Verticalizzazioni dal rizoma.  

ph: m.minetti

di M. Minetti.

Differenze rizoma – albero

“ Un rizoma non incomincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo. L’albero è la filiazione, ma il rizoma è alleanza, unicamente alleanza. L’albero impone il verbo «essere», ma il rizoma ha per tessuto la congiunzione «e…e…e…». In questa congiunzione c’è abbastanza forza per scuotere e sradicare il verbo essere.” (Deleuze – Guattari 2003, p.60)

Termini come: dal basso, partecipazione, orizzontalità, condivisione, autogestione, informale, autorganizzazione, grassroots, collettiva, rete.. sono entrati a far parte persino del linguaggio delle aziende, figuramoci quanto siano radicati nella liturgia dell’organizzazione politica della sinistra sociale e radicale degli ultimi 40 anni. Quando nel 1999 è nata Indymedia, si pensava che la rete degli attivisti avrebbe potuto sovvertire la narrazione del potere, attraverso l’organizzazione delle attività dei singoli mediattivisti, per cambiare le forme di governance sovranazionali, basate sul debito, ad esempio, o sui trattati di libero scambio. Il motto era: «Don’t hate the media, become the media». Non che ciò non sia accaduto, in certe temporanee condizioni, ma la nascita di un diffuso giornalismo, più che altro su base volontaria e militante, non ha messo in secondo piano i media tradizionali (giornali, radio e televisione) e non ha impedito ai privati di colonizzare i nuovi media basati su internet, inaugurando l’era della post-verità. Anzi quell’epoca è iniziata proprio così.
Decentralizzazione non è necessariamente sinonimo di liberazione. L’organizzazione verticale non smette di esistere, anzi tende ad ampliare la sua base (di utenti, di clienti, di prosumers) per estrarre il nutrimento dai nodi delle reti di relazioni che si autoproducono.
Quello che si vuole qui sostenere è che avremo ancora bisogno di verticalizzazioni autonome, almeno fino al raggiungimento della “fine della storia”, ovvero di quel momento in cui i conflitti scompaiono e la storia si ferma in un eterno presente di pace universale. Se questo esito sia possibile, o anche soltanto auspicabile, lascio a chi legge deciderlo.
La narrazione rizomatica dei due “sacri pazzi” Deleuze e Guattari é stata fondamentale pars destruens rispetto ad un idealismo, che a sinistra sopravviveva nel marxismo hegeliano o cattolico, tutt’ora presente nella sinistra sovranista e talvolta libertaria, che ancora si affida all’eterogenesi dei fini di un supposto senso della storia.
Ispirativa e a suo tempo scandalosa, la metafora delle radici rizomatiche prende atto della coesistenza e della relazione trasformativa, per nulla coerente, di flussi e segmenti poco organizzati. La metafora biologica non può, d’altronde risolversi soltanto in un nuovo dualismo rizoma-albero, orizzontale-verticale, molecolare-molare ma, necessariamente, deve rimandare ad una complessità che ancora non siamo in grado di integrare. “Esistono strutture d’albero o di radici nei rizomi, ma inversamente un ramo d’albero o una divisione di radice possono mettersi a germogliare in rizoma” (Deleuze – Guattari 2003, p. 47).

Relazioni orizzontali come bene comune immateriale che produce ricchezza.

“Non dobbiamo più credere agli alberi nè alle radici né alle radicelle, ne abbiamo sofferto troppo. Tutta la cultura arborescente è fondata su di essi, dalla biologia alla linguistica. Invece, niente è bello, niente è innamorato, niente è politico, al di fuori degli steli sotterranei e delle radici aeree, il selvaggio e il rizoma.” (Deleuze – Guattari 2003, p. 48)

Dopo la decomposizione, osservata dai situazionisti ed espressa in pieno dal movimento del ’77, qualsiasi metanarrazione viene disgregata dalla ermeneutica del molteplice.
“Ogni interpretazione è determinazione del senso di un fenomeno. Il senso consiste precisamente in un rapporto di forze in cui certe agiscono e altre reagiscono in un insieme complesso e gerarchizzato.” (Deleuze 1997, p.20) Rifiutare la gerarchia obbliga a rifiutarne l’interpretazione.
Per questo il pensiero rizomatico è coerente e precipuo dell’epoca post-moderna. Il socialismo e l’illuminismo (liberale) erano le grandi metanarrazioni moderne, che hanno preso il posto della provvidenzialità divina nel cammino verso il progresso, le quali tutte soccombono alla negazione del Logos da parte del molteplice.
Assumendo la realtà come massa informe (coscienza del “nulla” sartriano), corpo senza organi, molteplicità incoerente, volontà di potenza come affermazione (multipla) e negazione (monista) (Deleuze 1997, p.21), senza più l’intenzone di comprenderla dandogli un senso nell’interpretazione, ci rimane la possibilità di descriverla, misurandola e disegnandola su mappe.
Il capitalismo numerico, (Gorz 2003, p.63), attraverso l’uso della statistica sui big data, permette una conoscenza del sistema mondo, descritto come un sistema macchinico insensato (non finalistico) strutturato sull’equilibrio di conflitti desideranti, numerando i suoi effetti. L’analisi dei comportamenti, come numero di elementi nello spazio e nel tempo, assieme alla loro trasformazione dinamica, che vengono raccolti in semplici associazioni probabilistiche predittive.
Per questo ha ottenuto notevole diffusione lo studio della società, dell’ambiente, delle economie, come sistemi chiusi e osservabili di meccanismi di retroazione, non significanti di per sé, limitati alla descrizione di una serie di parametri che interagiscono in una modellizzazione al computer. Si può così facilmente dimenticare che quei parametri riguardino le vite di milioni di persone.
L’opera di Nietzsche del 1886, Al di la del bene e del male, aveva già fatto tabula rasa dell’ ”amore di verità” che pretende di sottometttere l’umanità al suo dominio. In una delle sue rappresentazioni “ l’assassino di Dio è «l’uomo più brutto». Nietzsche vuol dire che l’uomo si imbruttisce ancora quando, non avendo più bisogno di una istanza esterna, si proibisce da sé ciò che gli veniva proibito e si carica spontaneamente di un ordine e di fardelli che non gli sembrano nemmeno più venire dall’esterno.” (Deleuze 1997, p.20)

Quella disgregazione della morale che il filosofo non era riuscito a provocare nella cultura a lui coeva, ci risulta oggi dalla applicazione riduzionista dell’analisi numerica, dove il criterio di verità è il numero più grande. L’emergere del più forte (più adatto) nel procedere evolutivo darwiniano, ci mostra una volontà di potenza, intesa come forza vitale, non antagonista all’idea dei corpi desideranti dei nostri Deleuze e Guattari. Oggi, se non vogliamo apparire ingenui o antimoderni, accettiamo l’interpretazione laica della realtà come teatro di conflitti irrisolvibili dove la nuova forma di vita sottomette e soppianta la vecchia, oramai obsoleta, per valori e capacità.
L’opera di storici come Diamond e Harari ci portano a considerare, senza alcuna compassione e anzi con una assolutoria giustificazione scientifica, perchè le società più “evolute” abbiano la bomba atomica e le popolazioni non industrializzate ancora le frecce o i machete, oppure come la tecnolgia abbia formato una “classe inutile” di “individui superflui”(Harari 2017, p. 301). L’intento, dichiarato più esplicitamente da Diamond (Diamond 2006, p.28) e meno da Harari, è quello di giustificare scientificamente il potere, in modo oggettivo, neopositivista potremmo dire, senza fare ricorso al razzismo o a pretese doti spirituali dei dominatori.
Eppure abbiamo fatto nostra la lezione dei tre “maestri del sospetto” (Ricoeur 1966, p. 47), Marx, Nietsche e Freud, per cui la nostra coscienza è grandemente una falsa coscienza costruita attorno a delle ideologie, anch’esse mistificatorie. Ci siamo finalmente liberati dalla idea che vi sia un “destino” provvidenziale e prestabilito della storia, come evidente residuo della religione ebraico-cristiana, ma non ci siamo ancora del tutto liberati dal pregiudizio di rappresentare noi stessi questo destino.
L’inversione materialistica dell’idealismo hegeliano, operata dai tre maestri, ha sciolto i professionisti dal giudizio morale del popolo sull’azione politica, rendendo giustizia al movente materiale, terreno, egoistico del desiderio di godere della ricchezza e del tempo in una società libera da costrizioni.

Ma cos’è questa “ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cos’è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa é se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato?” (Marx 1970, vol. 2 p.112 )

La ricchezza che supera capitalismo e produttivismo è quindi la totalità delle esternalità materiali e immateriali riprodotte nelle relazioni sociali. “La differenza tra produrre e prodursi tende a svanire” in quanto “lo sviluppo delle capacità e delle facoltà umane è al tempo stesso il fine dell’attività e l’attività stessa.”(Gorz 2003, p.62)

Il desiderio di godere di questa ricchezza, non solo economica, non è gerarchico, i desideri dei singoli, ricchi o poveri, hanno pari dignità, ma spesso suppongono, nella nostra rappresentazione, una identità singolare dell’individuo che invece è tutta da dimostrare. L’atomismo individualistico hobbesiano è una invenzione recente e tutto sommato poco credibile.
La metafora del rizoma, se paragoniamo ogni accumulo ad un individuo, oppure ad un nucleo sociale minimo, non ne prevede una identità singolare. «La singolarità di ciascuno è indissociabile dal suo essere-con-in-tanti» scrive J.L. Nancy nel suo Essere singolare plurale (Nancy 2001 p.47 ). I rizomi non sono che cloni indistinti, portatori di un identico patrimonio genetico e serbatoi di nutrimento per la pianta, la cui sopravvivenza è l’obiettivo generale. Il fine della pianta di patate non è la moltiplicazione dei suoi tuberi rizomatici, quello è casomai lo scopo per cui noi umani la coltiviamo, ma la riproduzione sessuata che, grazie alla ricombinazione genetica, permette un aumento della biodiversità e quindi adattabilità agli ecosistemi dinamici in espansione. Il rizoma è una patata, non facciamone un feticcio.

Le strutture verticali di estrazione e il capitalismo numerico. Le piattaforme, lo stack e le elites.

“I sistemi arborescenti sono sistemi gerarchici che comportano centri di significanza e di soggettivazione, automi centrali come memorie organizzate. I modelli corrispondenti sono tali che un elemento non vi riceve le sue informazioni se non da una unità superiore, e da una destinazione soggettiva, da collegamenti prestabiliti. Lo si vede bene nei problemi attuali di informatica e di macchine elettroniche, che conservano ancora il più vecchio pensiero nella misura in cui conferiscono il potere a una memoria o a un organo centrale.”(Deleuze – Guattari 2003, p. 49)

George Orwell nel 1936 pubblica un romanzo chiamato Fiorirà l’aspidistria, il comune nastrino, per farne l’emblema della miseria piccolo-borghese, resistente e ben radicata grazie ai suoi numerosi rizomi. Con grande intuito predittivo, l’autore presenta il protagonista di questo romanzo, che rinuncia alle sue velleità ideali e artistiche per diventare un creativo pubblicitario, come un soggetto antesignano dell’odierno cognitariato, impegnato nella costruzione dell’allora nascente industria di senso.

“La comunicazione prodotta dall’avvento dell’industria di senso avrebbe generato un cortocircuito mentale […] proprio nella costruzione di una nuova percezione del sé, della vita collettiva, della società e della vita stessa. […] Una industria che mette la propria potenza a disposizione di chi ha i mezzi economici per utilizzarla, sia essa una impresa che deve vendere, sia esso un uomo politico o manager o un partito. “ (Bellucci 2019, p.31)

Se assumiamo la linfa, presente nei rizomi, come la conoscenza, il capitale umano, di cui il capitalismo delle piattaforme, come dispositivo estrattivo, si nutre, rileviamo la contraddizione insanabile fra il bisogno di aumentare il capitale immateriale estraibile e i tentativi, in gran parte riusciti, di limitare la diffusione della conoscenza verso gli strati sociali più bassi.
La concentrazione delle mega-strutture della accumulazione e trasmissione delle informazioni, l’esosfera l’ha chiamata Bernard Stiegler, descritte da Bratton con la definizione di stack, è stata l’evoluzione delle tecnologie IT degli ultimi 30 anni, in una tendenza costante dalla nascita di internet nel 1991.

“ Per Bratton le reti, i media e le piattaforme non sono più entità distinte” (Lovink 2019, p.81) […] Il concetto di stack esprime il fatto che ogni cosa è connessa, integrata, stratificata in una unica grande infrastruttura digitale.”(Lovink 2019, p.82)
Se da una parte lo svilupparsi di una moderna aristocrazia, (Stewart 2018) esprime la spinta centripeta che mantiene le conoscenze custodite da una elite, selezionata mediante costosi percorsi universitari, una spinta centrifuga molto potente viene dal sempre più facile accesso a quantità enormi di dati e conoscenze che riescono a sfuggire alle maglie dei monopoli e della privatizzazione di questi beni comuni immateriali. “Il capitalismo cognitivo non è un capitalismo in crisi, è la crisi del capitalismo” (Gorz 2003, p.59).
La diffusione della conoscenza, che durante l’età moderna è stata il volano per il sistema produttivo capitalistico, oggi, arrivati al salto di paradigma per cui è la conoscenza stessa la forza produttiva principale, e non il capitale o il lavoro, si rivela proprio come il contraddittorio ostacolo che si oppone alla estrazione dei profitti. Il profitto è infatti, per gli economisti neoclassici, una inefficienza del mercato dovuta ad una disparità di conoscenza tra domanda e offerta: “ricarichi ingiustificati su prodotti e servizi”(Mayer-Schonberg – Ramge 2018, p. 182) ottenuti grazie alla mancanza di concorrenza, quindi ad un vantaggio strategico). Tra gli economisti si inizia a rilevare che sono proprio i profitti a raccogliere la quota più grande della ricchezza prodotta, a discapito del capitale e del lavoro (Barkai 2016, p. 2). Parlare ancora di capitalismo può allora risultare inadeguato. E’ evidente che la diffusione della conoscenza, come dell’informazione e della intelligenza, è ancora poco praticata, per l’efficace disincentivo messo in atto proprio da quelle “industrie di senso” monopolistiche che traggono vantaggio dalla generazione di profitti. Il marketing è opposto, nella sua funzione, alla condivisione di informazioni e alla concorrenza sui mercati.
Mentre le enclosures, nel XVIII secolo, privatizzavano i beni comuni naturali, mettendoli a valore, oggi è la privatizzazione di quei beni comuni immateriali che viaggiano sulle autostrade informatiche, “recintate” da monopoli economico-militari, che permette di estrarne profitti. Se distinguiamo l’internet, cioè le infrastrutture di tramissione dei dati nel World Wide Web, dai contenuti trasmessi su quelle reti, osserviamo una divaricazione fra la struttura tecnologica ad albero e i suoi contenuti rizomatici. Il contenitore è gestito per la maggior parte secondo l’organizzazione a stack, ovvero centralizzata e rigidamente gerarchica nei permessi e nell’accesso, mentre le informazioni viaggiano, apparentemente senza organizzazione gerarchica, tra i vari nodi della rete. Parlando di internet ci confrontiamo con una supremazia tecnologica degli Stati Uniti che rasenta il monopolio della conoscenza. Le principali aziende dell’IT, associate alla Sylicon Valley per la loro concentrazione geografica, rappresentano i nuovi feudatari della rete globale, considerata come un territorio da cui si produce una rendita enorme. Rendita di posizione, conquistata sul numero di brevetti spesso frutto della ricerca pubblica, sulla proprietà dei cavi della rete, sull’accesso ai dati di miliardi di utenti ignari, che riesce facilmente a sottrarsi alla fiscalità degli Stati, grazie all’alleanza con l’establishment politico-economico-militare.
Le infrastrutture verticali di estrazione della conoscenza dall’immenso campo del capitale immateriale, accumulato e continuamente prodotto dai singoli, sono le fabbriche di senso odierne e rappresentano quei dispositivi di cui la società intera potrebbe appropriarsi, per non perpetuare la relazione di sfruttamento dei molti da parte dei pochi.
La possibilità tecnologica di copiare e traferire informazioni in quantità pressocchè infinite permetterebbe di diffondere una forza produttiva, oggi la più potente, in grado di abolire globalmente la scarsità e la miseria. “Virtualmente superato, il capitalismo si perpetua impiegando una risorsa abbondante – l’intelligenza umana – a produrre scarsità, compresa la scarsità d’intelligenza. (Gorz 2003, p.58)
Più che della proprietà comune dei beni comuni dovremmo occuparci, quindi, della proprietà comune degli stack, quelle megastrutture che ora sono saldamente possedute dall’elite dei “signori del silicio” e dal capitale finanziario, e che andrebbero collettivizzate nei red stack. (Terranova 2014)

La proprietà comune del capitale immateriale e delle strutture riproduttive del senso e della ricchezza: il red stack.

“Vi è rottura nel rizoma ogni volta che linee segmentate esplodono in una linea di fuga, ma la linea di fuga fa parte del rizoma.”(Deleuze – Guattari 2003, p. 41)

Piuttosto recentemente si sta delineando una riflessione politica rispetto alle infrastrutture digitali e al loro governo. Geert Lovink nel suo ultimo libro, Nichilismo digitale, ci riporta che

“nel tentativo di politicizzare le vaghe definizioni di stack, gli hacktivisti hanno suddiviso il concetto totalizzante di stack in tre sfere distinte: privata, statale e pubblica. Lo stack privato si rivolge – almeno al momento – ai consumatori, utilizza tecnologie chiuse ed è gestito in base a logiche di mercato. Lo stack statale si rivolge ai governati, impiega tecnologie chiuste ed è gestito dallo Stato. Infine lo stack pubblico, posseduto e gestito dai cittadini, si basa su tecnologie aperte e applica le regole valide per i beni comuni.” (Lovink 2019, p.88)

Con l’obiettivo di costruire e potenziare lo stack comune, definito anche come red stack, si è configurata così una nuova declinazione dell’hacktivismo. “Lo stacktivismo è un «hacktivismo» animato dalla consapevolezza olistica dei numerosi livelli esistenti sia al di sopra, sia al di sotto del «codice». Lo stacktivismo pensa (agisce, hackera, interviene) in termini verticali.”(Lovink 2019, p.88)
Come accedere a questi strumenti, intesi come dispositivi tecnologici ma anche come costrutti sociali di organizzazione del lavoro collettivo, senza partire da un capitale finanziario ingente e senza che queste relazioni si condensino in una nuova gerarchia conservatrice del potere?
Una piattaforma del comune potrebbe anche avere la forma di una organizzazione politica, il ruolo che finora hanno svolto gli Stati o le istituzioni locali come comuni o regioni, o di un mercato comune. Ma come?  Lo stack è “ per Bratton una combinazione di piattaforme”. Per lo stesso autore

“le piattaforme raggruppano le cose in aggregati temporanei di ordine più elevato. Egli le definisce come ibridi, forme organizzative squisitamente tecniche, alimentate dall’indeterminatezza degli esiti. In quanto organizzazioni, le piattaforme possono assumere un importante ruolo istituzionale. Somigliano sia ai mercati sia agli Stati, ma non sono identiche ne agli uni né algi altri. Esse danno vita a un nuovo tipo di sovranità, a una terza forma istituzionale. Mentre le piattaforme operano a livello orizzontale, gli stack sono definiti in termini di integrazione verticale.” (Lovink 2019, p.85)

Solo degli inconsapevoli nostalgici dei totalitarismi auspicano, oggi, l’accentramento di una proprietà pubblica comune in una proprietà statale, nazionale, monopolistica. Il pericolo per le libertà individuali che la coincidenza di monopolio della conoscenza, potere politico e amministrazione delle strutture produttive porta con sé è evidente. L’esperienza sovietica e la intersezione capitalistico-nazionale contemporanea, vicina al modello inaugurato dai fascismi europei, non risultano essere esempi di emancipazione delle classi popolari dalla condizione di dominati, piuttosto attuazioni delle più cupe distopie del controllo.
Risulta certamente più auspicabile un modello di equilibrio conflittuale tra forze produttive, politiche, economiche, della conoscenza, in cui il ruolo di governo sia mantenuto il più possibile da istituzioni di prossimità, verosimilmente al livello municipale. Un equilibrio dinamico in cui l’agire e il fine siano la riproduzione della ricchezza sociale.
Se la distribuzione equa di questa ricchezza, materiale e immateriale, è il fine comune, i mezzi tecnici di riproduzione sociale non possono essere posti sotto il controllo di una classe, sia pure di amministratori, che se ne giovi privatamente. Devono quindi essere posseduti da tutti in comune ma, individualmente, in modo differente.
“Il «desiderio di piattaforma» dovrà essere controbilanciato da nuove forme di cultura della rete”(Lovink 2019, p.89) che sappiano integrare tutti gli aspetti delle megastrutture. Ci troviamo di fronte ai primi passi in questa indagine che è autoproduttiva e autogenerativa, e che potrebbe guidarci nella progettazione e nella realizzazione di nuove megastrutture che abbiano finalità emancipative.

Bibliografia-sitografia.

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Parole chiave: rizoma, economia, beni comuni, ricchezza, stack, immateriale, filosofia, futuro

Abstract: L’articolo presenta una critica del concetto post-struttralista del rizoma, di Deleuze e Guattari in una prospettiva di superamento del capitalismo e del governo comune delle infrastrutture produttive e riproduttive della ricchezza sociale.