Telepolis 2020

di M. Kep

“L’enorme complessità della nuova città in quanto forma di organizzazione sociale e la sua considerevole entropia in quanto sistema si fondano su una base economica che genera consumi, ricchezza e posti di lavoro attraverso l’industrializzazione delle piazze e, soprattutto, dell’ambito domestico. Ecco la chiave dell’economia di Telepolis.” (Echeverria 1995, p.19)

Nel 1994 Javier Echeverrìa pubblicava il suo Telepolis. Parlava di un presente come se fosse un futuro. Oggi quella trasposizione del planisfero politico nell’infosfera ci risulta un familiare passato, superato da un presente distopico. Quella chè è cambiata nel frattempo è la nostra percezione di noi stessi nella Telepolis. Se circa trenta anni fa, agli albori di internet, tutto era possibilità, apertura, scoperta, oggi che quelle autostrade informatiche si sono ipersaturate, che quella possibilità quasi infinita di scelte si è stabilizzata su pochi monopoli di gate-keepers (Echeverria 1995, p.31) da miliardi di utenti, ci sentiamo di nuovo negli stretti limiti di un villaggio globale che è una diffusa provincia conformista.

Se l’onnipresenza delle telecamere era sollecitata come uno sfogo delle pulsioni narcisistiche dei Telepoliti, oggi che viviamo quell’assurda condizione di attori e teletrasmettitori di flussi di rappresentazioni, ci rendiamo conto che non sono i nostri desideri ad essere soddisfatti, neppure i più turpi e voyeuristici, ma quelli della Telepolis stessa, che assurge a Leviatano e che di quei desideri si nutre.

La possibilità di conoscere si è enormemente accresciuta, assieme alla pigrizia di accontentarsi della prima giustificazione consolatoria che ci si presenta davanti. La complessità, per nulla ordinata come una topografia stratificata, ci spaventa e ci fa sentire impotenti. Il telepolita sceglie le sue abitudini, all’interno delle sue bolle informative, per placare l’ansia che lo divora. Solo chi riesce a non porsi affatto domande e a fingere di stare ancora oggi lottando per la sopravvivenza, può sfuggire all’angoscia di un’ambiente escludente, che seleziona in base a qualità che non si possiedono.

Noi tutti, telepoliti del Centro Storico (la vecchia Europa nel linguaggio di Telepolis), siamo stati liberati dalla preoccupazione per la nostra sopravvivenza materiale. Alcuni di noi sono stati anche liberati dallo sfruttamento all’interno del rapporto di lavoro salariato, potendo godere di carriere assistenziali riservate alle èlite. Potremmo tradurre con Lavori del cazzo i Bullshit jobs descritti da David Graeber (Graeber 2018). Questi lavori, perfettamente coerenti con la struttura di Telepolis sin dalla sua nascita, sono rappresentazioni di lavori, nel senso che hanno tutte le apparenze di occupazioni produttive mentre in effetti non producono altro che la rappresentazione di una professione di successo. Forniscono anche la giustificazione per l’accredito sui conti bancari smaterializzati di cifre con una certa quantità di zeri. Anche se comincia ad essere evidente che sarebbe molto più utile, alla società tutta, accreditare quelle cifre ai fortunati telepoliti senza dover anche pagare tutta la messa in scena dei lavori del cazzo.

Purtroppo per le fasce di popolazione servile ancora presente in Telepolis, vi sono molte occupazioni estremamete necessarie, che però vengono definite lavori di merda.

Questi ultimi non sono per nulla spendibili nella vita pubblica davanti alle telecamere e se ne nasconde quasi l’esistenza, perchè in Telepolis il lavoro è considerato solo quello automatizzato, spettacolare e di produzione del consumo.

Quando noi telepoliti lavoriamo in un ospedale e passiamo alle sette del mattino con la padella a raccogliere gli escrementi dei pazienti in corsia, prima di ripassare a lavarli con la spugna e a cambiare i cateteri, non riteniamo di stare lavorando. Per legge le telecamere non possono trovarsi in quei luoghi di persone malandate e sofferenti, dovremo aspettare di finire il turno per poter condividere delle immagini del nostro telecane o della telegattina nella pagina sponsorizzata dai prodotti per la salute degli amici a quattro zampe. Questo consideriamo come il nostro ruolo sociale riconosciuto, il nostro vero lavoro produttivo.

Le persone grasse o particolarmente sgradevoli alla vista svolgono le attività fuori dal circuito delle riprese e della rappresentazione primaria. Pulizia, assistenza delle macchine per la produzione, raccolta di vegetali, manutenzione delle macchine e dei veicoli, allevamento e uccisione degli animali commestibili.. Tutte attività servili che garantiscono l’accredito minimo, la mera sopravvivenza. La bellezza e il decoro, invece, sono le qualità maggiormente apprezzate nella Telepolis contemporanea perchè rendono telegenici e maggiormente degni di fiducia, quindi aprono le porte di qualsiasi professione. E’ un segno della libertà dei costumi diffusa nella cultura globale di Telepolis. Non c’è nulla di cui vergognarsi nel preferire una donna con enormi seni siliconati o un uomo superdotato, naturale o meno, per svolgere qualsisi professione. Il carisma sessuale che emana dalle riprese video è il linguaggio universale della trasmissione di contenuti etici e politici. La seduzione, l’ammiccamento, il vestito di scena attillato e lo sguardo fisso in camera sono gli argomenti migliori del dibattito telepolitico. Nessuno crede più ai cortei e lanci di pietre o bottiglie molotov rappresentate ad uso delle telecamere con travisamenti, vetrine spaccate, incendi di veicoli e scontri con le forze dell’ordine, per offrire il massimo impatto sui mezzi di comunicazione (Echeverria 1995, p.30). Quel copione poteva trenta anni fa eccitare degli adolescenti repressi dai genitori borghesi. Quelle immagini crude, condite a volte di sangue, riprese da talentuosi fotografi di reportage, rimbalzate sulle riviste di carta di tutto il mondo, eccitavano i giovani studenti facendogli sognare amplessi amplificati da THC o MDMA, riti di danza e trance ipnotica nelle TAZ o in qualche occupazione.

Trenta anni dopo, la politica di sinistra che eccita i giovani Telepoliti sono i flash mob che diventano immediatamente virali. I leader sono belli, giovanissimi e iper presenti nelle videoriprese e sui social. Spiegano cose semplici, molto semplici che tutti possono capire e odiano ogni forma di violenza. Chiedono ai potenti di essere ascoltati e i potenti li invitano a confrontarsi davanti alle telecamere. La politica identitaria ricerca il gesto estetico razzista, la violenza rappresentata con le forze dell’ordine allo stadio, lo stupro videoripreso amatorialmente e immagini e filmati di armi, organi sessuali, muscoli ipertrofici, combattimenti simulati in realtà virtuale, animali domestici umanizzati. Lo spettacolo politicamente corretto piace alle persone più raffinate e di animo gentile, lo spettacolo maschilista si rivolge ai telepoliti più rozzi, cinici e arroganti.

I Telepoliti, che quando scriveva Echeverrìa potevano iniziare a mandare qualche email, oggi sono diventati dei media viventi con molteplici dispositivi miniaturizzati di ripresa e trasmissione audiovideo. La delazione mediante social è molto praticata così come forme di satira feroce verso i più deboli e i telepoliti più ingenui, definiti analfabeti funzionali.

I telespettatori erano prima spettatori passivi di uno spettacolo che avveniva altrove. Grazie alla rivoluzione social che ha portato alla liberazione dei teleschiavi (Echeverria 1995, p.11), oggi hanno la parola. E non perdono l’occasione di usarla. Chiedono spesso a gran voce che i potenti esprimano maggiormente il loro potere per attuare veramente le politiche globali necessarie a tutto il pianeta e contemporaneamente al loro benessere materiale. La pace, la democrazia, i diritti umani, si espandono dal centro di Telepolis verso le periferie non ancora perfettamente connesse. Vi sono dei quartieri dove si parlano slang incomprensibili, dove organizzazioni a metà strada fra la mafia e la chiesa mantengono un controllo sul territorio di tipo militare, impedendo la libertà dei consumi. La polizia mondiale interviene di rado, ma quando lo fa punta all’effetto scenico e alla fidelizzazione del pubblico. Operazioni che nel vecchio mondo si sarebbero concluse in una settimana, richiedono ora decenni per ammortizzare i costi e fornire una serialità negli spettacoli di reportage militare e umanitario.

Per i telepoliti di mezza età vengono ancora presentati prodotti di intrattenimento definiti reportage, infotainment o docu-fiction, in cui si provoca lo sgomento impotente e l’orgoglio di appartenere ad una minoranza impegnata politicamente.

La vecchia confraternita di Marx (Echeverria 1995, p.22) era già in crisi trenta anni fa. Oggi alcuni altari rimangono per essere visitati dai pochi adepti sopravvissuti ma la cosa più importante è che gli artisti impegnati facciano parte del palinsesto iperdifferenziato dei contenuti accessibili sulle strade informatiche. Periodicamente migliaia di figuranti si incontrano con le bandiere rosse, gridando le formule rituali davanti alle telecamere per mantenere viva la memoria dell’antico culto. I culti contemporanei sono molto più seguiti. C’è la chiesa delle console, molto seguita in tutto il mondo ma nei quartieri ad est riesce a portare negli stadi decine di migliaia di persone per assistere i campioni più bravi. Nel Centro Storico il calcio resta il culto più seguito mentre nel Nuovo Mondo tutte le religioni hanno grandissimo successo grazie alla precoce disponibilità di canali tematici e della cultura Telepolitica. Molto seguite sono anche la chiesa dei rituali dell’accoppiamento e quella della preparazione del cibo. Per i ragazzi il culto del cadavere della natura (Echeverria 1995, p.20) viene mandato continuamente in onda sotto forma di documentari.

Un accenno all’economia nella visione del Telepolismo. La profezia di Echeverrìa si è diffusa nel nostro mondo Telepolitico. La fruizione di contenuti sugli schermi, ora finalmente interattiva, viene considerata da accademici, imprenditori ed economisti pienamente produttiva e meritvole di reddito. Non è più presente quel pregiudizio, dovuto alla apparente immobilità degli spettatori, che la fruizione di contenuti sia una forma di passività, in opposizione ad una presunta “vita autentica” fuori dagli schermi. In questi anni le antiche credenze materialiste si sono dissipate e finalmente tutti accettano che l’infosfera, quell’ecosistema in cui siamo immersi, sia l’unico mondo possibile e certamente il migliore che ci saremmo potuti immaginare.

Se ancora permane, per chi non ha accesso a tempo pieno alla ricchezza di Telepolis, una parte della vita che si svolge dolorosamente lontana dalle telecamere e dagli schermi, noi ci auguriamo che questa esistenza, ancora sottomessa alla degradazione del corpo e alle sue necessità possa al più presto terminare. Certamente è l’obiettivo della tecnologia che quella esistenza biologica, riproduttiva e faticosa venga ridotta fino a scomparire per essere tutti, finalmente, in onda. Pretendi il futuro. Pretendi il reddito. Pretendi la piena automazione.