nei processi di spiegazione del mondo su supercazzole.

MK: Mi stai dando una visione piuttosto chiara. Spesso quello che viene portato come analisi di questi fenomeni.. tu dal tuo punto di vista di ricercatore non hai non hai la pretesa di spiegare la realtà sociale in base a questi modelli, tu spieghi dei fenomeni che sono quelli della comunicazione on-line in base a delle occorrenze che si verificano oppure no, quindi ne crei più o meno una descrizione. Il problema è che spesso quando si va più sull’aspetto politico o di comunicazione, intesa anche come propaganda o come politica, c’è la pretesa un po’ di descrivere la realtà sociale in cui viviamo attraverso queste dinamiche da social. Si dice l’odio on-line, l’odio è ai massimi livelli, la violenza è ai massimi livelli, perché ci sono questi fenomeni, mentre poi se vai a vedere, in effetti non corrisponde, per esempio il numero di denunce di violenze private per motivi razziali con il numero di commenti di odio on-line.

WQ: Ma soltanto uno che vada a cercare una correlazione con questa roba… Sarebbe da mettere al gabbio!!

MK: però è quello che viene comunemente fatto. Si dà per esempio la colpa all’odio on-line di fenomeni che sono in realtà fenomeni politici, sociali, che non sono on-line. Che sicuramente sono correlati ma non sono causati da quello.

Spesso c’è la strumentalizzazione di questa cosa per questioni politiche. Do un’opinione, non parlo da scienziato. Dico, a occhio, l’impressione che ho è che è facile dare la colpa al social. Un po’ é il pensiero complottista. Cioè è colpa del social. Il social sicuramente è uno strumento nuovo, non c’era prima, quindi non può essere come prima perché c’è uno strumento in più. Che facilita tutto un processo di disintermediazione, tutto un processo di aggregazione che prima non c’era, però quello che è lo scollamento tra una narrativa, che poteva essere più moderata, più progressista, e la realtà delle persone, se tu questa narrativa non riesci a colmarla ma ti trovi a inseguire, con problemi che vengono percepiti come il nuovo censore, cioè il politically correct e queste cose qui, tu semplicemente allontani l’elettore medio. Perché di fatto l’unico trend reale è l’aumento dell’astensione, non è l’aumento della destra. Trump ha vinto le elezioni per colpa delle fake news. Boh, siamo sicuri di questa cosa? Sì, sicuramente le fake news hanno avuto un’incidenza, ma siamo sicuri che non c’è un problema narrativo più profondo che si fonda sulla sfiducia delle persone nella classe dei rappresentanti?

Però affrontare questo problema significa mettere in discussione tutto un mondo, che è un apparato resistente. Io ci ho provato. Lo dissi pure a Renzi alla Leopolda provando a portarglielo in questi termini, la prima e l’ultima volta che mi hanno chiamato, cioè: siamo sicuri che la rappresentazione del mondo così semplificata avvicini l’essere umano o altro? Perché se perdi le elezioni ed è colpa delle fake news, allora vabbè, è pure inutile andare a votare.

MK: certo… Mi rincuora molto sapere che i ricercatori hanno una propria etica professionale e quindi non hanno la pretesa di strumentalizzare questi dati, a differenza dell’uso strumentale che viene fatto di questi argomenti da parte di giornalisti e politici.

WQ: Su Science, di Tage Rai, l’editor in Chief della materia mia, data science e sociologia, è uscito un pippone sul fatto che la gente per colpa dei social, per colpa della disintermediazione e della polarizzazione, ha perso la percezione dei fatti. Però che devi fare? Purtroppo questo credo, nel fatto che esiste la realtà fattuale e gli altri ignoranti non capiscono, è la teoria del complotto dell’elite, della classe dominante, in questo momento. Perché, se ammetti di aver sbagliato alcuni processi narrativi, hai toppato, ammetterlo significa che devi farti da parte, e non sembra che abbiano questa disposizione. Vedi anche le testate giornalistiche, il progetto sulle fake news sulla informazione certificata. Puoi anche farla l’informazione certificata, tanto non cambia niente. Chi già ci credeva, se la guarda, ma chi stava contro di te, non se la guarda.

MK: All’ultima domanda che volevo farti hai quasi già risposto. Mi ero costruito una idea errata di questi studi sulla analisi dei dati in sociologia. Pensavo cioè, che i ricercatori volessero interpretare la realtà sociale attraverso l’analisi di comportamenti on-line. E forse qualcuno, strumentalmente lo fa, ma non è quello che fai tu.

Ti faccio però una domanda più teorica. Il fatto che si tenda a descrivere la realtà con modelli matematici, dovendosi basare su dei fattori misurabili, questo accade ovviamente moltissimo per l’economia che conta i soldi, le persone, anche non essendo una scienza esatta, ma basandosi sulla statistica e su modellizzazioni costruite su enormi quantità di dati, non rischiamo di incrementare quell’aspetto di soluzionismo, per cui i decisori presumono di aver identificato scientificamente qual è il problema e tendono a volerlo risolvere portando un correttivo nel campo degli indici correlati? Mentre è possibile che sia stata descritta solo una parte del fenomeno, quella misurabile, perdendo una gran parte del fenomeno che non era misurabile, perchè non vi erano dati o era troppo difficile e costoso procurarseli…

WQ: C’è un aspetto ulteriore che mi porta ad essere a favore di uno scetticismo ottimista. Invece di dire, ho capito tutto, facciamo una mega teoria che spiega il tutto, che poi fa acqua da tutte le parti, perché arriva la prima controprova che fa cascare l’impianto, se tu riesci ad avere una comprensione quantitativa del processo, quella comprensione ha degli elementi almeno fattuali. Ad esempio, se per covid muoiono maggiormente quelli dai 70 anni in sù, è vero, non è qualcosa su cui fare una speculazione. lo devi prendere come assunto. Il problema è che invece, tante volte, nell’incertezza, si va per postulati per costruire l’avanzamento teorico e spesso questo fa sì che tanti costrutti teorici di rappresentazioni hanno dei paletti talmente tanto stretti, che poi la realtà non ci sta dentro. Il pensiero scientifico attuale va nella direzione del completamento fra discipline. Hai un pezzo che ti arriva dalla fisica, un pezzo che ti arriva dalla epidemiologia, un pezzo che ti arriva dalla sociologia, cerchi di ragionare: io ho osservato questo, io ho osservato quest’altro, qual è la spiegazione più plausibile che mette d’accordo tutti? E cerchi il consenso per dialettica, per dibattito. Però il fatto che quello che non è misurabile… Cioè, secondo me è meglio misurabile che speculativo, perché lo speculativo poi si infrange sulla scrittura creativa. Fai il modello teorico: che figata, è fighissimo! Per esempio la teoria di Levy sull’intelligenza collettiva. L’intelligenza collettiva sarà una figata, l’internet che aprirà queste possibilità… Si è fighissimo dal punto di vista concettuale, però la retorica speculativa ti porta all’entusiasmo. Poi vai a misurare. Un attimo, apriamo il cofano e vediamo che ci sta dentro. Diciamo che ci stanno varie sfumature del mondo. Quindi secondo me è un po’ più onesta questa come prassi, perché nella speculazione si va molto per nomi, cioè: “il tale tizio ha detto che..” come i sociologi e I filosofi che citano il nome. A me, Quattrociocchi mi citano per i lavori che ho fatto, per gli esperimenti che ho fatto, non per quello che ho detto. Poteva misurarlo chiunque altro, non è che me lo sono inventato io. Ci stava.

MK: noi veniamo un po’ da questo approccio teorico. Io per esempio ho studiato filosofia e chiaramente ne subiamo il fascino. Comunque sono assolutamente d’accordo sul fatto che se un modello teorico si scontra con una realtà materiale e non riesce a spiegarla devi anche accettare che quel modello teorico è sbagliato. Rispetto al concetto di echo chamber, potrebbe essere assimilato a quelle che vengono chiamate le bolle? Il fatto che ognuno sta all’interno di una propria bolla o di più bolle che lo confermano e dove si sente accettato a livello di identità..?

WQ: Sì. L’idea è equivalente. Quando si parla di confirmation bias, lo abbiamo trovato con quell’esperimento, il pregiudizio di conferma, penso ne avrai sentito parlare. Lo abbiamo tirato fuori noi con quell’esperimento. Vedi che il pregiudizio di conferma guida il consumo di informazione on-line. Poi aggreghi dentro una comunità, dentro una tribù, a me piace chiamarle tribù, la vuoi chiamare echo chamber, la puoi chiamare bolla, di fatto è una tribù con dei totem, se qualcuno gli attacca i totem si incazzano, tutto quello che è a favore il totem è positivo.

MK: mi hai detto che conosci GAB, quindi forse conosci anche la la sinistra del fediverso. In Italia c’è questa comunità on-line di Bida di area libertaria, anarchica. Noi anche abbiamo piccolo server di fediverso che vorremmo non identitario. Però forse, proprio perché non identitario, non ha questa attrattiva, invece Byoblu ha fatto i 10.000 iscritti in un mese, che è il nostro piccolo Gab. Per fortuna meno estremo, possiamo dire decisamente meno estremo. Cosa cosa ci potresti dire su su questo ambiente del fediverso? È una cosa che ci interessa molto.

WQ: Direi che ognuno cerca la sua comfort zone. E lo puoi fare con persone che sono omofile, con persone che sono simili. Cerchi un ritorno, una condivisione, un feedback. Se non lo riesci a fare nel mainstream ti sposti in un altro spazio. Gab nasce per attrarre le persone, così sono libere di esporre il loro pensiero: the house of  free speech. Ognuno ha una premessa che già di suo è la preclusione ad altre identità, è rivolto ad un determinato target, quindi già di suo è un’ echo-chamber e ne eredita tutti i meccanismi. Che siano di sinistra o di destra il marchingegno è sempre lo stesso. Ma non perché echo-chamber è male eh..

MK: certo, il fediverso si fonda in un certo senso su echo chamber. Basandosi su dei nodi nodi di comunità è chiaro che la comunità è unita da qualcosa che la unisce. Dovrebbero essere in grado di interagire fra di loro, a meno che non ci siano proprio delle leggi, se vogliamo, per cui tu con l’esterno non ci vuoi comunicare se non per combatterlo, in un certo senso.

WQ: Il segnale dominante sembra un po’ quello. Abbiamo notato che il comportamento alla segregazione delle echo chamber è ricorsivo. Cioè, anche l’echo chamber tende alla segregazione e alla frammentazione. Insomma ci piace fare tribù, ci piace crearci il branco nostro, avere i vari maschi alfa che strillano, è così..

MK: dobbiamo quindi in un certo senso accettarlo, rassegnarci a questo?

WQ: Io penso che, nel momento in cui si accetta, è il momento in cui se ne esce. Nel nel senso che l’hai accettato come parte integrante del mondo e quindi smette di essere un problema e tu avrai la tua echo-chamber e ci sarà uno spazio in cui parli pubblicamente. Piuttosto che stare ancora a pensare che è tutto perfetto, che dobbiamo ripulire l’ecosistema..  Ma quale ecosistema devi ripulire?

MK: Si, ora abbiamo uno scontro fra un unversalismo e il particolarismo identitario. L’idea, anche nostra, è quella della identità molteplice in cui tu hai sia delle identità piccole, identitarie, molto particolari e al contempo un livello di universalità in cui hai una comunità più ampia, di natura politica, ad esempio, che ovviamente non può essere eccessivamente identitaria perche altrimenti allontana tutti quelli che sono diversi…

 

Note

(1) https://www.sissa.it/fa/altafini/papers/social_balance_monotone.pdf

(2) https://ui.adsabs.harvard.edu/abs/2010arXiv1003.0115L/abstract https://link.springer.com/article/10.1007/s10955-013-0724-x

(3) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4033925/