Tecnopolitica e partiti digitali

Vicolo cieco del populismo plebiscitario o via obbligata a un’autentica democrazia?

di V. Pellegrino

Come siamo giunti sino a qui: la tecnologia nelle mani del capitale

La diffusione globale e pervasiva delle tecnologie digitali ha prodotto, nell’arco di circa 25 anni, una serie di trasformazioni radicali del mondo. Come prevedibile, queste trasformazioni si sono ripercosse su tutte le dimensioni del vivere umano e sull’essere umano stesso, con il costituirsi di nuove forme di soggettività quali prodotto diretto e, al contempo, concausa di queste nuove forme del produrre e del vivere, individuale e collettivo. Del formarsi delle nuove soggettività connesso alla rivoluzione tecnologica informatica e alla massificazione delle sue applicazioni, ho trattato nel mio articolo Dare parola al General Intellect. Dall’individuo sociale alla persona multidimensionale, apparso nello scorso numero di Rizomatica e al quale rimando per un approfondimento di questi aspetti. L’articolo si concludeva con una sorta di esortazione ad usare pienamente le potenzialità messe a disposizione dall’informatica per ricercare e perseguire una possibile alternativa allo stato di cose presente.
Sulla stretta relazione tra lo sviluppo tecnico e le trasformazioni della condizione umana esiste una vastissima letteratura, di carattere sociale, politico, filosofico, [1] che culmina, sul finire del secolo scorso, nella prospettazione di una rapida accelerazione del divenire antropologico legata a filo doppio alle potenzialità della tecnologia, sino a prefigurare l’ibrido uomo-macchina rappresentato dall’individuo cyborg [2] ed oltre, lungo la linea di fuga rappresentata da correnti di pensiero quali il Transumanesimo e il Postumanesimo. [3] Viene a porsi così, in tutta la sua rilevanza e drammaticità, la questione del controllo della scienza e delle sue applicazioni tecniche e tecnologiche: la consapevolezza che questo sia saldamente nelle mani del capitale e a completa disposizione dei suoi fini, in una condizione di crescita esponenziale della spirale virtuosa evoluzione scientifica/sviluppo tecnologico, ci pone nella necessità di ricercare e perseguire con ogni sforzo e risorsa una trasformazione rivoluzionaria dell’attuale assetto di potere. Se non si domina la tecnologia che si usa se ne è fatalmente dominati: il processo di tecnologizzazione dall’alto della società che stiamo vivendo in forma di giorno in giorno più esasperata, ci trasforma in pedine passive di un gioco che non abbiamo scelto, di cui non conosciamo il funzionamento né tanto meno le implicazioni. Se in passato l’uso capitalistico della tecnologia ha prodotto Hiroshima e Nagasaki, oggi la manipolazione genetica, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale, la regolazione algoritmica dei processi produttivi e riproduttivi della società, possono sfociare in esiti, se possibile, ancor più tragici e distopici. Scienza e tecnologia, se dominati da fini totalmente estranei al bene sociale come quelli capitalistici, si trasformano da strumenti di emancipazione e liberazione in quelli del suo definitivo asservimento e annientamento.

Digitalizzazione della produzione e della società

Come si rileva anche dall’incipit di questo articolo, nell’immaginario collettivo si tende a far coincidere la diffusione delle tecnologie informatiche con l’avvento e la diffusione di internet, negli anni Novanta del ‘900. In realtà, l’applicazione diffusa delle tecnologie digitali alla produzione inizia molto prima, già dalla fine degli anni ’70 – inizio degli ’80, con l’automazione delle fabbriche e l’informatizzazione del settore terziario. È il dispiegarsi di questi due processi paralleli a rompere definitivamente il rapporto di equilibrio tra domanda e offerta nel cosiddetto “mercato del lavoro”, rapporto che avrebbe dovuto tendere, secondo i principi politici della socialdemocrazia dell’epoca, alla massima occupazione. È il processo di innovazione tecnologica, nello specifico quello fondato sull’informatica, con il progressivo e costante aumento della produttività del lavoro che esso produce, che destabilizza e sconvolge i precedenti equilibri economici, sociali, politici: ciò che comunemente si designa con l’espressione Stato sociale e che ha caratterizzato i cosiddetti “trenta gloriosi”, il trentennio che va dal 1950 al 1980. Non certo uno stato di giustizia sociale né di autentica libertà ma una sorta di compromesso o “doppio movimento”, come lo indica Karl Polanyi nella sua fondamentale opera La Grande Trasformazione, [4] tutto interno al capitalismo, rivelatosi fragile e transitorio. La ricetta macroeconomica è quella proposta dall’economista britannico John Maynard Keyns, che individuava nel “deficit spending” (la spesa pubblica in deficit) le risorse per puntare alla piena occupazione e a un tenore dei salari tale da sostenere il livello dei consumi ed alimentare così il ciclo economico fordista.

La debolezza del sindacato: l’aumento di produttività va in rendite e profitti

Il sindacato, se avesse davvero voluto e saputo puntare a mantenere invariata l’occupazione a fronte dell’introduzione delle nuove tecnologie nella produzione, avrebbe dovuto cercare di tenere costante la produzione pro-capite di ciascun lavoratore, con una conseguente netta riduzione dell’orario di lavoro, possibile già in quegli anni, a compensare il costante aumento della produttività in atto. Ma ciò non si attuò: quelle tecnologie venivano introdotte, prima nelle fabbriche e poi negli uffici, proprio allo scopo di rovesciare a favore del capitale i rapporti di forza tra capitale e lavoro. L’aumento dei salari conseguito grazie al grande ciclo di lotte operaie avviatosi già dal dopoguerra, spinse il capitale ad attuare l’enorme processo di ristrutturazione tecnologica della produzione finalizzato a sostituire, attraverso l’automazione e l’informatizzazione, il lavoro umano con quello delle macchine. Il sindacato non solo non seppe alzare le rivendicazioni dei lavoratori ma si dimostrò prono alla volontà del capitale: la frattura tra gli interessi dei lavoratori e quella dei loro rappresentanti si mostrò in tutta la sua drammaticità. La mancanza o comunque l’insufficienza di forme di auto-rappresentanza organizzata dei lavoratori e la loro dipendenza dalla delega all’entità separata costituita dal sindacato si è rivelata l’anello debole della lotta del lavoro contro il capitale. Lo stesso Keynes, l’illuminato economista borghese teorico dello Stato sociale, aveva compreso già negli anni ’30 del secolo scorso che, grazie allo straordinario aumento di produttività ottenuto attraverso l’introduzione delle nuove tecnologie, sarebbe stato sufficiente lavorare tre ore al giorno per contrastare quello che indicava come il “morbo” della “disoccupazione tecnologica”5. Il fatto che Keynes indichi come “morbo” il potenziale fattore di liberazione dell’umanità dal lavoro, vale a dire lo sviluppo scientifico-tecnologico, la dice lunga sul suo orientamento ideologico: in fondo anch’egli non riusciva a vedere un mondo nel quale il lavoro umano non sarebbe più stato il fattore centrale della produzione né del vivere sociale. [6] Com’è noto, la riduzione generalizzata del tempo di lavoro non si diede affatto e la sua possibilità e opportunità si rovesciarono invece, proprio a causa della mancanza di una adeguata rappresentazione politica degli interessi della classe lavoratrice, della sostanziale mancanza di una sua organizzazione, nel capestro del lavoro sfruttato, servile, precarizzato, sottopagato: il capitale e la rendita hanno vinto sul lavoro. La spietata e cinica “legge del mercato”, in questo caso il “mercato del lavoro”, trionfò per l’ennesima volta: l’economia “vinse” ancora sulla politica.

Fine dell’unità dei lavoratori

Se dovessimo individuare un evento politico preciso come segno simbolico di questo spartiacque, in Italia potremmo indicare la manifestazione dei quadri della Fiat avvenuta il 14 ottobre 19807. Oltre a rompere l’unità sindacale tra tute blu e colletti bianchi, questo evento vide la netta vittoria del padronato su di una classe lavoratrice non più omogenea in termini di funzioni, differenziata appunto tra mansioni “basse”, quelle ancora prettamente manuali, ed “alte”, quelle dei tecnici preposti al controllo numerico delle macchine, alle attività di progettazione, ingegnerizzazione, marketing. Questo momento, insieme alla sconfitta dei lavoratori, segna l’inizio della definitiva e irreversibile “crisi occupazionale” del settore industriale determinata dalla progressiva e sempre più massiccia automazione del ciclo produttivo e dall’accaparramento capitalistico di tutti gli enormi aumenti di produttività che così venivano tradotti in profitti e rendite, con la completa esclusione dei lavoratori dal godimento dei risultati dell’innovazione scientifica e tecnologica e con l’avvio di decine di migliaia di licenziamenti, una fortissima contrazione a livello mondiale del monte-salari a favore del drastico aumento di rendite e profitti ed il progressivo arretramento della forza organizzata dai lavoratori.
Un processo parallelo e del tutto analogo si attua nel settore terziario attraverso la sua informatizzazione. La diffusione sempre maggiore del personal computer, la nuova proposta tecno-commerciale dell’industria elettronica americana, fa sì che anche il campo dei servizi e della Pubblica Amministrazione venga investito in pieno da un processo di profonda ristrutturazione, anche qui con pesantissimi tagli occupazionali, in particolare nel settore privato numericamente più rilevante, quello bancario.
L’arrivo di Internet, nel corso degli anni ’90, farà nascere molte speranze sulla possibilità che questo nuovo strumento di comunicazione possa essere anche un fattore di emancipazione culturale, sociale, politica. Il web rimarrà per circa un decennio terra vergine di frontiera dove i movimenti sociali e politici credettero di poter trovare il proprio ideale spazio di relazione ed espressione.
Sarà solo con l’arrivo del cosiddetto Internet 2.0, vale a dire del web interattivo dove l’utente non si limita a fruire di contenuti ma ne diviene esso stesso produttore, che avrà pieno dispiegamento la colonizzazione a fini economici della rete. Ha così inizio l’era del dominio delle piattaforme (spazi-mondo a sé, enclave del web che, in tal modo, diviene uno spazio parcellizzato, frammentato in tanti contesti separati e non comunicanti), rigorosamente proprietarie e chiuse, [8] dove i principali social network, da Facebook a You Tube a Twitter, tenteranno persino di accreditarsi come luoghi di esercizio della democrazia. [9]

Tecnopolitica

È in questo contesto che si sviluppa una serie di processi in campo politico che potremmo sintetizzare con il termine di “Tecnopolitica”. Il concetto di “Tecnopolitica” è piuttosto ampio ed allude a forme e contesti applicativi anche molto diversi. [10] Questa espressione sta ad indicare, in termini generali, quella politica che si avvale delle tecnologie, nell’accezione qui usata specificatamente quelle digitali, per l’esercizio della sua azione. Si va quindi dall’uso strumentale dei social network a fini propagandistici in occasione di campagne elettorali tradizionali, [11] all’impiego delle cosiddette piattaforme decisionali nell’ambito di movimenti sociali e politici, sino alla costituzione e all’azione di veri e propri partiti politici, sostanzialmente diversi da quelli tradizionali proprio per il loro carattere digitale che consente, almeno in termini potenziali, forme inedite di coinvolgimento, partecipazione, autorappresentazione della loro base.
È piuttosto evidente come la tecnologizzazione della politica presenti grandissime potenzialità emancipatrici insieme a gravi rischi per la tutela della libertà e della riservatezza. Le grandi piattaforme proprietarie, come Facebook, Google, Twitter, Amazon, Microsoft, You Tube, Apple, Uber, Airbnb, ecc., solo per citare le più note, seguono un fine estrattivista, vale a dire che, sfruttando la produzione di contenuti da parte degli utenti, estraggono profitti dalla vendita di spazi pubblicitari e dei dati degli utilizzatori. Il loro approccio, quali imprese economiche a carattere privato, è totalmente orientato, com’è ovvio che sia, al profitto. Si direbbe che l’intera economia capitalistica del XXI secolo sia ormai destinata a strutturarsi sotto forma di piattaforme digitali a dimensione planetaria, i cui vantaggi in termini di ottimizzazione dei processi produttivi e logistici sono evidenti rispetto alla precedente organizzazione “analogica” degli scambi economici ma il cui assetto proprietario non fa che concentrare ancor più, sotto forma di rendite e profitti, la ricchezza prodotta.
Oggi, a distanza di circa 15 anni dalla loro comparsa, sta lentamente nascendo una consapevolezza sociale, al momento ancora piuttosto circoscritta e limitata, fondata sulla critica economica, sociale, politica della natura delle piattaforme e sul loro modo di operare. Sta altresì sviluppandosi, sull’onda di questa consapevolezza, un movimento volto alla costruzione di possibili alternative, orientato quindi a forme federate, dal basso, inedite, di social network [12] ma anche di offerta di servizi di ogni genere, dai motori di ricerca che non tracciano gli utenti a spazi cloud gratuiti, software open and free e molto altro. [13]
La diffusione dell’uso delle piattaforme ha determinato, in particolare nei contesti meno politicizzati della società, cioè nella sua parte decisamente maggioritaria, una certa illusione di libertà e di democrazia: l’esistenza di reti unitarie con miliardi di iscritti sparsi sui cinque continenti, la possibilità di scambiare attraverso di esse, in modo apparentemente diretto e incondizionato, informazioni e contenuti di ogni sorta sotto forma di testi, immagini, musica, video, ora anche trasmissioni in diretta, forniva molte buone ragioni per accreditare ai social network potenzialità emancipatrici e liberatorie su scala planetaria. Per contro, la natura proprietaria e privatistica di queste infrastrutture, il carattere “chiuso” del software utilizzato, la genesi e i fini stessi dell’iniziativa che ne ha determinato la nascita, ha prodotto sin da subito, nel segmento più consapevole e avveduto degli utenti della rete, una forte diffidenza che ha presto portato all’elaborazione di una critica, prima, e all’attuazione di una vera e propria opposizione, poi, nei confronti di queste reti progettate, gestite e finalizzate dall’alto. Lentamente ma progressivamente, la consapevolezza di questo grande inganno sta allargandosi, fondendosi con il rigetto istintivo che la dimensione cacofonica propria dei social produce anche in chi prescinde da considerazioni critiche di natura politica. Inoltre, gli algoritmi che regolano il loro funzionamento producono delle vere e proprie “bolle comunicative” nelle quali ogni utente viene messo a contatto con propri simili, con altre persone che la pensano allo stesso modo, hanno il medesimo orientamento politico o gli stessi interessi e passioni, favorendo un senso di comfort e fiducia che a sua volta stimola la produzione e la condivisione di contenuti. Sono questi ultimi il vero e solo “valore aggiunto” all’intera impresa ed essi sono prodotti interamente e in forma gratuità dagli utenti che assumono così il carattere di prosumer, termine inglese che fonde le parole producer (produttore) e consumer (consumatore). Si viene così a determinare la situazione assurda e paradossale nella quale una buona fetta dell’umanità, la più larga porzione di quella digitalizzata e connessa, produce ricchezza a titolo gratuito per la piccolissima schiera degli azionisti delle società proprietarie dei network.

I partiti digitali

Nonostante l’evidenza di questa realtà, durante l’onda ascendente dell’era social e sfruttandone la spinta, sono comparsi i primi partiti politici digitali che del principio della piattaforma hanno fatto il loro carattere costitutivo. In un libro molto recente, [14] Paolo Gerbaudo svolge un’utile disamina delle principali esperienze di questo genere. Egli descrive la nascita, gli sviluppi e le principali caratteristiche di partiti digitali come il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna, La France Insoumise in Francia, i partiti pirata in Germania e in Svezia ma fornisce informazioni anche sull’esperienza di movimenti e gruppi di supporto come Momentum per il Labour in Gran Bretagna, e quello a sostegno della campagna alle primarie di Bernie Sanders negli Stati Uniti. Pur essendo queste le più importanti e significative esperienze di questa nuova tipologia di organizzazione politica, si può affermare che quella della digitalizzazione dell’attività politica sia una tendenza ormai generalizzata e sempre più conclamata, non solo nei paesi occidentali.
Tra le ragioni che hanno favorito la nascita di questo nuovo tipo di organizzazione, oltre banalmente alla disponibilità di strumenti informatici prima inesistenti, vi è certamente la crisi verticale, profonda ed irreversibile del metodo rappresentativo, la forma elettiva di espressione della volontà politica delle masse e di esercizio del potere da parte delle élite nell’era delle democrazie formali, quelle che caratterizzano il mondo occidentale almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Di questa crisi e delle sue ragioni ho trattato nell’articolo Per una Politica Rizomatica. Verso un nuovo paradigma politico, comparso nel numero zero di questa rivista ed al quale rinvio per maggiori dettagli.
Una forte spinta alla nascita di questa nuova forma organizzativa dell’attività politica è giunta dal grande desiderio di disintermediazione che caratterizza la soggettività diffusa nei tempi attuali e che è misurabile anche dal forte discredito che colpisce da molti anni ormai i cosiddetti “corpi intermedi”, quelle strutture storicamente finalizzate proprio alla messa in relazione delle istanze provenienti dalla base con chi è preposto all’esercizio del potere pubblico: partiti politici, sindacati, associazioni di vario genere, comitati, ecc. La ragione profonda della loro crisi risiede proprio nel carattere rappresentativo su cui si fonda il loro funzionamento che consente la distorsione, la manipolazione se non il vero e proprio disconoscimento della volontà della base rappresentata a favore degli interessi molto più “sponsorizzati” di questo o quel gruppo di potere, settore, lobby: l’esito è la sistematica frustrazione degli interessi generali a tutto vantaggio di quelli particolari.
I partiti digitali, per come si sono dati e manifestati nella realtà, sono il tentativo di superare la forma rappresentativa a favore di forme più dirette e partecipate di espressione della volontà della base; uno dei principali motivi della loro attrattiva è l’apparente disintermediazione che renderebbero possibile. Se è indubbio che le piattaforme digitali consentono una maggiore partecipazione della base, è altrettanto vero che questa partecipazione ha carattere meramente plebiscitario dato che l’iscritto ha unicamente la possibilità di esprimere un consenso o un dissenso su di una proposta che cala dall’alto, di prendere o lasciare qualcosa che non ha contribuito a definire. Da questo punto di vista, è opportuno inserire delle distinzioni tra i vari casi, sia in relazione alla genesi dell’iniziativa della loro fondazione che agli strumenti digitali adottati. Le architetture informatiche utilizzate dai vari partiti digitali sono diverse l’una dall’altra e, mentre nel caso dei partiti pirata, con il loro forte orientamento libertario, si rileva una autentica volontà democratica riflessa anche dalla scelta della piattaforma decisionale adottata (nel loro caso, il software LiquidFeedback), [15] per quanto riguarda partiti a forte orientamento populista, come il M5S, questa determinazione ad ancorare i processi a metodi effettivamente democratici non esiste affatto.
L’elemento dirimente per definire l’effettivo grado di democraticità dei processi adottati dai partiti digitali è la possibilità o meno di presentare proposte da parte di qualsiasi iscritto: è solo questa possibilità che mette tutti gli aderenti sullo stesso piano di potere, escludendo ogni ipotesi di gruppo dirigente, leadership ristretta, “cerchio magico”. L’uso degli strumenti informatici da parte dei partiti digitali esistenti, con l’esclusione dei partiti pirata per i quali andrebbe fatto un ragionamento a parte, è stato di carattere fortemente plebiscitario, con la possibilità di presentazione delle proposte da mettere ai voti appannaggio esclusivo dei vertici del partito. La disintermediazione ricercata dagli aderenti a questi partiti è quindi, in realtà, solo apparente: se infatti queste nuove forme organizzative determinano l’eliminazione del grosso apparato dei quadri intermedi, necessario nei partiti tradizionali per interfacciare la base del partito con il suo gruppo dirigente, per contro prevedono un metodo di implementazione delle decisioni, cioè, in altri termini, un’architettura informatica degli strumenti propositivo-elaborativo-decisionali ed un sistema di policy per il loro utilizzo, del tutto preconfezionato, precostituito, sottratto al confronto, alla valutazione ed alla scelta da parte della base. Le forme di intermediazione tra base e vertice del partito non vengono quindi, di fatto, eliminate ma solo sostituite: si passa da un apparato di intermediazione fatto di persone ad uno costituito da algoritmi.
Gerbaudo nel suo libro propone una serie di correttivi da adottare per rendere più credibili questi nuovi partiti: 1) realizzare un maggiore livello di democrazia interna dando maggior possibilità di iniziativa alla base; 2) prevedere dei luoghi e dei momenti di incontro, sia locali che regionali e nazionali, in presenza, in modo da sviluppare la conoscenza e la fiducia reciproca tra gli aderenti; 3) conferire la gestione tecnica delle piattaforme informatiche a soggetti terzi, neutrali, che ne garantiscano il corretto funzionamento; 4) superare i tabù della delega/rappresentanza e della burocrazia in quanto, secondo l’autore, forme non eliminabili dalla struttura organizzativa.
Pare evidente come questi correttivi, pur utili, non siano sufficienti a conferire un carattere effettivamente democratico a queste organizzazioni ma che serva invece una ristrutturazione radicale basata sulla possibilità di presentare proposte estesa a tutti gli aderenti, sulla libera e condivisa scelta del software decisionale da adottare e sulla comune definizione delle policy regolanti le procedure di proposta – discussione – elaborazione – decisione, volta a porre tutti i partecipanti su di una base di effettiva parità, escludendo ogni privilegio riservato agli amministratori delle piattaforme (come la Casaleggio & Associati nel caso della piattaforma del M5S, Rousseau) e al gruppo dirigente, il solo invece ora legittimato a decidere quali proposte sottoporre al voto in piattaforma. È solo in tal modo che si dà un effettivo processo democratico, potenzialmente in grado di decidere su tutto, compresa la cosa più importante: la propria forma organizzativa interna. Diversamente, si vengono a determinare degli apparati falsamente democratici, di tipo oligarchico o dominati da super leader di natura carismatica, fondati su di un metodo plebiscitario che favorisce un orientamento fortemente populista della loro azione politica. Il grado di democraticità di un’organizzazione non dipende affatto da quante volte si vota ma dalla definizione diretta, da parte della base, della forma organizzativa interna e dal livello di apertura della struttura software alla libera iniziativa di tutti i membri. Ciò corrisponde al concetto di “Assemblea permanente”16 che ho brevemente illustrato nel mio articolo “Per una politica rizomatica”, già richiamato più sopra.

Sperimentazione di un nuovo modello

Ma perché tutto ciò possa effettivamente realizzarsi, è innanzitutto necessario che l’iniziativa politica di costituzione del partito-piattaforma sotto la forma di Assemblea permanente, parta da un embrione di base, da un gruppo di autoconvocati che, attraverso il metodo dell’autorappresentanza, avvii il processo costitutivo/costituente. Un tale tentativo in Italia è stato messo in atto dal gruppo politico Prima le Persone che, a partire da un’istanza rigettata di democrazia interna all’esperienza elettoralistica de “L’Altra Europa per Tsipras”, ha avviato un percorso di sensibilizzazione sul tema della democrazia interna alle organizzazioni politiche, vale a dire sulla forma organizzativa orizzontale, tentando del contempo di avviare il processo e adottando a tale scopo una piattaforma propositivo-decisionale basata sul software LiquidFeedback, progettato e sviluppato dal Partito Pirata tedesco. Fin da subito tale tentativo si è scontrato con il problema dei media attraverso cui lanciare la proposta, cioè delle risorse economiche necessarie ad innescare un processo su larga scala in grado di raggiungere una “massa critica” sufficiente a dare il necessario abbrivio all’intero processo. Ci si misura quindi fin da subito con il problema della disponibilità dei “mezzi” necessari al raggiungimento dei “fini”. L’esperienza storica del Movimento 5 Stelle dimostra come sia decisamente più facile definire un progetto politico in un ambito ristretto (Grillo – Casaleggio (!?), con il loro entourage di collaboratori) e calarlo poi dall’alto, grazie a idonei finanziamenti, su di una determinata realtà sociale recettiva nei confronti di un messaggio sostanzialmente populista (la supposta, cosiddetta antipolitica, che invece è politica a tutti gli effetti). Non può ovviamente essere questo il processo necessario alla costituzione di una forza politica in grado di rivoluzionare l’assetto economico e politico di un paese. Il grande successo iniziale, soprattutto sul piano elettorale, del M5S è da imputare all’abile sfruttamento dell’enorme malcontento che serpeggiava e tuttora serpeggia nella società; questa grande spinta di dissenso è stata poi, di fatto, “congelata” nel totale immobilismo della pur considerevolissima truppa di parlamentari eletti nelle liste del Movimento. Lo stesso Grillo ha apertamente dichiarato che solo grazie alla sua iniziativa politica si sono potute disinnescare le proteste di piazza: la frustrazione popolare è stata convogliata nel nulla, cioè verso una forza le cui politiche, al momento di salire al governo, si sono immediatamente conformate alle “istanze capitalistiche di governo globale”.

Serve un movimento di dimensioni continentali

Considerando anche il forte svuotamento di sovranità che ha subito negli ultimi tre decenni la dimensione nazionale, emerge la necessità di porre fin da subito le basi per lo sviluppo di un movimento di carattere sovranazionale. L’omogeneità del regime economico imposto a livello continentale dall’Unione Europea, l’ordoliberalismo o ‘economia sociale di mercato’17, determina la necessità di costituire un’opposizione e un’alternativa a questo regime che abbiano dimensione quantomeno continentale, ancor meglio internazionale, considerato che la globalizzazione, economica ma non solo, è in atto ormai da almeno un paio di decenni. Non vi è alcun motivo per cui le forze e i movimenti che si oppongono all’attuale assetto del potere rimangano confinate entro la dimensione nazionale: al contrario, è solo dalla loro unione che potranno nascere i reali presupposti per un il cambiamento radicale, rivoluzionario che è necessario.
Non è tuttavia sufficiente il carattere sovranazionale in sé, come ben dimostra il sostanziale fallimento dell’esperienza di DiEM-25, la proposta politica a dimensione europea fortemente voluta dall’ex-ministro delle finanze greco Yannis Varoufakis, se il progetto, per quanto ben concepito, viene poi calato dall’alto. Parte centrale del problema dell’attuale modo di fare politica è proprio la scissione tra l’alto e il basso, tra gruppo dirigente e base, tra pretendenti rappresentanti e rappresentati. Non esistono assetti intermedi tra quello basato sull’autorappresentanza e quelli fondati sul modello rappresentativo. [18]
Il metodo dell’Assemblea permanente non rappresenta in alcun modo una trasformazione, un’evoluzione o un aggiustamento del metodo rappresentativo: è qualcosa di decisamente altro. Esso si presta ad essere applicato in tutti i contesti ove sia necessario assumere decisioni riguardanti una comunità, un gruppo, un qualsiasi contesto umano: dai partiti politici propriamente detti [19] ai sindacati, dalle associazioni ai collettivi sino alle stesse istituzioni pubbliche. Fa specie apprendere come la stessa Google stia valutando l’adozione al suo interno di una piattaforma molto simile a LiquidFeedback a dimostrazione che l’introduzione di nuove procedure propositivo-decisionali più orizzontali e trasparenti possa giovare anche in contesti finalizzati alla massimizzazione dell’efficienza e degli utili. È solo attraverso la diffusione generalizzata di questa nuova modalità dell’agire collettivo che sarà possibile (ri)prendere il controllo, stavolta dal basso, della megamacchina impazzita del capitalismo neoliberista.

La democrazia interna non è (solo) una questione di principio

Deve essere chiaro, nel tirare le conclusioni di questa breve e certo non esaustiva riflessione sull’esigenza di una nuova concezione della Politica, che tale esigenza non è dettata unicamente da un principio di giustizia sociale che, comunque, resta una questione determinante: il principio egualitario, uno dei fondamenti già della Rivoluzione francese, se pensato nei termini radicali che esso oggi richiede, cioè estendendolo a tutte le classi sociali e non solo ai ceti abbienti, come si fece in Francia ad esito del Secolo dei Lumi, è certamente più attuale e determinante oggi che allora. La necessità di un ripensamento a 360° della dimensione politica è legata soprattutto al bisogno di una sua elevazione generale, di un suo affrancarsi definitivo dal metodo rappresentativo, con tutti i suoi gravissimi limiti intrinseci, [20] per essere in grado di considerare pienamente la complessità che caratterizza il mondo attuale ed agire su di essa per il perseguimento di una reale evoluzione della condizione dell’intera umanità e la salvaguardia del pianeta che la ospita. Un metodo che preveda la possibilità da parte di chiunque – individui o gruppo che sia – di avanzare idee, presentare proposte, di migliorarle attraverso emendamenti condivisi, di produrre controproposte o proposte alternative, di decidere su di esse con il voto dell’intera collettività dei partecipanti, rappresenterebbe un salto di qualità abissale se paragonato all’indecente teatrino della pseudopolitica che conosciamo oggi. È cioè necessario definire, sperimentare, mettere a punto e praticare un processo in grado di far emergere quella che Pierre Lévy ha definito Intelligenza collettiva. [21]
Se è indubbio che l’insieme dei gravissimi problemi che affliggono la vita dell’umanità e l’equilibrio ecosistemico discendono, direttamente o indirettamente, dalla forma capitalista che domina i rapporti economici, sociali e politici, la stessa capacità di concepire e perseguire una reale alternativa dipende proprio da una ridefinizione complessiva del campo politico generale, a partire dal suo senso e attraverso l’adozione di prassi ad esso adeguate.

La posta in gioco

L’esigenza di questo salto qualitativo, di questo scarto di paradigma nel modo di concepire la dimensione politica, considerato il rapido degenerare della crisi strutturale dell’attuale assetto del potere e l’incombere della cesura dello sconvolgimento ecosistemico, ha come posta in gioco la possibilità stessa di un futuro degno di essere vissuto. Inventare il futuro [22] è proprio il titolo di un libro uscito in Italia nel 2018 e scritto da Nick Srnicek e Alex Williams nel quale si esprime la necessità di implementare le attuali forme e i modi di praticare la politica nel campo anticapitalista, che gli autori definiscono con il termine di folk politics, con nuove modalità guidate da una logica di carattere strategico, capace di fare davvero i conti con la complessità della situazione attuale e con l’effettiva natura ed entità delle forze in campo: è l’esortazione ad un approccio realista e non meramente idealista ai problemi che il capitalismo postindustriale ci pone di fronte. Ebbene, l’elaborazione di questa strategia e la definizione delle molteplici tattiche necessarie a metterla in atto nei più disparati contesti, non può che scaturire da un modo nuovo e “all’altezza dei tempi” di concepire e praticare la politica. Non vedo altro modo di elaborare ed agire degli “universali sovversivi” capaci di produrre un nuovo processo egemonico in grado di sovvertire, appunto, l’universale capitalistico dimostratosi in grado di penetrare con disinvoltura ogni civiltà e pressoché ogni cultura di questo pianeta.

La consapevolezza necessaria: la questione delle nuove prassi

Nel prospettare questa “politica del futuro”, serve essere consapevoli fin da subito delle implicazioni profondissime che essa porta con sé, in particolare in termini di trasformazione delle prassi. Se pensiamo alla diffusione globale di un modello politico basato sulla democrazia diretta com’è quello dell’Assemblea permanente, alla sua adozione massificata, ci rendiamo presto conto di quale trasformazione radicale ciò implica per i concreti comportamenti delle persone. Oggi la partecipazione politica attiva delle masse è chiamata in causa pressoché solo al momento delle elezioni dei propri rappresentanti nelle istituzioni pubbliche. Tutto il “lavoro politico” vero e proprio è delegato, attraverso questo momento rituale e vuoto del voto, ad un ceto politico più o meno professionalizzato, totalmente asservito, per mezzo di quei veri e propri “comitati d’affari” che sono oggi i partiti, agli interessi economici dominanti.
Lo svolgimento della politica in forma di Assemblea permanente, richiede ben altro impegno da parte dei cittadini: la partecipazione cessa di essere un mero diritto da esercitare a piacere e diviene un vero e proprio dovere civico, seppur non immediatamente cogente. Diviene fondamentale assumere tutte le informazioni necessarie a partecipare, con cognizione di causa, ai processi decisionali che l’attività incessante dell’Assemblea permanente (“permanente” ha proprio questo significato) produce. A proposito di informazione, della sua qualità, della sua libertà, della sua disponibilità, sarebbe necessario aprire un ampio capitolo ma non può essere questa la sede; ci limitiamo a far presente che la questione dell’informazione deve essere assunta in tutta la sua rilevanza come fattore determinate del progetto stesso come qui prospettato.
Per quanto anche il sistema dell’Assemblea permanente preveda la possibilità di delegare il proprio voto su di una specifica questione a qualcuno di cui si ha fiducia e che si ritiene competente sulla materia specifica, è di fondamentale importanza che l’espressione della propria volontà sia di norma esercitata in forma diretta: l’alternativa, cioè il ricorso sistematico alla delega a favore di “esperti”, non farebbe che configurare una sorta di tecnocrazia. Il considerevole aumento dell’attività politica individuale e generale in un regime di democrazia diretta rappresenta il necessario prezzo da pagare per affrancarci dall’attuale forma della decisione politica (vale dire l’imposizione, senza ormai alcuna sorta di mediazione, degli interessi economicamente egemonici: è perlomeno dalla caduta del muro di Berlino e dall’affermazione globale del neoliberalismo che è cessata ogni parvenza di mediazione politica degli interessi delle diverse classi sociali) e inaugurare così una nuova era per l’umanità. Non è tuttavia indispensabile, nello sviluppo di questa prospettiva, che, dall’oggi al domani, l’intera popolazione sia chiamata ad un simile sforzo partecipativo; sarebbe sufficiente che la parte della società già oggi più “connessa” (nelle diverse accezioni del termine) si rendesse protagonista di questa indispensabile intrapresa politico-sociale. La quota crescente di tempo liberato dal lavoro [23] potrà utilmente essere impiegata, almeno in parte, proprio alla necessaria partecipazione politica. Il punto di partenza potrebbe essere proprio la costituzione di un partito politico basato sul modello di Assemblea permanente per innescare poi una serie di cambiamenti a cascata sull’intera società e produrre così una vera e propria onda trasformativa. L’enorme malcontento che pervade l’Occidente e il mondo intero, apre indefiniti spazi politici favorevoli ad una svolta verso una democrazia effettiva, verso un governo dal basso delle nostre comunità; ma se questo processo di emancipazione non si innescherà in tempi brevi, prevarrà la deriva reazionaria e fascista di cui ogni giorno di più vediamo l’avanzare.
Sul concetto di partecipazione è stato coniato il termine “partecipazionismo” che, così come “orizzontalismo”, è connotato da diversi autori in senso prevalentemente negativo, associato spesso a protagonismo, individualismo e narcisismo. Questa connotazione negativa origina dal genere di “partecipazione” che si può esprimere nei social network, questa sì fortemente individualistica e tendenzialmente finalizzata all’autopromozione se non al vero e proprio “self-staging”. La partecipazione che l’Assemblea permanente intende promuove è quella politica, vale a dire un coinvolgimento attivo della persona (nel senso pieno del significato che gli ho attribuito nel mio già citato “Dare parola al General Intellect. Dall’individuo sociale alla persona multidimensionale”) che nasce proprio dal riconoscimento dell’esigenza di confrontarsi con gli altri, di trovare con essi la possibile forma della migliore convivenza auspicabile nella condizione data dell’“essere in comune”. [24] In politica non ci deve essere più spazio né per leaderismi e personalismi né, quindi, per gregari e seguaci.

I mezzi ed i fini

Deve essere chiaro che la proposta di metodo che ho cui presentato come Assemblea permanente non è altro che l’ipotesi di un mezzo, uno strumento, ancora tutto da ideare, sperimentare, elaborare, definire e ridefinire, per la riattivazione del percorso di ricerca incessante di un modo degno e desiderabile di vivere insieme, costruendo un mondo diverso su queste basi. Come per tutti gli strumenti, l’informatica applicata alla politica può dare ottimi come pessimi risultati, dipende dalle forme e dai modi di questa applicazione.
Come scrive Gianmarco Gometz nell’introduzione del suo Democrazia elettronica. Teoria e tecniche: [25] “Temo che questo libro scontenterà sia i fautori più entusiasti sia i detrattori più accaniti della democrazia elettronica, giacché ribadisce in fondo un unico deludente messaggio: l’applicazione delle tecnologie digitali ai processi democratici del mondo reale, per sé, non assicura né impedisce che la democrazia funzioni meglio di quanto abbia fatto finora, non corregge né peggiora le storture eventualmente derivanti da un difettoso assetto istituzionale, non produce necessariamente soluzioni più condivise né è in grado di annullare i rischi di involuzioni antidemocratiche e autoritarie. Soprattutto, la digitalizzazione della democrazia non ne altera il senso complessivo di impresa collettiva funzionale alla decisione per via maggioritaria su questioni controverse e irresolubilmente conflittuali, né la trasforma magicamente in una procedura produttiva di soluzioni “migliori” in quanto ponderate, ragionate o produttive di consenso sul “bene comune” o l’“interesse generale”. Ciò del resto non sorprende; le tecniche della democrazia, in quanto tali, non cambiano la teoria della democrazia, i cui problemi come vedremo continuano a essere gli stessi di sempre anche nei nuovi scenari digitali. Occorre però riconoscere che le tecnologie informatiche possono diventare un elemento importante del sostrato materiale di quel metodo di decisione collettiva che chiamiamo “democrazia”, nel senso che possono agevolarne in vari modi l’esercizio e forse perfino influenzarne i risultati.”
Detto ciò, sulla supposta neutralità dei mezzi rispetto ai fini, che anche questa citazione sembra voler confermare, vi è tuttavia da obbiettare che i “mezzi impiegati”, intesi qui come metodo e non come mero strumento tecnico, non possono contraddire i fini che si intende perseguire né tantomeno “i fini giustificano i mezzi”, secondo un’arbitraria semplificazione del pensiero di Machiavelli. I mezzi, per funzionare, per essere produttivi, devono contenere già in sé i medesimi principi che informano i fini: la democrazia non può essere perseguita che con mezzi democratici: tutto il resto è demagogia e bieco populismo.
La crisi dilagante del capitalismo liberticida è avanzata in parallelo ad uno straordinario sviluppo scientifico e tecnologico, nonostante questo sia stato tenuto a freno nel deliberato tentativo di utilizzarlo ad esclusivo vantaggio di quello sparuto 1 per mille della popolazione mondiale26 che oggi domina pressoché incontrastato il mondo. Non esistono scorciatoie per uscire “in avanti” dal cul-de-sac in cui è imprigionato il divenire della storia, rispetto al salto paradigmatico che la politica è chiamata a fare. L’indubbia difficoltà a ricercare, sperimentare ed adottare prassi così radicalmente nuove nella ricerca di una vera democrazia non deve assolutamente dissuadere dall’intraprendere con decisione e urgenza questa strada che, per rispondere alla domanda che sottotitola questo scritto, costituisce la via obbligata verso un futuro non solo degno di essere vissuto ma autenticamente desiderabile.

Note

1 – Particolarmente significativa, sul piano dell’indagine filosofica, è l’opera di Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana. Ed. Bompiani 2017
2 – Cfr. Donna Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo. Ed. Feltrinelli 2018
3 – Cfr. Robert Pepperell, The posthuman manifesto. qui reperibile in italiano: http://www.kainos.it/numero6/emergenze/emergenze-pepperell-it.html.
4 – Karl Polanyi, La Grande Trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi 2017
5 – J. M. Keynes, Economic Possibilities for Our Grandchildren, Londra, 1931; Possibilità economiche per i nostri nipoti. Adelphi 2009, pp.19 e ss. Traduzione di M. Parodi
6 – «Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi.» (John Maynard Keynes, Autosufficienza nazionale, 1933). Questa frase sintetizza alla perfezione l’orientamento politico dell’economista britannico che, pur criticando la forma economica capitalistica, rifiutava al contempo ogni prospettiva socialista (vi è da dire che, a detrimento di questa prospettiva, il suo reale divenire storico era già da qualche anno approdato, in Unione Sovietica, al dominio stalinista).
7 – Detta anche “marcia dei quarantamila”: si trattò di una manifestazione sostanzialmente antisindacale organizzata dai quadri tecnici ed impiegatizi della Fiat a favore dell’apertura di una trattativa con la dirigenza della fabbrica: https://it.wikipedia.org/wiki/Marcia_dei_quarantamila.
8 – Per una critica dei social network proprietari, vedasi Ippolita, Anime elettriche. Riti e miti social. Ed. Jaca Book 2016, ma l’intera produzione del collettivo Ippolita è orientata allo studio ed alla critica delle tecnologie digitali e alla filosofia della tecnica.
9 – Vedasi, per esempio, la leggenda metropolitana secondo la quale le cosiddette “Primavere arabe” si sarebbero potute concretizzare solo grazie all’uso di Facebook.
10 – Vedi l’omonima voce dell’Enciclopedia Treccani curata da Stefano Rodotà nella quale l’autore, tra l’altro, così si esprime: «omissis.. La prospettiva dei referendum elettronici, o di una immensa electronic town hall (municipio elettronico) corrispondente a un’intera nazione, ha fatto da tempo riproporre l’immagine di una democrazia che, riguadagnato il suo popolo, torna ad abbeverarsi alle antiche sorgenti, alla democrazia diretta ateniese.»
Per poi aggiungere, a riprova di una logica rigorosamente vincolata al metodo rappresentativo, oltre che di un atteggiamento pesantemente paternalista: «Nei primi anni del XXI secolo ha perduto forza l’ipotesi estrema di una democrazia elettronica che, in una rozza versione della democrazia dell’agorà, avrebbe dovuto portare alla cancellazione dei luoghi della rappresentanza. Si è divenuti consapevoli del fatto che, in tal modo, si sarebbe piuttosto materializzato uno dei sogni d’ogni populista, la cancellazione del Parlamento attraverso il rapporto diretto tra il leader al vertice della piramide del potere e la massa dei cittadini.»
È piuttosto evidente che quella a cui si riferisce qui Rodotà è una democrazia populista e plebiscitaria sul modello di quella proposta dal M5S ma applicata non all’interno di un partito bensì direttamente al governo delle Istituzioni Pubbliche, nulla a che vedere con il concetto di “Assemblea permanente” qui proposto.
https://www.treccani.it/enciclopedia/tecnopolitica_%28Enciclopedia-Italiana%29/.
Proprio su questo aspetto, quello del governo diretto delle istituzioni, vedasi le numerose esperienze di neo municipalismo, attraverso l’uso di piattaforme per la partecipazione diretta dei cittadini, promosse in diverse città spagnole, in particolare Barcellona (Sindaca Ada Colau e assessora alle tecnologie e all’innovazione digitale Francesca Bria), da gruppi e movimenti politici vicini a Podemos.
11 – Già qui si dovrebbe aprire un capitolo sull’uso fraudolento dei dati e delle informazioni in genere messo in atto da questi mostruosi colossi del network, come nel recente caso di Cambridge Analytica che ha visto il coinvolgimento diretto di Facebook: https://it.wikipedia.org/wiki/Cambridge_Analytica.
12 – Su questo, vedasi il concetto di Fediverso ed il suo significato: https://it.wikipedia.org/wiki/Fediverso.
13 – Vedi il movimento De-googling: https://en.wikipedia.org/wiki/DeGoogle e, a puro titolo di esempio, l’elenco dei servizi alternativi, non solo a Google, proposto da questo sito: https://switching.software/.
14 – Cfr. Paolo Gerbaudo, I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme. Ed. Il Mulino 2020
15 – Vedi la descrizione di LiquidFeedback fornita da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/LiquidFeedback.
15 – Ai seguenti link sono reperibili brevi documenti che descrivono i principi ed il funzionamento dell’Assemblea permanente in uno contesto operativo: http://www.primalepersone.eu/cms/?q=node/421, http://www.primalepersone.eu/cms/?q=node/420.
17 – Al seguente link, una sintetica descrizione del significato di questi termini curata per l’enciclopedia Treccani da Christian Allasino: https://www.treccani.it/magazine/chiasmo/diritto_e_societa/liberta/liberta_allasino_ordoliberalismo.html
18 – Giova citare anche qui un passaggio estremamente significativo dell’opera fondamentale di uno degli indiscussi padri del concetto di democrazia, Il contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau: «La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è quella stessa o è un’altra; non c’è via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque né possono essere suoi rappresentanti; non sono che i suoi commissari: non possono concludere nulla in modo definitivo. Ogni legge che non sia stata ratificata direttamente dal popolo è nulla; non è una legge.» (Jean-Jacques Rousseau Il contratto sociale – Libro terzo: Dei deputati o rappresentanti.)
19 – Secondo il significato che gli attribuisce l’art. 49 della Costituzione che recita: Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Merita una particolare sottolineatura la precisazione “con metodo democratico” che i costituenti hanno voluto inserire. Sulla natura giuridica, sull’organizzazione interna ed il modo di operare dei partiti, è necessario far notare come non si sia mai giunti, proprio per l’opposizione dei partiti stessi, che avrebbero dovuto, in tal modo, autodisciplinarsi, all’emanazione di una specifica legislazione in materia.
20 – Cfr. su questo il mio articolo “Per una Politica rizomatica. Verso un nuovo paradigma politico”, già richiamato in premesse.
21 – Cfr. Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio. Ed Feltrinelli 2002 L’autore su questo concetto si esprime nei seguenti termini: «Che cos’è l’intelligenza collettiva? In primo luogo bisogna riconoscere che l’intelligenza è distribuita dovunque c’è umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l’una con l’altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l’intelligenza collettiva.»
22 – Cfr. Nick Srnicek e Alex Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro. Ed. Produzioni Nero 2018
23 – Cfr. André Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica. Ed. Bollati Boringhieri 1992 , ma l’intera opera del filosofo francese è dedicata a prefigurare un mondo in cui il lavoro umano tende a scomparire e ad analizzare le conseguenze che ciò implica in una società ideologicamente imperniata sul lavoro dell’uomo.
24 – Sul significato qui attribuito all’“essere in comune” e per un originale, pregnante sguardo sul significato profondo della democrazia, richiamo anche qui il pamphlet di Jean-Luc Nancy, La verità della democrazia. Ed. Cornucopio 2009.
25 – Cfr. Gianmarco Gometz, Democrazia elettronica. Teoria e tecniche. Ed. ETS 2017.
26 – Sulla questione delle diseguaglianze, si veda Thomas Piketty, Il Capitale del XXI secolo. Ed. Bompiani 2016; un’opera sostanzialmente inutile in termini di proposta politica (ripristinare un po’ di giustizia sociale attraverso la reintroduzione di una reale progressività tributaria, la lotta all’elusione e all’evasione fiscale e la soppressione dei paradisi fiscali) ma notevole in termini di dovizia di dati forniti e ampiezza delle serie storiche analizzate.