Pie illusioni e socialismo scientifico.

img – elisatron

di M. Minetti

Pubblicato in origine l’8/07/2020 su Transform Italia

La narrazione desiderante

Nella lingua inglese esiste l’espressione “wishful thinking” (pensiero desiderante, illusorio, speranzoso) per designare un pensiero che, piuttosto che procedere da un ragionamento, possiamo sottointendere di tipo scientifico consequenziale, arriva a delle conclusioni semplicemente perchè al suo autore sembrano desiderabili.

Per non dover mettere in discussione le conclusioni, di solito l’autore si aggiusta delle premesse credibili, sostenute da qualche bias cognitivo e da dati parziali, solitamente presentati in modo volutamente distorto o comunque drammatizzato (Rosling 2018, p.22).

Il linguaggio politico abbonda di questo pensiero desiderante, è il carattere principale della liberale democrazia del conflitto, degenerata in populismo massmediatico. I rappresentanti delle varie parti sociali, spesso autonominati o eteronominati rappresentanti o portavoce, espongono teorie, proposte legislative o misure di politica economica che semplicemente fanno gli interessi particolari della categoria sociale di riferimento, da cui si aspettano consenso.

Le argomentazioni non sono che appelli ad un presunto “senso comune” o a criteri di giustizia non scritta che appartengono ad una tradizione politica o religiosa.  Identità del popolo, universalismo cristiano, spiritualismo naturalista, anticapitalismo classista o premoderno, suprematismo razziale o culturale, libertà individuale e naturale dell’uomo, elitismo aristocratico, si fondono incoerentemente in una serie di credenze vaghe e autoevidenti che, all’occorrenza, vengono proposte per giustificare interessi materiali molto delimitati, sempre declinati in positivo, come se la politica fosse il campo in cui si affrontano il bene e il male, piuttosto che un equilibrio tra interessi in conflitto.  Viene posto un problema semplificato, spesso in termini drammatizzati: emergenza, apocalisse, scandalo, associati alle contraddizioni strutturali dei vari sistemi complessi, come se queste fossero inconvenienti estranei, intervenuti su un processo coerente, ben governato, prevedibile e immodificabile: la crescita economica. Il problema viene presentato come una perturbazione nel normale sviluppo degli eventi, dove ci si nasconde che non esiste nessuno sviluppo “normale” degli eventi o dell’economia perchè non esiste nessuna normalità, se non quella che le persone si costruiscono in base alla loro breve esperienza.  L’ego, misura di tutte le cose, ovvero un ego normativo che pone l’esperienza soggettiva come universalità naturale. La personale credenza è il criterio della post-verità.

Gli esperti in comunicazione ci hanno abituati ad argomentazioni semplificanti, adatte ad essere enunciate in un virgolettato di trenta secondi, in cui viene esagerato il potere della volontà di chi si trova al governo. Abbiamo spesso sentito dire: “i politici sanno come risolvere questo problema, è che non vogliono farlo perchè tutelano i poteri forti…”. Che sia la povertà, la sostenibilità del sistema pensionistico, il riscaldamento globale, la mobilità pubblica o lo smaltimento dei rifiuti, la disoccupazione o il deficit dello Stato; i politici senza il potere accusano quelli al potere di “non voler risolvere il problema”, affermando quindi che, al loro posto, sarebbero in grado di farlo.

Nessuno vuole ammettere, ne andrebbe della loro credibilità, di non aver la minima idea di come quei problemi si possano realmente affrontare con i mezzi che ha a disposizione.

Le soluzioni sembrano formule magiche: più posti di lavoro, bruciare meno idrocarburi, investire nel trasporto pubblico, ridurre la spesa e aumentare gli introiti dello Stato, ridurre la tassazione,  redistribuire la ricchezza, riciclare tutti i rifiuti, aumentare costantemente il PIL, garantire la sicurezza e il benessere di tutti.

Tutte queste azioni sono temporaneamente possibili, ma comportano una serie di premesse poco condivise, o del tutto contraddittorie, che vengono espulse dalla proposta volontaristica. Senza magiche moltiplicazioni dal nulla, più posti di lavoro significa meno ore di lavoro per persona o minore produttività, bruciare meno idrocarburi significa ridurre di molto i consumi energetici e investire su fonti alternative aumentando i costi, migliorare il trasporto pubblico significa incrementare i costi del servizio e le tasse municipali, ridurre il deficit significa tagliare servizi o aumentare le tasse, per rendere sostenibile il sistema pensionistico si dovranno pagare più contributi o erogare pensioni più basse, redistribuire la ricchezza equivale ad aumentare progressivamente la tassazione e garantire un welfare universale,  tutelare la sicurezza significa aumentare i servizi sul territorio per la prevenzione e il controllo dei reati, riducendo le cause sociali di insicurezza.  Eppure, in una condizione di equilibrio, seppur precario, come quello che si è stabilito, rinunciando al mito della crescita infinita e della moltiplicazione dei pianeti, i margini di manovra sono molto bassi. Le forze in campo, dagli imprenditori alla cittadinanza, dai risparmiatori ai creditori, sono tutte fortemente conservatrici. Si vogliono rivoluzioni che non tocchino affatto i propri interessi e questo, di certo, non è possibile per tutti.

L’egoismo individualista è solo per chi ha studiato.

Se ognuno perseguisse coerentemente i propri interessi, l’utile che guida l’homo oeconomicus per gli economisti classici e neoclassici, in un efficiente sistema di democrazia del conflitto, la normale democrazia rappresentativa a suffragio universale, verrebbero tutelati e avvantaggiati gli interessi della maggioranza delle persone, quindi dell’odierna classe media, nei paesi con  medio e alto reddito pro capite.

La classe media, quindi coloro che non sono nè poveri nè ricchissimi, vengono calcolati come coloro che dispongono di oltre il 50% del reddito mediano, in Italia il 91, 6 % dei residenti, ad esempio. (OECD Factbook 2015, p. 53, Italia http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=17944 ) a cui dobbiamo sottrarre il 16% dei redditi più alti: quindi il 75% dei residenti. Nei paesi a basso reddito invece sarebbe la parte più povera della popolazione a conquistare la maggioranza e quindi il governo, tutelando i propri interessi  ( https://www.gapminder.org/answers/how-many-are-rich-and-how-many-are-poor/ ).

Malgrado nella quasi totalità delle nazioni si svolgano elezioni democratiche, sembra che i governi tendano a rappresentare, invece, nella dinamica sociale, sempre gli interessi delle èlites. (Khanna 2017, p. 168) Forse perchè, da chiunque siano scelte, le classi dirigenti fanno direttamente parte delle èlites o si pongono spontaneamente al loro servizio.

Dobbiamo quindi convenire che quell’individuo astratto e indifferente, che persegue razionalmente nella politica il proprio interesse materiale, esiste solo nella teoria economica del mercato perfetto per giustificare una democrazia che avvantaggia semplicemente i più forti ovvero, di solito, anche i più ricchi.

Una minoranza di persone utilizza tutti i centri di produzione della conoscenza per sfruttare strategicamente a proprio vantaggio le informazioni che possiede. Chi accede alla profilazione statistica basata su big data, conosce i comporatamenti dei gruppi sociali. Chi riceve i rapporti dei molti servizi di informazioni pubblici e privati, da ogni parte del mondo e sui più diversi aspetti, conosce il mondo in tempo reale. Chi legge in lingua inglese è un passo sopra gli altri che dovranno aspettare le traduzioni, se mai esisteranno. Chi non sa dove procurarsi le informazioni o non le sa interpretare è escluso.

La maggioranza della pubblica opinione, invece, forma le sue convinzioni su materiale informativo scadente, rimasticato da giornalisti precari sottopagati, che semplificano e distorcono le informazioni più per imperizia e ignoranza che per intenzione. I titoli eccedono sempre le notizie e la ricerca dell’attenzione è il criterio uniformante, nell’epoca della post-verità.

Le credenze e le opinioni, pur se errate, costituiscono anch’esse un movente per la scelta politica elettorale, rafforzando quei gruppi che hanno la capacità di diffondere le proprie posizioni nel modo più efficace, attraverso il marketing politico, nelle diverse “bolle” social.

I centri di potere informativo, le “fabbriche del senso” (Bellucci 2019), vincono le guerre dell’infosfera solitamente perchè hanno più disponibilità di denaro e quindi accesso ai mezzi di comunicazione di massa, staff dedicati, influencer affermati. I carri armati della comunicazione sono macchine costose. Raramente il successo elettorale è frutto di strategie innovative e di una larga partecipazione volontaria della popolazione.

Il successo dei metodi populisti di propaganda politica consiste proprio nella comunicazione di argomentazioni semplificate, non importa se visibilmente errate, che fanno presa su convinzioni confuse del “senso comune”, al solo scopo di ottenere un consenso immediato, da convertire in un risultato elettorale a breve termine o semplicemente in una crescita nei sondaggi di gradimento.

La forma reattiva della fruizione di “informazione”, trasforma anche la struttura percettiva del pubblico che, assuefatto, ha bisogno di stimoli emotivi sempre più forti per attivarsi.

L’opinione pubblica disinformata non segue quindi i suoi interessi materiali, perchè spesso non li sa neppure identificare. Si affida alla pancia, alla paura, che risente molto del clima emotivo che il bombardamento informazionale riesce a plasmare. Mentre scrivo siamo in piena emergenza Covid-19. I quotidiani nazionali dedicano le prime quindici pagine all’argomento. Non si parla di altro.  La società civile non ha la minima possibilità di imporre i propri interessi all’attenzione del discorso pubblico. Le soluzioni piovono dall’alto come se non fossero scelte politiche.

Governare la crisi

L’idea di attuare in fase di governo le promesse elettorali, ovviamente, non è contemplata, in quanto spesso non sarebbe né possibile, né attuabile ma, soprattutto, non è nell’interesse di chi ha usato la retorica populista. Come sa bene chiunque abbia partecipato ad una campagna elettorale, una cosa è il programma elettorale, altra il programma politico, altra gli interessi del ceto politico che vuole farsi eleggere. Che i politici siano dei mentitori professionali lo pensano tutti, d’altronde un politico che dice la verità semplicemente non viene eletto.

La politica di governo che ne consegue, da anni ormai, non fa altro che applicare quelle direttive previste dal “pilota automatico” degli istituti di governance sovranazionali, che soli hanno una visione d’insieme e un progetto, solitamente concordato con i rappresentanti delle élites militari, finanziarie e produttive, su cui le popolazioni non hanno il minimo influsso, in una versione leggermente più di centrodestra o di centrosinistra. E’ accaduto (miracolo italiano) che le misure più impopolari e di stampo neoliberale venissero votate anche dai partiti di “estrema” (sic) sinistra, mentre le misure più avanzate (relativamente) di redistribuzione del reddito avvenissero con il consenso dell’estrema destra, senza che peraltro un successivo ribaltamento dell’asse politico annullasse le decisioni prese dai governi precedenti.

Il populismo è quindi l’effetto della crisi delle democrazie parlamentari, che sono state nel secolo scorso lo strumento di emancipazione  delle classi medie, ma si sono rivelate inadeguate a contenere la controrivoluzione neoliberista nel contesto della globalizzazione. La politica si è dovuta assoggettare al potere finanziario, oligarchico e sovranazionale. Mi riferisco qui principalmente, per quanto ci riguarda, al sistema Europa, che opera una necessaria integrazione della produzione e del consumo, nelle macrozone che ne fanno parte, ma  permette alle economie più forti al suo interno di “conquistare” quelle più deboli. In questa dinamica non può che prodursi una accentuazione degli squilibri, come abbiamo sperimentato in Italia durante il secolo scorso, nella nostra divergenza tra Nord industrializzato e Sud prevalentemente agricolo.

La crisi che stiamo vivendo dal 2008, di natura principalmente finanziaria, proviene dall’onda lunga  del 1973 e non è altro che una crisi di sovrapproduzione e sovrabbondanza di capitali (G. Mazzetti, Il futuro oltre la crisi, Manifestolibri, Roma 2016). Calo dei prezzi, interessi negativi e disoccupazione strutturale lo dimostrano, così come la produzione industriale mantenuta ben al di sotto della capacità produttiva degli impianti. Le politiche di contenimento del deficit non fanno che aggravare la crisi, perchè ciò che manca è proprio la spesa (consumi e investimenti) e non certo i capitali, che si riversano sui mercati finanziari per mancanza di sbocchi.

Il sospetto è che la crisi sia cercata, o comunque non evitata, perchè utile a governare, con lo strumento del debito, la transizione dei sistemi produttivi in atto. Crisi e flessibiltà permettono di ristrutturare interi comparti produttivi in pochi anni, a volte in pochi mesi, spostare persone dove serve e fargli accettare condizioni di lavoro nuove e non sempre migliori.

La nuova aristocrazia.

Nel 2014, con l’ambizioso titolo de Il capitale nel XXI secolo, Thomas Piketty ha dimostrato, con un imponente lavoro sui dati, delle serie storiche delle registrazioni dei redditi e dei patrimoni, in moltissime nazioni che, dopo il boom economico dei 30 gloriosi, le rendite hanno ricominciato a sopravanzare di molto i redditi da lavoro, aumentando  le diseguaglianze soprattutto nei paesi più ricchi.

“ Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito – come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI – il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche.” (Piketty 2014, p. 18).

In molte economie avanzate ciò è stato possibile spostando la ricchezza monetaria dalla ricchezza pubblica a quella privata, privatizzando l’ingente debito pubblico e obbligando gli stati a pagare alti interessi ai creditori privati, in periodi di stagnazione o vera e propria crisi. Che poi le nostre democrazie si siano mai basate su valori meritocratici questo è tutto da dimostrare, così come che la meritocrazia sia un valore. Il termine nasce infatti proprio in senso distopico in un romanzo del 1958, intitolato L’avvento della meritocrazia (Young 2014).

Come hanno notato alcuni studiosi della società di cultura liberale (Ricolfi 2019; Abravanel 2019; Stewart 2018), con l’aumento delle disuguaglianze si delinea l’affermazione di una nuova aristocrazia a cui si accede tramite i patrimoni e costosi percorsi di formazione universitaria e post-universitaria. Questa nuova aristocrazia non è poi così dissimile da quella nobiliare, ancora presente nelle monarchie (in Italia riconosciuta fino a settanta anni fa e mai realmente decaduta), che sopravvive, nelle forme posticce ma ammiccanti di stemmi araldici e divani chesterfield, nella Ivy League e nei circoli sportivi esclusivi di tutto il mondo.

Questa rinnovata aristocrazia, in una piramide sociale bloccata, fornisce la riproduzione dei vertici della finanza, delle imprese multinazionali e degli organismi di governance sovranazionale che, con una fortunata suggestione, Negri e Hardt hanno definito Impero.

“Lo sviluppo del sistema globale (e, in primo luogo, del diritto imperiale) appare come l’evoluzione di una macchina che impone delle procedure di continua contrattazione produttive di equilibri sistemici – una macchina che crea domanda continua di autorità. La macchina sembra predeterminare l’esercizio dell’autorità e la sua azione sull’intero spazio sociale.” (Hardt – Negri 2001, p. 30)

L’ideologia di queste èlites è stata talvolta neoliberale, quando ne avevano convenienza, talvolta ordoliberale  ( “porre la libertà di mercato come principio organizzatore e regolatore dello statoM. Foucault, Nascita della biopolitica, Corso al college de France, 1978-79), fino a pretendere l’intervento statale in economia se questo è necessario a ricapitalizzare istituzioni finanziarie in crisi, proteggere con dazi settori economici nazionali, assorbire conflitti sociali con interventi assistenziali per le vittime delle ristrutturazioni del sistema economico.

L’ideologia di queste élites è quella di agire nell’interesse globale dei cittadini del mondo, presenti e futuri. Tutti gli organismi sovranazionali che agiscono sotto la bandiera dei diritti umani, della pace, della salvaguardia dell’ambiente, della cooperazione economica, rappresentano la forma ideologica delle alleanze militari internazionali.

“Come Tucidite, Livio e Tacito ci hanno insegnato (insieme a Machiavelli, commentatore delle loro opere), l’Impero non è fondato solo sulla forza, ma sulla capacità di rappresentare la forza come se fosse al servizio del diritto e della pace.” (Hardt – Negri 2001, p. 31)

L’aristocrazia ha questo come orizzonte di riproduzione. Incarnare i valori imperiali e occupare i ruoli di privilegio che le strutture di governance internazionale, private e pubbliche, offrono.

Il profilo della aristocrazia post-moderna è cosmopolita, laico, per la società aperta, fiducioso nella scienza e nel progresso della tecnologia, con una profonda conoscenza di ambiti specifici della ricerca, con una scarsa cultura umanistica e critica, vive nel mito della propria meritocrazia. Ritiene infatti di occupare i vertici delle istituzioni produttive, finanziarie, governative o militari per merito del proprio curriculum di eccellenza e non perchè quel curriculum di eccellenza gli è stato riservato dalle famiglie di provenienza, escludendone tutti gli altri.

Il filtro, per escludere chi per nascita non appartiene all’aristocrazia, è il costo enorme dei percorsi di formazione nelle università prestigiose e la rete di relazioni informali che intercorrono fra i membri delle èlites, i luoghi di nascita e di residenza, le scuole superiori “di eccellenza”, meglio se internazionali, gli sport praticati e i periodi di formazione e di lavoro all’estero. La cooperazione internazionale per la sinistra, l’apprendistato in azienda o la carriera militare per la destra. Un tempo gli istituti formativi dell’aristocrazia erano solo la chiesa e l’esercito.

La motivazione per cui le classi medie, la maggioranza, sono state private della sovranità, attraverso i loro rappresentanti, sono da ricercarsi non in una insita malvagità delle èlites (in quanto la malvagità è equamente distribuita fra tutte le classi e abbonda fra i più poveri) ma nella perdita da parte delle classi medie e soprattutto dei suoi rappresentanti, degli strumenti interpretativi necessari ad operare scelte politiche.  I partiti ottocenteschi e novecenteschi operavano come stati negli stati, formando una “aristocrazia operaia”, spesso affiancata da una vera aristocrazia illuminata, in grado di svolgere compiti di governo. Quella formazione era principalmente umanistica e si rivolgeva all’economia come strumento di attuazione di programmi politici che avevano confini più limitati.

Oggi la politica nazionale,  trasformata in amministrazione di programmi politici multipolari, decisi altrove, ha il solo orizzonte della propria sopravvivenza come corpo separato di governanti, cioè come èlite.

Vorrei qui sfatare il mito del “prima era meglio”, o “prima c’era la democrazia e ora no”.

Le scelte politiche importanti non sono mai state prese dai politici. Se entrare in guerra e al fianco di chi, è stato deciso sempre a porte chiuse. A Teheran e Yalta tre persone si sono spartite i destini dell’europa e dell’africa.  Sulle questioni veramente dirimenti, i parlamenti sono sempre stati chiamati solamente a ratificare opzioni uniche. Questo per dire che l’aristocrazia è sempre esistita, meno numerosa, era forse più potente ma meno visibile, tanto per sfatare il mito che le disuguaglianze siano una invenzione recente. Nella breve parentesi fra 1948 e 1992, in una cornice bloccata dagli equilibri post-bellici, le democrazie parlamentari occidentali hanno conosciuto una popolarità eccezionale, sospinta dalla fase più espansiva che il capitalismo abbia visto in quei paesi. Terminata la fase economica espansiva e concluso l’equilibrio di Yalta con la caduta dell’Unione Sovietica, il governo della transizione è tornato nelle mani delle èlites transnazionali. Un articolo recente su Il fatto quotidiano ci ricorda un episodio ancora attuale, il dicorso con cui nel 1992, Mario Draghi apriva all’alta finanza inglese la possibilità delle privatizzazioni. ( https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/01/22/britannia-la-vera-storia/5681308/  ) possiamo considerare quella data l’inizio della politica neoliberista in Italia.

Il populismo è adeguamento alla governance imperiale.

Di fronte a questo spostamento dell’asse visibile della decisione politica, dalla democrazia rappresentativa alla aristocrazia transnazionale, l’azione dei partiti politici ha in linea di massima due possibilità.

La prima, e la più praticata, è adeguarsi al populismo, adottando qualcuna delle narrazioni semplificanti e promettendo un poco credibile recupero della sovranità da parte del popolo attraverso le istituzioni rappresentative nazionali, oramai svuotate di significato.

Se è vero che formalmente i parlamenti hanno ancora la piena legittimità a legiferare in autonomia, non si capisce come si potrebbe restituire sovranità a delle masse inconsapevoli indirizzate attraverso una propaganda manipolatoria, alfine ingannevole, priva di una coerenza con una teoria interpretativa della realtà e di un progetto politico-economico credibile.

Vediamo quindi partiti di destra, sinistra e misti, rigidamente leninisti, senza un Lenin alla loro testa, promettere soluzioni pur non avendo la minima idea di come realizzarle, ma soprattutto senza la minima intenzione di realizzarle.

La seconda possibilità è quella di accantonare temporaneamente l’obiettivo elettorale e di ricerca di un generico consenso, per costruire una teoria coerente (il più possibile) dei fenomeni sociali, con lo scopo di elaborare, anche in corso d’opera, un programma politico auspicabile per la maggior parte della popolazione. Si tratterebbe di costruire l’organizzazione di un potere controegemonico, risultante dall’alleanza strategica fra la classe media, parte dell’aristocrazia “illuminata” e le classi popolari, con le loro componenti più marginali. Una alleanza, non del 99%, espressione che idealizza un popolo mitologico, bensì dell’ 80%, che rappresenta bene tutti quelli che non appartengono alla nuova aristocrazia e non possono aspirare ad entrarvi.

Se questa trasmissione ereditaria del potere è divenuta obsoleta duecento anni fa con l’affermarsi del capitalismo, oggi risulta quantomai insopportabile la restaurazione di ingiustificabili privilegi di nascita.

Una alleanza anti-aristocratica, per avere successo, deve rigettare qualsiasi tentazione ad incarnare posizioni identitarie di destra o di sinistra, proposte soluzionistiche, semplificazioni dualistiche divisive. É chiaro che le minoranze tireranno da una parte e dall’altra, con l’unico scopo di accaparrarsi un poco di visibilità e di smontare il possibile concorrente, ma l’ampia alleanza deve saper resistere spostando continuamente l’equilibrio interno della decisione, valutando le istanze che rappresenta e quelle che invece non sono condivise, evitando che un piccolo gruppo egemonizzi la capacità programmatica.

Capisco che questo passaggio può risultare controverso, soprattutto per chi da decenni si muove soltanto sul terreno del riconoscimento ideologico e identitario. Se il nostro ruolo è quello di custodi della memoria e di valori storici che hanno fatto la storia del ‘900, ci condanniamo a non far parte del secolo che viene. La nostra idea di futuro deve essere positiva, costruttiva, non conservativa, nostalgica, resistente. Avanti! era il motto dei socialisti alla fine del ‘800, non Resistere, resistere, resistere.

Il cambio di paradigma nella organizzazione politica dovrebbe rappresentare quello che è stato l’illuminismo per l’ancien regime, la critica per il dogma, l’enciclopedia per le reali accademie.

L’obiettivo non può più essere la restaurazione delle democrazie rappresentative nazionali, che è il programma dichiarato dei sovranisti di destra quanto di sinistra, bensì la costruzione di relazioni economiche e politiche che permettano, per il maggior numero di persone possibili, l’esercizio di una libertà positiva, ovvero di una azione produttiva sociale che non sia frutto della costrizione del bisogno. Da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni.

Questo obiettivo può significare per chi appartiene all’aristocrazia e per la borghesia alta e media, quindi per chi ha spesso più occasioni per esprimere le proprie idee, il sacrificio di un assurdo standard di consumi voluttuari e il privilegio di esercitare l’autorità ad esclusivo vantaggio del proprio gruppo sociale, in cambio dell’appartenenza ad una comunità solidale che permette di vivere bene con meno risorse. Potremmo definirlo un comunismo non imposto con le armi ma scelto con la ragione e con il cuore. Quel downshifting che alcune persone benestanti, alla ricerca di un maggiore equilibrio interiore e benessere psicofisico, iniziano a scegliere individualmente. Queste scelte divengono motore di cambiamento soltanto se coinvolgono ampie masse della popolazione, che si coordinano in relazioni materiali produttive e riproduttive di tipo nuovo, che superano l’uso privato della proprietà.  Desiderare più tempo e meno denaro è possibile solo quando si ha abbastanza denaro e abbastanza tempo per poterne godere.

La motivazione individuale alla comunità.

Se assumiamo la condizione di non dover scegliere il comunismo per necessità, ovvero per poter soddisfare quei bisogni necessari (cibo, abitazione, istruzione, protezione) che nei secoli passati venivano negati alla stragrande maggioranza della popolazione, dobbiamo porci la questione del perché delle classi assurte al ruolo di relativamente “benestanti”, dovrebbero volere mettere in discussione le presenti relazioni sociali e rinunciare ad essere conservatrici e financo xenofobe.

Può sembrare controintuitivo ma è proprio quando vive nel benessere materiale, nella soddisfazione consumista, che l’essere umano comincia ad aspirare a qualcosa di più elevato della semplice riproduzione materiale. E’ in questa condizione che la persona comincia a desiderare non solo beni voluttuari ma anche una forma delle relazioni in cui si senta più libera. Oltre al pane, desidera anche le rose.

Il capitalismo e la sua attuale forma postfordista hanno avuto l’innegabile merito di aver soddisfatto, come mai prima d’ora, i bisogni necessari di miliardi di persone, dall’anno 2000 in poi della maggioranza della popolazione mondiale. Siamo nell’epoca della post-scarsità, o dell’abbondanza, che dir si voglia.

Ora si aprono due scenari possibili: la crescita o la stabilizzazione. Per crescita si intende la continuazione della tendenza in atto ad aumentare i livelli individuali si spesa procapite e quindi di consumo, per tutti. Visto che la popolazione mondiale è in aumento controllato e si attesterà secondo stime del UN sugli 11 MLD di individui nel 2100, questa prospettiva comporta un forte aumento della produzione alimentare e industriale, quindi dello sfruttamento di materie prime non rinnovabili, dell’inquinamento, fino ad una più rapida crisi malthusiana di esaurimento di quelle risorse disponibili.

La seconda opzione, a volte presentata come decrescita, felice perchè scelta, rappresenta la possibilità, invece, di porre l’interesse futuro dell’umanità e del suo ecosistema come prioritario rispetto al diritto a godere di sempre maggiori beni e servizi voluttuari da parte delle masse. Quindi cercare, più o meno con la attuale velocità di sfruttamento delle risorse, e anzi con un rallentamento, di redistribuirle in modo più equo, aumentando i consumi di quel 50% della popolazione mondiale che ancora oggi vive con meno di 6,5$ al giorno e diminuendoli al restante 50% che consuma di più, ovviamente in modo progressivo. Questo è il programma delle elites oggi che, in cambio della propria egemonia, quindi del privilegio di non rientrare in questo contenimento dei consumi, si garantiscono l’appoggio dei più poveri contro la classe media “occidentale” da impoverire. Questo è stato il programma economico della globalizzazione “sostenibile”. Il passaggio al neoliberismo ha rappresentato “il tradimento delle èlites” (Rampini 2016) nei confronti della classe media e dei suoi “stili di vita” e lo spostamento a destra dell’asse politico mondiale.

Il processo di contenimento dei consumi della classe media, che potremmo definire “comunitario” o ecologista, non può oggi attuarsi per via democratica perché è contrario agli attuali interessi materiali della parte più ricca della maggioranza della popolazione, almeno finché questi interessi materiali rimangono rappresentati esclusivamente dal consumo di beni e servizi.

Piuttosto che rinfacciare alle elites di preferire i destini dei poveri, dei migranti, rispetto alle classi medie nazionali che hanno dovuto contenere il loro stile di vita, come fa la destra sovranista, avremmo bisogno oggi di interpretare un nuovo modello di benessere per quelle classi medie. Un modello che non sia esclusivamente monetario ma invece compensi la perdita di potere d’acquisto con una maggiore libertà positiva, ovvero con una maggiore autodeterminazione della propria azione sociale. Fondamentalmente liberando questa classe media dall’obbligo di dedicare gran parte della vita al lavoro e alla formazione in vista del lavoro. Tempo contro denaro.

Conquistare la vita nella pienezza delle relazioni, cedendo un poco di giocattoli e di status esclusivi.

L’obiettivo successivo di questa classe media sarà poi l’espropriazione dei patrimoni delle elites, mediante l’integrazione della aristocrazia parassitaria.

I poveri non sono il soggetto della trasformazione ma l’oggetto.

Duecento anni fa i poveri erano l’87% della popolazione mondiale (fonte: https://www.gapminder.org/tools/#$state$time$value=1800;;&chart-type=mountain ). Vivevano in condizioni miserabili, sentivano bene il peso delle proprie catene e, quando se ne presentava l’occasione, finivano pure per farsi ammazzare a migliaia nelle lotte contro l’aristocrazia dell’epoca.

Oggi la miseria (la condizione di grave deprivazione materiale indicato da una consumo giornaliero individuale inferiore a 1,9 dollari, indice di povertà assoluta per la Banca Mondiale) è marginale, rappresenta circa il 10% della popolazione mondiale e in Europa è pressoché assente.

(http://pubdocs.worldbank.org/en/503001444058224597/Global-Monitoring-Report-2015.pdf )

La povertà è oggi strettamente legata al clima di instabilità (conflitti) di alcune regioni e, con la deprivazione culturale a cui si associa, favorisce il dilagare di movimenti religiosi e reazionari che arrivano all’estremo delle milizie fondamentaliste.  Possiamo dire che la povertà è la benzina della reazione antimoderna al servizio di gerarchie tradizionali.

I più poveri sono disposti a farsi ammazzare a migliaia per difendere i ricchi in grado di pagarli. A differenza di quell’epoca di rivoluzioni, infatti, sono le èlites a controllare la cultura anche popolare, e non la classe media illuminista. In cambio l’aristocrazia imperiale si impegna, attraverso gli organismi internazionali, come l’FMI, l’ONU, la FAO, ad esempio, a portare ai più poveri i benefici della globalizzazione, con risultati, in termini di lotta alla povertà, accesso alle cure e all’istruzione di base, in buona parte raggiunti.

L’aumento straordinario di produttività del lavoro, ha reso i lavoratori una parte minoritaria delle popolazioni e non la più povera. La maggior parte del lavoro si svolge nel settore terziario, che ha la funzione di perpetuare il sistema sociale e gli attuali rapporti di produzione.  Per questo l’arma dello sciopero, anche se conserva un peso strategico notevole, dove i sindacati non hanno abdicato al loro ruolo, è visibilmente spuntata.  Gran parte della popolazione produttiva è stata cooptata all’interno della classe media assumendone i valori e le pratiche individualistiche. Non si vuole qui sminuire il ruolo fondamentale delle nuove classi medie lavoratrici che anzi possono assumere, visto il peso numerico e economico, il ruolo trainante della trasformazione. Se c’è una classe in ascesa che può contendere alla nuova aristocrazia l’esercizio del potere, questa è proprio la diffusa piccola e media borghesia. Dovrebbe però riuscire a superare il proprio limite culturale di rappresentarsi come classe particolare di governati e cominciare a lottare per l’accesso alla conoscenza, piuttosto che ai consumi delle èlites.

La conoscenza che occorre alla produzione e riproduzione sociale si colloca, anche se in modo frammentato e parcellizzato dalla estrema divisione del lavoro,  proprio nelle classi medie che possono aspirare al ruolo di classe universale, in quanto detentrici della principale forza produttiva del valore.

Non sono certo i marginali, i fragili, i bisognosi, coloro le cui energie sono completamente assorbite dalla fatica della sopravvivenza, a poter sfidare l’egemonia culturale, economica e politica dell’aristocrazia. Possono essere la materia viva delle rivolte, le schegge che si lanciano contro le barriere della fortezza europa, che attraversano il mare per finire in lager presentati come centri di accoglienza. Coloro che non hanno di che vivere non possono mettere in crisi il sistema, anzi lo rafforzano. Rappresentano l’oggetto della narrazione mediatica, quando prendono la parola ripetono le banalità che sentono dire su se stessi.  Rivendicano diritti che non hanno conquistato, ritenendo gli provengano dalla natura o da dio.

I poveri dipendono dall’assistenza pubblica, dalla solidarietà privata, dalla tolleranza delle comunità e dal sovrappiù di risorse delle società opulente.  Sia chiaro, tutte le forme di assistenza verso chi non riesce a far fronte ai propri bisogni primari sono un dovere comunitario. Liberare le persone dal ricatto del bisogno è il primo passo verso una società che si pone anche come fine e non solo come mezzo.

Nel frattempo l’accoglienza, gli aiuti alimentari, le mense per i poveri, il reddito di cittadinanza, come qualsiasi misura universalistica di sostegno al reddito, slegata dal diritto al lavoro e quindi alla sua redistribuzione, sono misure umanitarie di controllo sociale dei poveri.  Non mirano ad eliminare la povertà ma a governare i poveri e a smussane i comportamenti antisociali.

L’organizzazione contro-egemonica.

Non possiamo sapere quale forma può assumere una organizzazione politica che si ponga  l’obiettivo della trasformazione in direzione del socialismo. Tra le varie possibilità attuate  si potrà osservare  quale forma è la più adatta alle condizioni storiche presenti. L’importante è che rimangano ben fermi i presupposti enunciati prima, di rifiuto di qualsiasi razionalità strumentale e adeguamento alle logiche utilitaristiche per fini elettorali. Dei tre piani della politica, quello teorico generale, quello del governo statale e quello locale dei territori, attualmente è il primo a rappresentare l’anello debole e quello in cui siamo chiamati ad attuare un cambio di paradigma adeguato alle mutate condizioni storiche.

Perché allora formare una nuova organizzazione e non affidarsi a quelle esistenti che hanno come scopo la ricerca sociale, come sono ad esempio i sindacati, le fondazioni, i centri studi?   Nulla impedisce che quegli organismi esistenti possano cooperare alla elaborazione di una teoria complessa dell’esistente che sia guida di una prassi trasformativa, eppure, per le ragioni storiche contingenti che conosciamo, legate alla loro genesi, questi istituti si sono spesso trasformati da enti di ricerca a strumenti di produzione di quei contenuti mistificatori ad uso della politica populista.

Anche per una maggiore disponibilità di mezzi economici, attualmente sono le fondazioni e le case editrici vicine a confindustria, o comunque liberali, a pubblicare gli studi più avanzati sulla trasformazione in atto delle strutture produttive, economiche e sociali. Segno che la nuova aristocrazia ha tutto l’interesse a mantenere un controllo egemonico sulla conoscenza. Le categorie sociali, che negli ultimi venti anni hanno mutato i loro rapporti reciproci, si sono trasformate.

Se non vogliamo riproporre la nostalgia del capitalismo che fu, faremmo meglio a studiare  e organizzare le soggettività molteplici della trasformazione sociale.

L’uso della tecnologia.

La tecnologia non fornisce in sé soluzioni ma nuove possibilità. Gli strumenti che hanno permesso la globalizzazione, ovvero  lo sviluppo di una società planetaria interconnessa, ci permettono anche di agire sulla trasformazione di questa società. Ma ciò che agisce non sono gli strumenti in autonomia bensì le forze produttive, quindi la combinazione di persone, relazioni, condizioni storiche, ambiente e strumenti tecnologici.

Lo sviluppo dei trasporti, della logistica e delle comunicazioni permettono di delocalizzare i processi produttivi, organizzativi e del consumo trasformando anche le relazioni di prossimità, di comunità e territoriali.

Nel momento in cui ci poniamo il problema di come evolvere la nostra attuale forma dei rapporti sociali, che conserva e a volte acuisce gli elementi di controllo e costrizione, quindi di separazione schizofrenica, verso una forma in cui gli individui siano effettivamente sociali, prendendo coscienza della loro intrinseca pluralità, del legame indissolubile che ne fa delle realtà complesse, ci dobbiamo porre il problema di come attuare queste nuove forme della relazione. Di come realizzare quella “città futura” in cui si possa affacciare una nuova forma della umanità.

Questo sforzo di immaginazione e progettualità non può prescindere dagli strumenti e dalla realtà materiale in cui siamo immersi, ben sapendo che questa immersione è certamente un limite ad immaginare e praticare qualcosa di radicalmente differente.

Come nell’epopea dell’industria, finora sono stati i proprietari di grandi capitali a condurre lo sviluppo delle relazioni globali verso la direzione che gli era più congeniale ma, con il tempo, altre forze sociali si stanno affermando, limitando e organizzando quelle forze produttive e riproduttive.

Proprio l’accesso ad un benessere diffuso e ad una diffusa proprietà individuale, permettono oggi di istituire nuove forme di relazioni produttive e riproduttive: prima fra tutte la redistribuzione del lavoro sociale necessario. A seguire possiamo immaginare strutture produttive di proprietà dei lavoratori, aziende pubbliche non statali destinate alla fornitura di servizi, governo decentralizzato dei territori con autonomia di spesa, messa a valore pubblico del patrimonio privato, come stabilito dalla costituzione… Queste possibilità non devono essere intese come “proposte” attese dall’alto ma come ipotesi progettuali, che possano impegnare vaste comunità di base coordinate in organizzazioni di scopo.