L’illusione della Società dei Servizi

Pubblicato in origine su L’anatra di Vaucanson     di  Robert Kurz

Sesto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz.

Da Schwarzbuch Kapitalismus  Sezione VIII. La storia della terza rivoluzione industriale

• Visioni dell’automazione

• La razionalizzazione elimina l’uomo

• L’abdicazione dello Stato

• L’ultima crociata del liberalismo

• La nuova povertà di massa

• L’illusione della società dei servizi

• Capitalismo da casinò: il denaro perde il lavoro

• La fine dell’economia nazionale

• Il risveglio dei demoni

L’illusione della società dei servizi

Naturalmente le elite funzionali del capitalismo si rendono conto, o quanto meno hanno sentore del fatto che, prima o poi, si arriverà alla fine della corsa. Se non si verificherà al più presto una nuova avanzata della crescita e dell’occupazione su scala globale accadrà ciò che sembrava già incombere drammaticamente, su di uno stadio di sviluppo assai inferiore, durante la prima parte del XIX secolo: lo sgretolamento della società capitalistica, ostinatamente attaccata alla sua forma, nelle guerre civili e negli stati di assedio permanenti, nel terrore e nella follia. Il discorso della «tolleranza zero» è già un sintomo della crescente paura da parte delle elite, che potrebbero perdere completamente il controllo della situazione. Ma poiché, com’è logico, la violenza in uniforme, nuovi campi di correzione e di lavoro non possono generare da soli una nuova accumulazione di capitale, bisogna comunque insistere con la claudicante promessa di un miglioramento economico, anche se quest’ultima sembra essere ormai del tutto insussistente.

La scomparsa definitiva del miracolo economico industriale è ormai un fatto universalmente noto. Nessuno parla più della teoria delle «onde lunghe», un tempo il paradigma della crescita industriale. Conformemente alla tesi della «disoccupazione naturale» di Milton Friedman, esiste oggi un consenso generale fra economisti e consulenti aziendali circa il fatto che la «piena occupazione» non tornerà mai più. Ma per «gestire», in un modo nell’altro, il sistema globale capitalistico nel suo processo di crisi occorre trovare, costi quel che costi, un nuovo settore di crescita per l’«occupazione» per arrestare l’incessante processo di liquefazione almeno in una parte relativamente considerevole dei settori industriali. Da questa esigenza disperata è scaturito un nuovo teorema, che domina sempre più il discorso socio-economico circa il futuro del capitalismo (un futuro diverso non è possibile): il discorso della «società dei servizi post-industriale».

Naturalmente «post-industriale» non sarà la riproduzione sociale nel suo complesso ma solo la curva di crescita attesa (o fantasticata) della nuova «occupazione» capitalistica. Mentre la produzione agricola, e soprattutto quella industriale, genera beni materiali ad un grado elevato di razionalizzazione, automazione, e quindi con una grande «parsimonia di lavoratori», la forza-lavoro gradualmente «liberata» da questi due settori dovrebbe trasferirsi nel settore terziario dei servizi. Anche qui si tratta di un discorso già sentito in quanto risale addirittura alla fase dell’«avvio» fordista dopo la seconda guerra mondiale. Lo stesso Fourastié non fu solo il profeta dell’imminente società del tempo libero ma anche della società dei servizi ai suoi albori. E anche sotto questo riguardo, così come nell’altro, affiora il suo ingenuo ottimismo:

Le fabbriche già iniziano a svuotarsi: il trasferimento delle mansioni dal settore primario verso il settore terziario va di pari passo con una profonda mutazione all’interno delle mansioni del settore secondario e terziario e con uno sconcertante innalzamento delle qualifiche professionali […] Di solito i trasferimenti riguardano le mansioni più qualificate, poiché in media i lavori del settore terziario presuppongono maggiori competenze professionali rispetto ai lavori del settore secondario e primario; ma anche perché in ogni settore professionale il lavoro diviene anno dopo anno sempre più «scientifico» (Fourastié 1965).1

Se si ha allo stesso tempo la crescita generalizzata del tempo libero e delle qualificazioni professionali – così la pensa Fourastié – gli individui aumentano naturalmente anche le loro pretese. Egli vede perciò la nascita di un gigantesco terreno sociale per «attività intellettuali ed artistiche», che dunque renderà possibile ancora una volta nuovi settori dell’industria del tempo libero e quindi dell’«occupazione». Questo dibattito sulla trasformazione trovò il suo interprete classico in un sociologo di Harvard, Daniel Bell, con la sua ricerca su La società postindustriale, apparsa per la prima volta nel 1973. Dopo aver escluso categoricamente, in un confronto tanto breve quanto scialbo con Marx, nuove grandi crisi del capitalismo, Bell prevede un futuro più che mai roseo per il settore dei servizi:

La società postindustriale […] si fonda sui servizi, si tratta cioè di un gioco tra persone. In esso ciò che conta non è tanto la forza fisica o l’energia quanto piuttosto l’informazione. La figura più importante è l’accademico, che, sulla base della sua formazione e della sua cultura apporta le sempre più indispensabili capacità. Se lo standard di vita della società industriale si misura secondo la quantità dei beni, la qualità di vita della società postindustriale si misura secondo i servizi e le comodità – sanità e settore scolastico, riposo e arte – che adesso appaiono a tutti desiderabili e a portata di mano […] Viaggi, intrattenimento e sport acquistano di importanza poiché con l’ampliamento dell’orizzonte gli individui manifestano anche nuovi bisogni e preferenze. Questo fa sì che si consolidi sempre più una nuova coscienza. L’attesa che il singolo ripone su una bella vita promessa dalla società spinge al centro dell’interesse i due settori decisivi per una tale vita, sanità e istruzione. Con la soppressione della malattia, l’aumento della durata della vita e con l’aspirazione a spingere sempre più in là la speranza di vita, il settore sanitario si sviluppa fino a diventare il settore decisivo della moderna società. Allo stesso tempo, con la crescita delle esigenze in termini di capacità tecniche e specialistiche dovuta all’ingresso nella fase postindustriale, anche le istituzioni educative e formative di livello inferiore e superiore divengono un presupposto per lo sviluppo nella società. Così assistiamo al sorgere di una nuova intellettualità, principalmente costituita dagli insegnanti. E infine l’esigenza di sempre più servizi, il bisogno di un ambiente sempre più decoroso per l’uomo e a servizi sanitari e scolastici sempre migliori – esigenze che il mercato può soddisfare solo in misura insufficiente – conduce alla realizzazione di istituzioni pubbliche, soprattutto nelle singole regioni e nei comuni, laddove c’è da soddisfare questi bisogni. La società postindustriale è pertanto una società «comunale» in cui non è tanto l’individuo quanto piuttosto il comune a costituire l’unità sociale inferiore […] (Bell 1973).2

Nel 1999 tutto questo ha il suono di una beffa. Fourastié e Bell avevano naturalmente sotto ai loro occhi le strutture del boom fordista, che si limitarono ad estrapolare nel futuro – un errore tipico del pensiero accademico condizionato dal capitalismo. In questa prospettiva, al cospetto dei nuovi incrementi della produttività, le infrastrutture industriali fordiste, che sostenevano allora il processo di «terziarizzazione», sarebbero state riorientate sempre più nella direzione dell’industria culturale, del settore sanitario etc. La fase di automazione ed eliminazione della forza-lavoro industriale della terza rivoluzione industriale avrebbe allora generato un mondo di università popolari e di istituzioni educative, di assistenti sociali e insegnanti, di medici e istituzioni assistenziali di ogni genere per le «comodità» di un’umanità largamente consacrata alle gioie del tempo libero.

Bell cade vittima di un’illusione ottica in quanto, proprio come Fourastié, percepisce il cambiamento strutturale in un’ottica superficialmente sociologica, presupponendo ciecamente il rapporto economico fondamentale, invece di analizzarlo criticamente nel suo potenziale di crisi. Ciò che ai suoi occhi appariva come la graduale dissoluzione della società industriale nella società dei servizi, era in realtà solo un effetto collaterale provvisorio del boom industriale fordista, destinato ad estinguersi insieme ad esso. Quel mondo fatto di tempo libero, educazione e salute, apparentemente in crescita incessante, non mise in moto nessuna nuova accumulazione di capitale oltre il boom industriale, ma anzi venne alimentato da questo, fino al suo definitivo esaurimento. Lo si può dimostrare sotto diversi aspetti.

La grande avanzata internazionale della «terziarizzazione» negli anni Settanta si concentrò effettivamente sul settore sanitario, educativo e sociale. Ma proprio per quei settori si trattò generalmente di istituzioni statali o parastatali. Per Bell l’«insufficienza del mercato» e il mondo keynesiano del «deficit spending» permanente erano un fatto talmente ovvio da fargli pensare che un futuro terziario fatto di «istituzioni pubbliche» sempre più estese e diversificate, addirittura di una «società comunale» oltre l’individualismo del consumo fordista, fosse già praticamente garantito. Per quanto riguarda la «finanziabilità» esso si limita ad esigue e superficiali idee nelle poche pagine di una riflessione circa i «limiti del cambiamento». Egli riconduce persino la crescita tumultuosa dell’inflazione già in corso, che avrebbe messo termine nel giro di pochi anni al keynesismo, alle «mistificazioni del presidente Johnson» e, come più tardi Ulrich Beck, pensa di poter liquidare la questione del sistema osservando come «sarebbe stato estremamente improbabile» che tali questioni «si fossero sviluppate a problemi di “classe”». Della contraddizione economica interna del capitalismo, del sistema di riferimento della «bella macchina», che accomuna ed include in sé tutte le categorie sociali, non vi è alcuna traccia. Nel paradigma postindustriale di Bell affiora la peculiare incomprensione che caratterizza la divisione del lavoro nelle scienze sociali accademiche: i sociologi, senza presentire alcunché sul piano economico, si limitano ad estrapolare le strutture sociali, nella più totale ignoranza dei loro presupposti economici, mentre gli economisti dissolvono la crisi grazie a modelli matematici, fino a quando la realtà della crisi non annienta entrambe queste tipologie di falso ottimismo.

Con la fine della regolazione keynesiana svaniscono anche i sogni di una società dei servizi «comunale». L’individualismo del consumo fordista non retrocede al cospetto di un’economia dell’educazione e della salute ma, proprio all’opposto, si radicalizza nella forma di una concorrenza autodistruttiva dell’offerta tra soggetti economici atomizzati mentre i settori pubblici dei servizi keynesiani vengono sistematicamente smantellati quanto più si aggrava la «crisi delle finanze statali». Sempre più ridimensionati a misura delle possibilità di acquisto private, i settori della salute e dell’educazione non saranno mai in grado di arrestare lo sgretolamento dell’«occupazione» industriale. Assurdamente però, il paradigma classico della «società dei servizi» di Bell, staccato dal suo radicato retroterra keynesiano, è stato tenacemente conservato nello speranzoso discorso socio-economico postkeynesiano. Adesso, improvvisamente, dovrebbero essere i settori commerciali dei servizi a sostenere una vera accumulazione di capitale «postindustriale». Ma è proprio nei settori fondamentali dei servizi privati, come il commercio o il sistema bancario, che la razionalizzazione microelettronica sta iniziando a mordere come nell’industria e, per giunta, anche i settori statali e comunali residui non vengono affatto risparmiati da questa politica dell’abbassamento dei costi, come illustrano recenti ricerche sul caso tedesco:

Nel prossimo decennio, secondo il parere degli esperti, in tutto il paese andranno persi 6,7 milioni di posti di lavoro nel settore dei servizi. I ricercatori dell’Università di Würzburg sono giunti a questo «scenario agghiacciante» dopo un lavoro di ricerca durato alcuni mesi. Come ha affermato il professor Rainer Thome, titolare della cattedra di Informatica economica in un’intervista all’agenzia di stampa DPA «Noi stessi siamo rimasti esterrefatti quando abbiamo visto i dati». I risultati della ricerca, realizzati dal collaboratore scientifico di Thome, Boris Kraus, erano stati originariamente presentati in occasione di un seminario di facoltà. «La speranza corrente, che il settore dei servizi risolverà i problemi attuali del mercato del lavoro, è falsa» ha detto Kraus. La causa della «tetra» situazione dell’occupazione nel prossimo decennio consiste negli effetti prevedibili della moderna elaborazione informatica. Finora solo pochi posti di lavoro sono stati eliminati a causa della riorganizzazione informatica di molte attività legate ai servizi. Tuttavia, a causa della pressione dei costi, nel prossimo futuro ci saranno «pesanti cambiamenti» nel mondo del lavoro. Thome e Kraus hanno incluso nella loro ricerca i tre quarti di tutti i circa 22 milioni di posti di lavoro nel settore dei servizi. Nel commercio la metà dei 3,4 milioni dei posti di lavoro oggetto dell’inchiesta verrebbe sostituito da casse automatiche, pagamenti elettronici e acquisti via Internet. Nell’amministrazione pubblica sarebbero 2,6 milioni i posti risparmiati mediante l’automazione. Ancora maggiori gli effetti sul settore bancario, secondo quanto afferma Kraus. L’80% dell’attività bancaria è costituito da procedure ripetitive, che si potrebbero automatizzare completamente. In questo modo il 61% dei 772.000 posti di lavoro del settore verrebbero spazzati via in futuro. «Ad essere minacciati sono i posti di lavoro con normali funzioni da incaricati, in cui ci si limita a combinare informazioni» ha affermato Kraus. Gli scienziati, stando alle dichiarazioni, non hanno da fornire alcuna soluzione (DPA, 11/6/1997).

Effettivamente Deutsche Bank, il maggiore istituto di credito tedesco, solo tra il 1993 e il 1996, ha già eliminato il 20% del suo personale, e non è ancora stata detta l’ultima parola. Adesso questo processo coinvolge anche altri settori del settore creditizio e assicurativo; ad esempio la Federazione tedesca delle Banche popolari e di credito rurale ha comunicato che entro il 2008 verranno chiuse 7.000 delle 17.000 filiali ancora esistenti (Handelsblatt, 27/5/1999). E la «spesa in negozi senza commessi» può già vantare le sue prime sperimentazioni:

Attualmente in Giappone nel commercio al dettaglio si stanno già provando in alcuni settori dei negozi interamente automatizzati, in cui non lavora alcun addetto […] Il negozio viene suddiviso in quattro reparti. Nel primo reparto la merce viene esposta, nel secondo ordinata, nel terzo pagata e nel quarto, infine, consegnata […] Un progetto simile è stato avviato qualche tempo fa nel settore del noleggio degli audiovisivi. Il sistema opera analogamente ai sistemi di distribuzione automatica promossi oggi dalle banche […] Il cardine […] è una macchina completamente automatizzata che lavora come un muletto meccanico (Frankfurter Allgemeine Zeitung, 19/3/1997).

Lo stesso vale per altri campi del settore terziario come ad esempio il turismo, il settore alberghiero, il cinema etc., così come, d’altro canto, per i cosiddetti «servizi prossimi alle imprese» quali consulenza fiscale, revisione dei conti, consulenza aziendale, per gli architetti e i pianificatori tecnici, per le società che affittano veicoli e macchinari, per le spedizioni e la logistica, per il settore dell’elaborazione dati, per le agenzie pubblicitarie, per il settore legato allo smaltimento dei rifiuti e delle scorie etc. Da un lato anche in questi settori esistono colossali potenziali di sostituzione della forza-lavoro umana con dispositivi microelettronici: «In linea di principio è possibile riprodurre tecnicamente e razionalizzare la maggior parte dei servizi orientati alla persona» (Bender/Graβl 1997).3 Dall’altro gli stessi settori sono penalizzati anche dall’eliminazione di posti di lavoro in altri campi, così come dalla riduzione del potere di acquisto sociale e della domanda di consumo complessivo. Già la crisi economica mondiale aveva dimostrato come una crescita enorme della povertà possa rovinare anche alberghi e birrerie, a causa del calo drastico della domanda. I birrai non possono vendersi la birra vicendevolmente. Anche nel caso del turismo si tratta di una «produzione di merci secondaria», che dipende dal potere di acquisto di massa industriale. Questo settore, nonostante la crescente disoccupazione di massa, non è ancora crollato perché la gente preferisce rinunciare ad altre cose oppure finanzia le proprie vacanze non più con le entrate correnti ma attingendo ai propri risparmi. Si tratta però di un consumo che non può essere alimentato per lungo tempo dal risparmio. Sia per quel che riguarda la domanda, sia per quel che riguarda la razionalizzazione anche nel turismo (uno degli ultimi settori-boom) sono già ben visibili le crepe:

La ricerca di occasioni favorevoli si fa sempre più febbrile. Anche se negli ultimi anni il settore turistico è rimasto generalmente indenne dalla crisi economica, esso ha comunque subito una trasformazione. «Adesso la gente inizia a risparmiare anche sulle vacanze» dichiara Ingrid Ziegler, direttrice di un’agenzia di viaggi. Pertanto le chance di impiego nelle professioni turistiche peggioreranno sempre più nel futuro. Ad esempio Hapag-Lloyd non assume quasi più tirocinanti, sebbene solo i migliori riescano ad ottenere un posto […] Negli ultimi anni lo sviluppo tecnico ha modificato drasticamente il lavoro dei circa 55.000 collaboratori di organizzatori e agenzie turistiche […] Già oggi per chi utilizza Internet è possibile prenotare biglietti aerei e ferroviari. Tra cinque anni non solo i biglietti, ma persino molti viaggi organizzati verranno acquistati con il computer da casa […] Le conseguenze di questo sviluppo per le imprese non sono ancora prevedibili (Hoffmeyer 1997).4

Naturalmente ancora più direttamente dipendenti dal settore industriale sono i «servizi vicini alle imprese», la cui espansione negli ultimi anni non coincide neppure più con l’apparizione di settori di impiego supplementari, ma con il trasferimento («outsourcing») di settori originariamente interni all’impresa come la gestione dei veicoli, l’elaborazione-dati etc. Come viene sottolineato perfino con orgoglio, l’effetto di tale ristrutturazione obbedisce ad esigenze di razionalizzazione cosicché l’espansione di tali imprese terziarie legate alle imprese conduce per sua natura più alla perdita di posti di lavoro nella società complessiva che al successo della trasformazione «postindustriale» della società del lavoro capitalistica.

Nell’insieme è senz’altro possibile dire che il settore terziario non può realizzare nessuna nuova era dell’accumulazione di capitale «postindustriale» e quindi neppure nessun contenitore per la disoccupazione di massa strutturale su scala globale. La terza rivoluzione industriale razionalizzerà a medio termine l’«occupazione» in quasi tutti i settori dei servizi così come nell’industria. Quasi con ancor più forza che per le imprese industriali, per le imprese dei servizi pesano sulla bilancia anche i costi indiretti della rivoluzione microelettronica poiché nel loro caso non si verifica solo l’eliminazione di singole imprese ad opera della concorrenza, in quanto interi settori, come produzione secondaria di merci (o come settori dipendenti dallo Stato), si trovano sprovvisti di domanda a causa della disoccupazione industriale di massa. Anche sotto questo riguardo la reazione a catena della crisi, che non si è ancora abbattuta in tutto il suo vigore sul settore dei servizi dei paesi occidentali, non si farà attendere. Ma qual è il grande errore intellettuale di teorici come Fourastié e Bell? Questi hanno tentato di spiegare lo sviluppo storico della struttura sociale paragonando la presunta transizione dalla «società industriale» alla «società dei servizi» con la straordinaria rivoluzione dell’industrializzazione stessa: se in passato c’era già stato il passaggio epocale dalla società agraria alla società industriale – questo l’argomento – ora è giunto il momento del passaggio altrettanto importante verso la società dei servizi. Naturalmente è del tutto vero che la terza rivoluzione industriale, in ogni ambito della riproduzione materiale, ha reso superflue le attività umane in una misura mai vista in passato. E sarebbe sicuramente sensato impiegare tutti gli individui che non sono più necessari al processo di produzione industriale nel settore sanitario e educativo o nella pianificazione di viaggi, esposizioni artistiche, eventi sportivi etc. Ma anche sotto questo piano la logica aziendale spazza via il sano buon senso. La falsa speranza che l’«occupazione capitalistica» possa essere trasferita dal settore industriale a quello terziario, riposa sulla falsa coscienza così come la speranza nella crescita illimitata del tempo libero nel capitalismo mediante accrescimento della produttività: in entrambi i casi si fa conto su potenze «naturali», tecnico-materiali, senza fare caso ai rapporti economici (presupposti come ovvi) del capitalismo. Ai concetti di «società agraria», «società industriale» e «società dei servizi» difetta apertamente la dimensione economica; essi designano solo la rispettiva forma fondamentale concreta dell’attività umana nel processo riproduttivo. Ma per i reali sviluppi socio-economici non ha alcuna importanza che gli uomini si siano occupati in un primo momento con l’agricoltura, poi con la produzione industriale e che adesso sia giunto il turno dei servizi.

Questo falso «naturalismo» trascura semplicemente il fatto che la transizione storica dalla società agraria a quella industriale fu una rottura radicale nella forma generale della riproduzione e quindi in tutte le relazioni socio-economiche: non si trattava di una trasformazione all’interno del capitalismo, ma della genesi della «bella macchina» della modernità stessa. Il modo di produzione agrario, in gran parte basato sull’economia naturale, venne sostituito dallo scatenamento dell’economia monetaria fino a quel momento marginale, le economie fondamentalmente locali vennero sostituite con mercati anonimi su larga scala, al posto dell’autogestione contadina e degli elementi del dominio feudale subentrò lo Stato moderno.

È ingenuo assumere che all’interno del capitalismo possa verificarsi la trasformazione verso la società dei servizi, senza una rottura altrettanto radicale di quella che caratterizzò la transizione dalla società agraria a quella industriale. Non ci sarà nessun capitalismo dei servizi nel senso di un grande cambiamento sociale. E poiché gli ideologi del capitalismo non vogliono comprendere questa circostanza, essi nel frattempo fanno ricorso ad un’ultima quanto spudorata opzione: se non è possibile avviarsi verso una «occupazione» generalizzata nelle imprese per l’organizzazione del tempo libero e l’educazione, i servizi sanitari e le istituzioni artistiche etc., allora gli individualizzati «imprenditori della propria forza-lavoro» dovranno accontentarsi a milioni di ciò che ancora ha da offrire il mondo disastrato dei servizi: fungere da domestici simili a schiavi delle persone benestanti in cambio di qualche soldo o di un pasto caldo. È una maligna ironia il fatto che questo assurdo dibattito abbia rovesciato da capo a piedi l’argomento storico originario di Daniel Bell. Per meglio chiarire il significato del suo concetto di «società postindustriale», Bell aveva paragonato le sue caratteristiche ipotetiche con quelle delle formazioni sociali precedenti e, in questo modo, aveva individuato i seguenti tratti per la società pre- e protoindustriale:

A causa della scarsa produttività e dell’elevata popolazione ci sono molti sottoccupati, che abitualmente tentano di trovare impiego nell’agricoltura e come servitori domestici. Così la quota dei prestatori di servizi, soprattutto nella forma di servizi personali domestici, è estremamente alta. Poiché per il singolo si trattava solo della nuda esistenza i posti disponibili erano pochi e l’offerta elevata […] In Inghilterra, ad esempio, i domestici, fino alla metà dell’era vittoriana, erano con distacco la più importante categoria di lavoratori. Perfino nullatenenti come Becky Sharp e il capitano Rawdon Crawley del romanzo di Thackeray La fiera delle vanità possedevano domestici (Bell, op. cit.).

Mentre scriveva queste righe 26 anni fa Bell non si sarebbe mai sognato che il dibattito sulla «società postindustriale» degenerasse al punto tale da raccomandare in tutta serietà il ritorno ai rapporti sociali del XVIII e XIX secolo. Un assaggio circa la vita da domestico nelle case del ceto medio in Germania ce lo offrono certi resoconti circa il trattamento delle ragazze alla pari:

Una ragazza lituana, Danuta, è giunta in Germania con un contratto di ragazza alla pari, stipulato privatamente. I bambini di cui si sarebbe dovuta occupare si sono rivelati essere due cani. Per un anno Danuta è stata incaricata della loro cura […] Né la sera, né durante il fine settimana Danuta poteva uscire di casa perché […] la coppia di cui era ospite […] la utilizzava come cameriera e come cuoca […] Una ragazza russa, Ira, dorme presso una famiglia con due figli a Offenbach in uno spazio tra il fasciatoio e l’armadio; non vi è alcuna riservatezza […] La lituana Gedra lavora per una famiglia a Kronberg, presso Francoforte. La padrona di casa sostiene che esageri con il cibo e così l’ha messa a razioni da fame. Una vicina, constatato il progressivo dimagrimento della ragazza, le passa del cibo […] Tre ragazze dell’Europa Orientale, Masha, Vika e Ala, che alloggiano presso una famiglia nella zona metropolitana Reno-Meno, raccontano di come, una volta entrate nella loro stanza, sentissero regolarmente un clic. Proveniva da una videocamera controllata a distanza, che il padrone di casa mette in funzione […] (Süddeutsche Zeitung, 5/11/1999).

È facile immaginare quali condizioni si imporrebbero se l’«amministrazione del lavoro» capitalistica riuscisse a togliere tutti i diritti sociali ai «superflui», spingendoli in un’esistenza da domestico pagato miseramente. Per quanto esitante e come timorosa di una possibile reazione rabbiosa la vecchia coscienza borghese da razza padrona fiuta sempre più risolutamente una fragranza postmoderna:

Un esempio recente, a New York: tempo pessimo, scarpe sudice, un lustrascarpe pronto. In breve tempo e con maniera affabile trasforma le scarpe malconce in un presentabile biglietto da visita della loro proprietaria. Senza manifestare il benché minimo senso di sgradevole disagio per il fatto di dover chinare la schiena sulla strada. È invece la cliente ad essere sfiorata dal dubbio. È opportuno? Lasciarsi pulire le scarpe proprio da un nero? Il servizio ha sempre la sua controparte: farsi servire. È una cosa che va appresa […] Anche le casalinghe sembrano avere difficoltà. Inesperte nell’arte di trattare il personale, esse credono di dover dimostrare, al prezzo di ore in comune al caffè con le loro donne delle pulizie, di essere libere da qualsiasi mentalità di ceto. E perché? Perché non accettare che esistono poveri e ricchi, stupidi e intelligenti, uomini svantaggiati e privilegiati? […] (Sommerhoff 1997).5

E perché dunque non accettare che l’insolenza meriti ancor più il bastone? Una gran bella visione del mondo: una casta di benestanti, protetti all’interno di ghetti di lusso sotto stretta sorveglianza; dappertutto pattuglie della polizia armate fino ai denti all’insegna della «tolleranza zero»; le masse dei «superflui» in parte in carcere o nei campi di lavoro, in parte nel ruolo dei domestici volenterosi. Proprio a questo somiglierà necessariamente lo stadio terminale della democrazia. E tutto questo solo perché il capitalismo non è più in grado di contenere nelle sue forme le incredibili forze produttive della terza rivoluzione industriale. Ma per questa ragione è tutto il discorso sui servizi che si rivela completamente illusorio anche nella sua malvagia forma decadente. Non ci saranno neppure parvenu benestanti a sufficienza per trasformare milioni di disoccupati e marginalizzati a «personale» di servizio. Al contrario, gli aspiranti schiavisti sono anch’essi stessi dei «morti che camminano», che hanno tutte le ragioni per ipotizzare, in linea di principio, di essere i prossimi a manipolare personalmente lucido da scarpe e strofinacci. Ciò che gli USA hanno già sperimentato nel passato, adesso si diffonde rapidamente anche in Europa: il crollo sociale della classe media:

Il fatto che qualcosa sia cambiato lo hanno intuito tutti coloro che in precedenza avevano a che fare con individui messi ai margini della società e che adesso, improvvisamente, si trovano di fronte ad individui che fino a qualche tempo prima appartenevano al ceto medio […] Politici ed economisti sono allarmati. Per decenni il ceto medio, attualmente sotto tiro – impiegati zelanti, lavoratori autonomi efficienti ma anche operai specializzati ben remunerati – ha costituito la spina dorsale della società tedesca del dopoguerra […] I sociologi avvertono la paura crescente della borghesia nei confronti del proprio declino. Secondo gli esperti dell’Istituto tedesco per la ricerca economica si tratta di una paura giustificata: «Il rischio di finire in povertà colpisce sempre di più coloro che percepiscono redditi da ceto medio» (Der Spiegel 40/1997).

(Traduzione dal tedesco di Samuele Cerea)


Note:

1. Jean Fourastié, Le 40.000 ore.

2. Daniel Bell, La società postindustriale.

3. Christiane Bender e Hans Graßl, Dienstleistungen und ihre technische Reproduzierbarkeit. Die »McDonaldisierung« erfaßt immer mehr Bereiche der Ökonomie, in Frankfurter Rundschau, 14/10/1997.

4. Miriam Hoffmeyer, Kein süßes Nichtstun. Computer ersetzen Arbeitskräfte in Reisebüros in Süddeutsche Zeitung, 24/9/1997.

5. Barbara Sommerhoff, Dienen und Bedienenlassen will gelernt sein. Ohne Vorbilder kann Servicementalität nur durch wirtschaftlichen Druck entstehen in Süddeutsche Zeitung, 1/3/1997.